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lunedì 7 luglio 2025

“Dio Non Fa Registri: Il fallimento della CEI 2008 in Salmo 87,4”

Grazie ad Investigatore Biblico per questa analisi sulle nuove traduzioni bibliche.
Luigi C.

24-6-25

In un tempo in cui la Parola di Dio ha bisogno più che mai di essere annunciata con fedeltà e profondità, risuona ancor più forte l’urgenza di una traduzione che sia non solo tecnicamente corretta, ma spiritualmente onesta, capace di rendere ciò che il testo sacro ha realmente voluto dire. C’è una responsabilità grande nel trasporre il testo ispirato nelle lingue vive dei popoli: quella di non tradire né la verità della Parola né l’intelligenza dei fedeli.

Nel Salmo 87 (nella numerazione ebraica Salmo 87, versetto 4), ci troviamo davanti a un testo di rara intensità spirituale. Il salmo canta la gloria di Sion come città amata da Dio, centro spirituale del mondo, luogo dove le genti, perfino quelle un tempo nemiche, trovano una nuova identità. Un canto di inclusione profetica, in cui persino Raab (nome poetico per l’Egitto) e Babilonia — simboli di potenza e oppressione — vengono associate a coloro che “conoscono” il Signore.

La Bibbia CEI del 1974 rende così il versetto:
“Ricorderò Raab e Babilonia fra quelli che mi conoscono.”
È una traduzione sobria, aderente, che riflette il senso profondo del testo: Dio, parlando poeticamente, si ricorderà persino di questi popoli tra quelli che hanno fatto esperienza di Lui.

La CEI del 2008, invece, ha scelto una soluzione diversa, decisamente più problematica:
“Iscriverò Raab e Babilonia fra quelli che mi riconoscono.”
Una parola che distorce l’immagine e il significato dell’intero versetto.

San Girolamo, nella Vulgata, aveva tradotto con:
“Memor ero Rahab et Babylonis, scientium me.”
che significa: “Mi ricorderò di Raab e di Babilonia, di quelli che mi conoscono.”
Il verbo memor ero è inequivocabile: “sarò memore”, “mi ricorderò”. San Girolamo, grande conoscitore dell’ebraico e del greco, fedele al testo ebraico e alla tradizione dei Settanta (LXX), ha colto perfettamente il senso di azkir.

Il testo ebraico infatti dice:
אַזְכִּ֣יר רַ֭הַב וּבָבֶ֣ל לְיֹדְעָ֑י
dove אַזְכִּיר (’azkîr) è un verbo nella forma Hifil del radicale זָכַר (zakhar), che significa ricordare, menzionare, portare alla memoria. Il significato primario, e pressoché universalmente attestato, è proprio ricorderò o menzionerò. Non vi è alcuna giustificazione linguistica o esegetica per renderlo con iscriverò.

Anche i Settanta traducono correttamente con:
Μνησθήσομαι Ῥαὰβ καὶ Βαβυλῶνος …
dove μνησθήσομαι, forma medio-passiva del verbo μιμνήσκω, significa mi ricorderò, esattamente come in latino e in ebraico.

Viene dunque da chiedersi: perché mai i traduttori della CEI 2008 hanno optato per un improbabile iscriverò? Quale criterio filologico, teologico o liturgico può giustificare una scelta che si discosta così nettamente dalla coerenza delle tre principali tradizioni testuali — ebraica, greca e latina?

Non si tratta solo di una sottigliezza filologica. In un tempo di dispersione e ricerca, in cui le Scritture devono tornare ad essere fonte di unità e verità, non possiamo permetterci leggerezze nella trasmissione del testo sacro. Tradurre azkir con iscriverò è più di un errore: è un tradimento dell’intenzione divina, che nel Salmo 87 manifesta un gesto di misericordia e di memoria, non un atto burocratico o amministrativo.

Forse si è voluto forzare il testo per evocare una sorta di registro celeste, un libro della vita in cui vengono annotati popoli e persone. Ma se questo fosse stato il senso, l’ebraico avrebbe usato il verbo katav (כָּתַב), che significa appunto scrivere. Non lo fa. E Dio non scrive qui — ricorda.

E quando Dio ricorda, salva. Ricordare, nel linguaggio biblico, è un atto di amore, di cura, di alleanza. Scegliere di dire iscriverò vuol dire smarrire questa tenerezza, questo gesto di misericordia gratuita.

Forse dovremmo tornare a leggere meno con l’occhio dell’amministratore e più con il cuore del discepolo. La Parola di Dio non va addomesticata, va ascoltata. E il compito del traduttore è prima di tutto un atto di obbedienza.

Come direbbe il nostro amato Carlo Maria Martini, il traduttore della Scrittura non è un tecnico del linguaggio, ma un servitore del Mistero. Dove le parole parlano di Dio, occorre tremare — e scegliere con umiltà quelle più vere.

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