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venerdì 25 luglio 2025

La censura mainstream colpisce il blog “Messa in Latino”, poi riaperto. Ecco cosa è successo

Ancora sulla rimozione e ripristino di MiL.
Luigi C.

23-7-25

La rete e i social, lo sappiamo, consentono a ciascuno di esprimere le proprie opinioni, però nel contempo la scure della censura è pronta ad abbattersi su quanti affermino e diffondano pubblicamente tesi che si discostano dal mainstream della cultura woke e dal “politicamente corretto”. E’ accaduto più volte a Pro Vita & Famiglia onlus, ma è accaduto anche a chi si occupa di altri temi e altri argomenti, anche quelli più confessionali o comunque riferiti al mondo della Fede e, in particolare, della Chiesa cattolica. Stiamo infatti parlando di quanto successo al blog Messa in Latino, curato da Luigi Casalini, oscurato senza motivi nelle ultime settimane e praticamente soltanto oggi - sempre senza motivazioni - riapparso online.

Una censura, poi ritirata, non solo inspiegabile e dai contorni tutt’altro che chiari, ma che è ha anche messo a repentaglio un archivio di oltre vent’anni di contenuti, pubblicazioni e articoli (più di 22.000), frutto di una pubblicazione quotidiana con oltre 1 milione di visualizzazioni mensili solo nel mese precedente al temporaneo oscuramento. Come detto il blog Messa in Latino si occupa quasi sempre di notizie e temi diversi - o comunque non dello stesso taglio laico - rispetto a Pro Vita & Famiglia onlus, ma la comunanza di vedute contro la narrazione mainstream ci porta a tentare di rintracciare le ragioni di tale censura, ed è per questo che abbiamo intervistato il suo fondatore Luigi Casalini.

Cosa è accaduto e per quanto tempo siete stati ‘oscurati’?

«Con una semplice email non firmata (se non da un generico “Il Team Blogger”) ci è stato comunicato l’11 luglio scorso che il blog era stato rimosso per asserita violazione della ‘hate speech policy’. Da allora Blogger (cioè Google, di cui blogger.com è un’emanazione) non ha risposto alle nostre richieste di chiarimenti. Così come il blog è stato oscurato senza troppe spiegazioni, oggi è riapparso online, sempre senza che qualcuno si scomodasse troppo a spiegare».

Quindi nessuna motivazione? Lei quali pensa possano essere state?

«Le ragioni sono ignote. Possiamo solo supporre, sulla base del fatto che nelle settimane immediatamente precedenti singoli post erano stati rimossi (ma poi ripristinati), sempre per asserita violazione dell’hate speech policy, che in realtà qualche malevolo lettore (sappiamo di qualcuno che se ne è vantato) ci abbia preso di mira, ‘flaggando’ a ripetizione i nostri contenuti. Non pare ci sia un sistema per impedire allo stesso soggetto, con un minimo di capacità informatica (tipo saper cancellare i cookies) di reiterare all’infinito tale comportamento. L’IA di Google, che evidentemente è molto stupida e rudimentale, deve aver reagito alla quantità di segnalazioni rimuovendo tutto; probabilmente ciò avviene automaticamente quando si eccede un certo numero o una certa frequenza nel tempo di segnalazioni per contenuto inappropriato. Il che è assai preoccupante, se riflettiamo che la libertà di manifestazione del pensiero, se non si commettono reati, dovrebbe essere sempre garantita, come recita l’art. 21 della Costituzione».

Prima della riapertura aveva agito in qualche modo?

«Le nostre iniziative erano state giudiziarie, con un ricorso d’urgenza depositato il 17 luglio al Tribunale di Imperia, non sappiamo se questo c’entri qualcosa con la riapertura».

In ogni caso quali argomenti avete fatto valere nel ricorso presentato?

«Anzitutto la violazione del Digital Services Act (DSA), il Regolamento europeo con forza di legge che, in casi come questi, obbliga i provider a fornire “una motivazione chiara e specifica per le restrizioni imposte”, che deve precisare “i fatti e le circostanze su cui si basa la decisione adottata”, compresi i dettagli degli eventuali flag di materiale inappropriato e, nel caso, anche l’identità del segnalante. Tali informazioni devono essere “il più precise e specifiche” e devono specificare la “base giuridica invocata” o “la clausola contrattuale invocata e una spiegazione delle ragioni per cui le informazioni sono ritenute incompatibili” (art. 17 DSA). Inoltre è imposto ai provider di dare un “avviso preventivo” in cui sia specificata la frequenza delle violazioni riscontrate e il loro numero; il provvedimento restrittivo dev’essere proporzionato sia a tale frequenza, sia alla proporzione di tali violazioni rispetto alla massa totale delle pubblicazioni sul sito (art. 23 DSA). Eppure Google non ha predisposto un adeguato sistema di reclamo interno contro i provvedimenti restrittivi, pur imposto dall’art. 20 DSA, né per quanto si sappia verifica l’attendibilità dei segnalatori, come prescrive invece l’art. 16 DSA. In secondo luogo la violazione delle Condizioni generali di contratto imposte dallo stesso Google, che prevedono in casi come questi un preavviso da parte di Google di almeno sette giorni, “per spiegare il motivo del nostro provvedimento e dare all’utente la possibilità di risolvere il problema”. Come detto, non è stato dato alcun preavviso e men che meno spiegato il motivo in modo da consentire la risoluzione del problema. In terzo luogo, l’appropriazione della proprietà intellettuale. Tutti i 22.000 post pubblicati ed altri 250 già pronti per la pubblicazione, con le migliaia di fotografie originali, sono stati per giorni inaccessibili non solo al pubblico, ma anche ai titolari e gestori della relativa proprietà intellettuale, messi nell’impossibilità di utilizzarli o di trasferirli altrove. Infine la violazione del diritto costituzionale alla libera manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.). Questo è il profilo più grave. Google si arroga il potere, senza incorrere in responsabilità e senza dare ragione e motivazione del come e perché lo esercita, di violare uno dei più importanti diritti fondamentali previsti dalla nostra Carta Costituzionale, realizzando lo scenario distopico denunciato proprio lo scorso 15 luglio alla Camera dei Deputati dal Garante della Privacy, il quale ha chiesto interventi a tutela degli utenti perché: «Alle piattaforme si rischia altrimenti di delegare la definizione delle libertà e l’esercizio della democrazia, ridisegnando una verticale del potere».