Grazie ad Investigatore Biblico per queste analisi sulle pessime nuove traduzioni bibliche.
Luigi C.
1\-9-25
Fino ad oggi non avevo ancora affrontato questa parte del versetto di Filippesi 2,6a, non perché la ritenessi secondaria, ma perché desideravo studiarla con attenzione. Sono molto meticoloso e, prima di pubblicare le mie riflessioni, volevo approfondire a fondo il testo; solo ora ho trovato il tempo per farlo. Il contesto è quello del celebre inno cristologico di Filippesi 2,6-11, un inno che esalta la divinità di Cristo mostrando come, pur essendo Dio, non considerò un privilegio l’essere uguale al Padre, ma si abbassò fino alla morte di croce, ricevendo poi dal Padre l’esaltazione sopra ogni nome.
Ho già trattato in un altri scritti la parte successiva di questo versetto, quella che possiamo chiamare la sezione “b” (ai lettori basterà leggere questi link Indizio n.1 Bibbia CEI 2008: “Voglion sradicare la Divinità di Gesù Cristo?” di INVESTIGATORE BIBLICO – Investigatore Biblico, “CLAMOROSO! Domenica delle Palme con Eresia (Ariana e Luterana): La CEI 2008 e il Tradimento di Filippesi 2,6” di IB – Investigatore Biblico). Oggi, invece, vorrei fermarmi sul cuore dell’affermazione paolina in Filippesi 2,6a, un passaggio che nella sua brevità racchiude un concentrato di teologia cristologica tra i più alti del Nuovo Testamento.
La Bibbia CEI 2008 lo traduce così: «egli (Gesù), pur essendo nella condizione di Dio…». La precedente traduzione CEI del 1974, più chiara e forte, diceva invece: «pur essendo di natura divina». Sembra un dettaglio di poco conto, una variazione quasi stilistica. Eppure, a ben guardare, la scelta operata nel 2008 sembra smorzare volutamente l’affermazione paolina, attenuando la sottolineatura della divinità di Cristo. Si parla di una “condizione”, una situazione in cui Gesù si trova, non della sua vera e propria natura. È un termine che rischia di deviare l’interpretazione, lasciando aperta l’impressione che si tratti di un ruolo assunto piuttosto che della sostanza stessa di Cristo.
Il testo greco, tuttavia, è chiaro: ἐν μορφῇ Θεοῦ ὑπάρχων (en morphē Theou hyparchōn), cioè «essendo in forma di Dio». San Girolamo, con la precisione che lo contraddistingue, traduce nella Vulgata: «cum in forma Dei esset». La fedeltà della sua resa è esemplare, perché il termine μορφή (morphē) non significa “condizione” in senso sociologico o contingente, ma rinvia a una dimensione metafisica e sostanziale.
Nella filosofia aristotelica, la morphē non è un’apparenza esteriore: è ciò che dà identità e realtà a una cosa. La morphē è forma sostanziale, principio determinante, ciò che fa sì che una materia diventi un ente concreto e specifico. In opposizione a hylē (materia), la morphē è ciò che costituisce realmente un essere. Applicata a Cristo, la parola significa che egli era, nella sua più intima essenza, nella stessa realtà di Dio. Non una semplice condizione accidentale, ma la forma stessa che lo pone in unità ontologica con il Padre.
La traduzione CEI 2008 con “condizione di Dio” appare dunque povera, quasi riduttiva: rischia di lasciare intendere che Gesù fosse in una situazione di prossimità o di vicinanza a Dio, come se la sua divinità fosse un attributo accessorio o un onore conferito. In lingua italiana il termine “condizione” indica uno stato contingente o esteriore in cui qualcuno si trova (es. “essere nella condizione di malato”, “vivere in condizione di povertà”), quindi rimanda a qualcosa che può cambiare.
La parola “forma”, invece, indica la struttura essenziale e costitutiva di una realtà (es. “la forma di un triangolo”, “in forma di Dio”), e grammaticalmente ha valore sostantivo oggettivo, non accidentale: descrive ciò che una cosa è, non soltanto ciò che appare o attraversa. In realtà, Paolo afferma con forza che Cristo è nella forma stessa di Dio, partecipe della sua identità divina in modo costitutivo.
Non sono mancate, nella tradizione patristica, voci che hanno confermato questa lettura. Sant’Atanasio, nel De Incarnatione, insiste che il Figlio è “della stessa sostanza del Padre, vero Dio da vero Dio”, e cita proprio Filippesi 2 come testimonianza della divinità eterna di Cristo. San Giovanni Crisostomo, nel commento a questa lettera, scrive: «Paolo non dice che Cristo era simile a Dio, ma che era in forma di Dio, per mostrare che non differiva in nulla dal Padre». E ancora, san Basilio, nel Contra Eunomium, interpreta morphē come ciò che esprime l’essenza e non l’apparenza, rifiutando ogni riduzione a mera figura esteriore.
La Bibbia CEI 1974, con la sua formula “di natura divina”, cercava di rendere comprensibile questa profondità teologica, e pur con i suoi limiti semantici si manteneva fedele al cuore del testo. La revisione del 2008, scegliendo “condizione di Dio”, ha preferito un termine che forse risulta più immediato al lettore moderno, ma che tradisce la densità concettuale e rischia di attenuare l’affermazione cristologica più alta: Cristo è Dio, non soltanto in una condizione simile a quella di Dio.
Per questo motivo non esito a dire che la resa del 2008 sembra quasi pensata per ridurre la portata dirompente di questo versetto, come se si volesse smussarne la forza teologica. È come se la traduzione tentasse di rendere più leggibile a costo di sacrificare la verità piena delle parole di Paolo. Ma la Scrittura, soprattutto in passi come questo, non va addomesticata: va lasciata parlare nella sua audacia originaria.
Filippesi 2,6a resta allora uno dei punti più alti della rivelazione neotestamentaria: l’apostolo proclama che Cristo Gesù, pur essendo in forma di Dio, non considerò un tesoro geloso l’essere uguale a Dio, ma si è svuotato, assumendo forma di servo. Qui la fede della Chiesa trova il suo fondamento: Dio stesso si è fatto uomo, senza perdere nulla della sua divinità. Una traduzione che riduce questo mistero a una semplice “condizione” rischia di oscurare la verità centrale della nostra fede.
