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venerdì 13 giugno 2025

Rispondere a chi obietta che la Messa Tridentina fu una Messa “nuova”

Contro le menzogne dei liturgisti modernisti.
Luigi C.


Chi vuole attaccare coloro che sono rimasti fedeli al Rito cosiddetto “Tridentino” dicono che si tratta di un atteggiamento contraddittorio perché anche ciò che fece san Pio V fu una sorta d’introduzione di una “Messa Nuova”. Questa obiezione però non regge. vediamo perché.
San Pio V non inventò nulla. Questi promulgò sì un messale a seguito del Concilio di Trento, ma in realtà non fece altro che fissare e circoscrivere sapientemente un rito già in uso nel contesto cattolico da secoli e secoli. Un rito che risaliva almeno (è bene sottolineare “almeno) da mille anni, precisamente da papa Gregorio Magno (540-604). Ed ecco perché la definizione precisa è: Rito Romano Antico o Rito Gregoriano. Il rito tridentino è sostanzialmente lo stesso da San Damaso (fine del IV secolo), con aggiunte di Gregorio Magno alla fine del VI secolo. Insomma, il Rito Tridentino fu una riforma di un canone ch’era già di origine apostolica.
La Messa cosiddetta “tridentina” ha un nucleo centrale immutabile, stabilito da Cristo stesso, continuato e perfezionato dagli Apostoli e conservato intatto attraverso due millenni di storia. La trama di riti e di cerimonie che la caratterizza s’è andata evolvendo poco a poco fino a raggiungere una forma quasi definitiva alla fine del III secolo, poi resa in qualche modo definitiva da san Gregorio Magno. Non sono mancati elementi secondari: la sollecitudine materna della Chiesa non ha cessato di restaurare ed abbellire il rito, rimuovendo di tanto in tanto quelle scorie che minacciavano offuscarne il primitivo splendore. (Suor Maria Perillo, Le origini apostoliche-patristiche della Messa Tridentina, Relazione al Convegno Summorum Pontificum, Maggio 2013)

Dunque, la Messa Tridentina non fu una “novità”, quindi non è appropriato definirla “tridentina”. Da qui la preferenza per definizioni come “Rito Romano Antico” o “Rito Gregoriano”.

Ciò che il Concilio di Trento e san Pio V (1504-1572) si limitarono a fare fu una piccola riforma di un rito che aveva origini apostoliche. Padre Louis Bouyer scrive:

Il canone romano risale, tale e qual è oggi, a san Gregorio Magno (+604). Non vi è, in Oriente come in Occidente, nessuna preghiera eucaristica che, rimasta in uso fino ai nostri giorni, possa vantare una tale antichità. (L.Bouyer, Mensch und Ritus, 1964).

Monsignor Klaus Gamber, nel 1979, scriveva:

La liturgia romana è rimasta pressoché immutata attraverso i secoli nella (…) forma risalente ai primi cristiani. Essa s’identifica con il Rito più antico. (…). La liturgia damasiano-gregoriana è quella che è stata celebrata nella Chiesa latina sino alla Riforma liturgica dei nostri giorni. (…). Non esiste in senso stretto una “Messa Tridentina” o di “San Pio V”, per il fatto che non è mai stato promulgato un nuovo “Ordo Missae” in seguito al Concilio di Trento da San Pio V. Il Messale che San Pio V fece approntare nel 1570 fu il Messale della Curia Romana, in uso a Roma da molti secoli, risalente all’era apostolica. (…). Sino a Paolo VI, i Papi non hanno mai apportato alcun cambiamento all’Ordo Missae, ma solo ai “Propri” delle Messe per le singole festività. (…).

Scrive padre Reginald Marie-Rivoire:

San Pio V ha certamente imposto un unico messale romano, ma non si trattava assolutamente di un messale ‘nuovo’ come quello di san Paolo VI che Francesco pretende oggi d’imporre alla Chiesa latina; si trattava dell’antico messale romano ‘restaurato’ secondo i decreti del Concilio di Trento, ovverosia appena ritoccato rispetto alle versioni del Medioevo. E’ precisamente per questa ragione -cioè la sua antichità- che questo messale ha potuto essere un simile fattore di unità nella Chiesa. Perché l’unità della Chiesa non si concepisce soltanto in maniera sincronica, ma anche diacronica. Di fatti, il messale romano adottato da san Pio V ha potentemente contribuito ad entrambe le dimensioni. Per la precisione delle sue rubriche che non lasciano nulla al caso o all’improvvisazione, ma conferiscono ad ogni gesto o posizione dei ministri un ieratismo intriso di nobile semplicità, per la sua impeccabilità dottrinale e la sua purissima espressione della ‘lex credendi’, esso ha favorito l’unità sincronica della Chiesa. Per il suo carattere essenzialmente tradizionale, frutto di uno sviluppo omogeneo, ha favorito l’unità diacronica della Chiesa. In effetti, essa contiene preghiere millenarie, che hanno acccompagnato tutta la storia della Chiesa e ci collegano ancora oggi -nelle parti più antiche- alle prime testimonianze conosciute della liturgia in Occidente (secoli III-IV). Il ‘ritus modernus’ di san Paolo VI è incapace di compiere questa doppia funzione unificatrice del messale di san Pio V. Il suo carattere proteiforme impedisce l’unità sincronica, poiché la sua creatività conduce spesso, come riconosce lo stesso Papa Francesco nella sua Lettera d’accompagnamento, ‘a deformazioni al limite del sopportabile’; il suo carattere nuovo impedisce l’unità diacronica, in quanto esso differisce, tanto per il suo spirito quanto per le sue forme esteriori, dal rito romano così com’é stato fino ad allora celebrato. Infine la riforma di Paolo VI si distingue profondamente da quella di Pio V dacché il Papa domenicano, promulgando il suo messale, ha rispettato tutti i riti -che erano estremamente numerosi- che potevano vantare un’antichità superiore ai duecento anni.” (Il motu proprio Traditiones Custodes alla prova della razionalità giuridica, anno 2025, pp.30-32).

Scrisse l’allora teologo Joseph Ratzinger:

A proposito, si deve ricordare che la maniera di introdurre il nuovo Messale si allontana dalla prassi giuridica del passato, così come san Pio V l’ha per esempio osservata per la sua riforma del Messale, che prevedeva esplicitamente che una ‘consuetudo’ osservata da più di 200 anni ‘nequam auferimus’; quindi, per dare alcuni esempi, a Colonia e a Treviri, fino al diciottesimo secolo, e a Milano, fino al Vaticano II, rimase in uso un altro tipo, come pure nell’Ordine Domenicano; e sarebbe facile trovare altri esempi. Con ciò, il Messale di Pio V non era un Messale nuovo, ma una forma del Messale romano in uso nell’Urbe, corretto pochissimo secondo le fonti, vale a dire, null’altro, dunque, che il cerchio di crescita del vecchio tronco, sviluppatosi in linea diretta, secondo un processo che data dai tempi di Ippolito. Perciò trovo che parlare di “Messa tridentina” e del “Messale di Pio V” è storicamente falso e teologicamente fatale. Il problema del nuovo Messale sta, al contrario, nel suo abbandono di un processo storico sempre continuato, prima e dopo San Pio V, e nella creazione di un volume tutto nuovo, sebbene compilato con materiale vecchio, la cui pubblicazione si accompagnò a una sorta di divieto di ciò ch’era stato prima, divieto peraltro sconosciuto nella storia giuridica e liturgica; posso dire con sicurezza, basata sulla mia conoscenza dei dibattiti conciliari e sulla ripetuta lettura dei discorsi dei Padri conciliari, che ciò non corrisponde alle intenzioni del Concilio Vaticano II” (Lettera al professor Wolfgang Waldstein, Regensburg, 14 dicembre 1976).

In realtà, san Pio V con il suo messale guardò in un certo senso indietro. Egli abolì tutti i riti liturgici che non potevano vantare più di due secoli di antichità, a causa del fatto che da tempo serpeggiavano errori dottrinali nella Chiesa; errori che avevano portato all’avvento dell’eresia protestante. Vi era, insomma, il serio sospetto che le novità introdotte nel rito della Messa a partire dall’Umanesimo e dal Rinascimento fossero segnate, almeno implicitamente, dal pericolo di eresia. Così san Pio V salvò tutti i riti più antichi (Ambrosiano, Mozarabico, Cartusiano, Domenicano) e restituì alla Chiesa latina, nella sua purezza di Tradizione Apostolica, il Messale Romano, il cui Canone, per attestazione di tutti risale all’apostolo Pietro.

Insomma, possiamo concludere che il Rito Romano Antico è di origine apostolica:

I Padri del III e IV secolo assai di frequente, parlando di qualche rito o cerimonia in particolare, affermano che è d’origine o tradizione apostolica. Con tale espressione -che è scientificamente e storicamente inverificabile- i Padri volevano verosimilmente richiamarsi al periodo più antico della Chiesa dimostrando con ciò quanto fossero ancora vive, presso le varie Chiese, le memorie dell’attività liturgica degli Apostoli. In tutta l’antichità cristiana non si trova alcun indizio che accenni, come vogliono i Protestanti e certa corrente teologia, ad una diretta ingerenza delle Comunità nelle funzioni del Culto. La fissazione e la progressiva regolamentazione della Liturgia si mostra sempre compito esclusivo degli Apostoli e dei vescovi loro successori. (Suor Maria Perillo, cit.)