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domenica 21 settembre 2025

"Elogio della Bellezza". Centro Studi Livatino

Grazie al Centro Studi Livatino per questa analisi sul valore della "bellezza".
"Con la bellezza, verità e bene tornano a parlarsi. Sta a noi, senza arroganza e senza paura, scegliere di nuovo la loro compagnia".
Luigi C.

25-8-25

Perché non tutto è relativo e perché non dobbiamo vergognarci di dire che la bellezza esiste.

Viviamo in un tempo in cui la parola “bellezza” crea imbarazzo, quasi avesse da scusarsi di esistere. A furia di confondere rispetto con indifferenza, inclusione con equiparazione, cura con autoindulgenza, siamo ormai abituati ad un lessico che teme l’ideale e celebra soltanto il “già dato”. Stiamo vivendo un’epoca che sembra aver dimenticato il valore della bellezza, in cui la provocazione si fa canone, la trascuratezza si traveste da autenticità, il disordine viene celebrato come libertà. È la grammatica del relativismo estetico: se tutto è bello, nulla lo è più; se ogni forma vale quanto la sua contraria, la bellezza non è che un’opinione tra le altre. Eppure l’esperienza comune resiste a questa semplificazione. Quando un volto, un edificio, un gesto, una lettura, una musica entrano nel profondo, ci “toccano”; non siamo di fronte a un capriccio privato: riconosciamo un ordine, una misura, una promessa di fioritura. La bellezza parla un linguaggio che l’anima ricorda.
Sant’Agostino, nelle Confessioni, ha tramandato parole che attraversano i secoli: «Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova». Non è semplice lirismo: è il riconoscimento che la bellezza non è un’invenzione della nostra volontà, ma qualcosa che ci precede e ci chiama.
San Tommaso d’Aquino, con il suo rigore, ne dà una formula di cristallina eleganza: «Pulchrum est quod visum placet» — “il bello è ciò che, visto, piace” — e ne indica le note: integritas (perfectio), proportio (consonantia), claritas. Non tirannie estetiche, ma criteri umili e oggettivi, simili a un alfabeto: senza lettere non c’è parola; senza misura non c’è figura.

Il relativismo — gemello di un nichilismo che consuma tutto senza amare nulla — disfa questi criteri in nome di una libertà priva d’orizzonte, che si riduce ad arbitrio. Si pretende che ogni preferenza personale equivalga a giudizio, che l’eccezione si faccia regola, che il rifiuto di discernere sia l’unica gentilezza possibile. È una scorciatoia che impoverisce. L’inclusione, bene prezioso e non negoziabile, non domanda di negare l’ideale: domanda di distinguere tra il rispetto dovuto alle persone e la proposta di modelli. Dire “sei degno adesso” non implica dire “non c’è nulla a cui tendere”; al contrario, proprio il rispetto chiede immagini che parlino di crescita, di cura, di forma.

La comunicazione commerciale, termometro della società odierna, cade spesso nella contraddizione più vistosa: proclama che ogni corpo, stile e gesto sono già perfetti, mentre nello stesso istante vende prodotti e percorsi per “migliorare”. È il paradosso del nichilismo estetico: negare l’ideale e insieme monetizzare la nostalgia dell’ideale.

Una cultura adulta non teme di coniugare dignità e misura. Lo scopo non è uniformare, ma orientare; non mortificare la varietà, ma offrirle un riferimento. La bellezza è l’arte della relazione: tra parti e tutto, tra fini e mezzi, tra libertà e verità.

A chi obietta che i canoni sono storici e mutevoli va concessa una porzione di verità: mode e costumi cambiano. Sotto il fruscio degli stili, tuttavia, persistono regolarità: simmetrie che rasserenano, ritmi che sostengono, proporzioni che fanno sospirare, linee sobrie che promettono durata. Non si tratta d’ingabbiare l’individuo in misure astratte, ma di restituire al gusto il suo alfabeto.

Ammettiamolo: il punto fondamentale, troppo spesso eluso per timore di sembrare “esclusivi”, è uno soltanto: la bellezza implica sacrificio, impegno e lavoro. È bello il voto conquistato all’esame quando scende come luce sulle notti insonni e sui divertimenti lasciati andare; ed è bella la vittoria in pista, quando l’atleta si commuove non per il titolo in sé, bensì perché ogni lacrima è ricca di tutti i sacrifici che l’hanno condotto fino al traguardo. Ma oggigiorno impegno e sacrificio sono messi da parte: tutto è dovuto e ogni pretesa si fa diritto; viviamo nell’epoca del «tutti hanno vinto», così da non offendere nessuno, di fatto, annullando il vincitore, eppure, in un mondo rumoroso di affermazioni, la bellezza ha la mansuetudine del vero: non urla, convince. John Keats lo disse con una limpidezza che non invecchia: «A thing of beauty is a joy for ever» — una cosa bella è una gioia per sempre.

È in questo contesto che la cosiddetta ideologia woke rivela tutto il suo fraintendimento. Nata come vigilanza contro le ingiustizie, si è fatta catechismo rigido e tribunale permanente. Scambia il rispetto con l’immunità dal giudizio, così che ogni discernimento venga bollato come aggressione. Eleva l’eccezione a regola e degrada l’ideale a superstizione, trasformando il merito in sospetto e la qualità in privilegio. Fa del linguaggio una polizia morale, più attenta a sanzionare parole che a comprendere verità. Esibisce una contabilità interminabile dei torti e alimenta un vittimismo professionale che paralizza la responsabilità personale. Il risultato è un livellamento che non libera: impedisce di dire che alcune forme educano e altre diseducano, che alcuni modelli elevano e altri degradano. È un’ideologia che invoca inclusione mentre censura il dissenso, che predica fragilità e punisce la fortezza, che teme l’eccellenza perché ricorda una misura. Contestarla non è crudeltà: è difesa del reale. «La bellezza salverà il mondo», fa dire Dostoevskij al principe Myškin. La frase diventata proverbio rischia oramai l’usura; resta, tuttavia, una profezia civile: la bellezza salva perché ricompone, perché mostra che verità e bene possono piacere.

Ritrovare la bellezza significa riaprire, senza complessi, una pedagogia del gusto. Nelle scuole, nelle famiglie, negli spazi pubblici e privati, si può imparare a vedere: riconoscere proporzioni, ritmi, luci; chiedere coerenza a ciò che indossiamo, abitiamo, costruiamo. La città è maestra: una piazza ben disegnata insegna civiltà più di mille proclami.

Anche il diritto, quando disegna regole e istituzioni, conosce la bellezza e anzi la richiede. Ius est ars boni et aequi — come definisce elegantemente Celso, riportato da Ulpiano nel Digesto: il diritto è arte del buono e dell’equo, cioè misura e armonia applicate alla vita comune. La proporzionalità delle pene è un giudizio di forma prima ancora che di quantità; la simmetria tra diritti e doveri non è geometria astratta, ma eleganza morale; la forma degli atti non è burocrazia, è garanzia di sostanza; la chiarezza delle norme è luce che rende giustizia. Una sentenza ben motivata è bella perché è giusta, ed è giusta perché è bella: splendor formae, che nel foro si fa persuasione e pace sociale.

Non è un caso che, nelle epoche in cui l’idea di verità si assottiglia, dilaghi il “tutto e subito” di immagini spettacolari e fugaci. La bellezza, invece, chiede tempo. Michelangelo, con la sapienza degli artigiani, ricordava che la statua è già nel marmo: occorre togliere il superfluo. È un’immagine esigente, ma liberante. La forma non aggiunge peso: libera l’essenziale.

Qualcuno paventerà il ritorno dei “diktat” dell’apparenza. Timore legittimo: la storia conosce tirannie del bello tanto quanto idolatrie del brutto. Ma la via è un’altra, la bellezza è gentile e ferma. Gentile, perché non offende né deride; ferma, perché non si rassegna all’idea che elogiare una forma significhi sminuire chi oggi non la possiede. L’amore vero non si accontenta: istruisce senza umiliare, attende senza rinunciare. La virtù non consiste nel “va bene tutto”, ma nel “puoi diventare migliore”. È un atto di fiducia, non di censura.

La bellezza non è nemica della libertà; ne è condizione. Senza un criterio, la libertà si consuma in scelte casuali; senza ordine non vi è libertà. Difendere la bellezza — proporzione, armonia, chiarezza, impegno, sacrificio, vitalità — non è capriccio d’esteti, ma servizio alla polis. Non si tratta di erigere recinti, ma di tracciare sentieri. Non di escludere, ma di promettere. In fondo, la bellezza chiede ciò che chiedono le cose che contano: cura. E prendersi cura di qualcosa o di qualcuno è la forma più concreta di fiducia e di speranza.

Con la bellezza, verità e bene tornano a parlarsi. Sta a noi, senza arroganza e senza paura, scegliere di nuovo la loro compagnia.

Avv. Giacomo Idolo Piscitelli