Vi proponiamo – in nostra traduzione – la lettera 1225 pubblicata da Paix Liturgique il 18 giugno, in cui si riportano le riflessioni dell’associazione Notre-Dame de Chrétienté sulla storia e sullo spirito del Pèlerinage de Pentecôte (da Parigi a Chartres), in particolare le «pedagogie tradizionali della fede», e le proposte per «la conservazione della liturgia tradizionale e la protezione degli spazi di valorizzazione di questa liturgia» (QUI).
L.V.
Riflessioni e proposte dell’associazione Notre-Dame de Chrétienté in occasione del 43º Pèlerinage de Pentecôte (da Parigi a Chartres)
Le questioni sollevate recentemente riguardo all’uso liturgico del Vetus Ordo (o liturgia tradizionale) durante il Pèlerinage de Pentecôte (da Parigi a Chartres) sono l’occasione per fare luce sulla storia e lo spirito del nostro pellegrinaggio e, più in generale, della nostra famiglia spirituale legata «ad alcune precedenti forme liturgiche e disciplinari della tradizione latina»¹. Ci rammarichiamo che questa polemica sia stata sollevata a pochi giorni dal pellegrinaggio, con richieste senza precedenti che ci sono pervenute proprio mentre tutte le nostre équipe sono evidentemente impegnate in un periodo di intensa attività per completare gli ultimi preparativi di questo grande evento spirituale. Ci dispiace soprattutto che possa confondere il messaggio essenziale che il pellegrinaggio si propone di portare ai nostri contemporanei, ovvero la magnifica testimonianza pubblica di fede, gioiosa e penitente, di una Cristianità animata dalla speranza del Regno di Cristo e desiderosa di annunciare Cristo in un mondo che si allontana da Lui. Ci rammarichiamo che le richieste di colloquio avanzate da mesi non abbiano avuto esito positivo. Questa mancanza di dialogo franco e diretto ci preoccupa. Nuove restrizioni, che non erano mai state imposte dalla lettera apostolica in forma di «motu proprio» Traditionis custodes sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970, vengono oggi avanzate senza attendere gli orientamenti del nuovo Pontificato su questo delicato tema che è il posto della liturgia tradizionale nella Chiesa, perché è proprio di questo che si tratta. Ma forse stiamo vivendo un «kaïros», un momento particolare da cogliere per superare le vane dispute e cercare insieme la pace invocata da Papa Leone XIV il giorno della sua elezione, frutto dello Spirito Santo che sa superare le apparenti impasse, «sana ciò che sanguina. Piega ciò che è rigido, […] drizza ciò ch’è sviato» (Sequenza di Pentecoste). È questo il sincero augurio che formula l’associazione Notre-Dame de Chrétienté sviluppando le seguenti riflessioni.
Una certa semplificazione mediatica induce a credere che tutta la questione si riduca all’autorizzazione o meno a certi sacerdoti di celebrare il Novus Ordo per le loro Messe personali durante il pellegrinaggio. Ma in realtà non è questo il punto principale. Le lettere ricevute dall’associazione sono molto chiare: ci viene chiesto di trasformare profondamente lo spirito del nostro pellegrinaggio tradizionale, rendendo il Novus Ordo la norma e il Vetus Ordo l’eccezione tollerata, soggetta all’autorizzazione del Vescovo locale o del Dicastero per il culto divino e la disciplina dei sacramenti. Ora, è proprio questo cambiamento che da quattro anni viene richiesto a tutta la nostra famiglia spirituale, che viene definita (in modo piuttosto improprio) con il termine «tradizionalisti». È necessario infatti ricollocare questa recente polemica, che può sembrare aneddotica per molti, nella prospettiva di altri eventi che abbiamo rifiutato di mediatizzare per non inasprire il dialogo che speriamo di avere con le autorità gerarchiche. Quest’anno, per il Pèlerinage de Pentecôte, come per molti pellegrini provenienti da tutte le nostre province, si moltiplicano le restrizioni all’uso della liturgia tradizionale per arginare il formidabile slancio degli apostolati che vogliono operare al servizio dell’evangelizzazione missionaria delle regioni della Francia. L’accesso ad alcuni Sacramenti secondo il rito tradizionale è limitato o addirittura vietato in alcune Diocesi. Naturalmente, la portata di queste restrizioni varia a seconda della benevolenza del Vescovo locale, a dimostrazione del fatto che è possibile una lettura tollerante della lettera apostolica in forma di «motu proprio» Traditionis custodes. Ma in alcune Diocesi piovono decreti e divieti, secondo un’applicazione ultra-restrittiva della lettera apostolica in forma di «motu proprio», con una freddezza giuridico-canonica ben lontana dalla « cura pastorale e spirituale dei fedeli» evocata dallo stesso testo (articolo 3, § 4). Ciò che ci viene detto oggi, in realtà, è che la liturgia tradizionale, nella sua unità rituale, sacramentale e spirituale, è un male, un’anomalia, dalla quale la Chiesa deve guarire e purificarsi.
«Non potete essere in comunione con la Chiesa se non adottate il Novus Ordo, in tutto o in parte. Dura lex, sed lex. Ritornate all’ordine: la Chiesa ha parlato, obbedite». Ma noi ricordiamo, per quanto ci riguarda, un’altra parola, certa, della Chiesa, che è anche una promessa, nella quale la nostra famiglia spirituale ha riposto tutta la sua fiducia. Nel 1988, quando mons. Marcel François Lefebvre consacrò quattro Vescovi contro il parere di Roma, i laici organizzatori del Pèlerinage de Pentecôte presero la decisione profondamente dolorosa di allontanarsi da questa via per rimanere visibilmente uniti alla Santa Sede. È in nome dell’unità della Chiesa, che oggi ci viene rimproverato di mettere in pericolo, che questi laici e questi sacerdoti, profondamente legati alla pedagogia tradizionale della fede, si sono rivolti al Papa San Giovanni Paolo II. Quel giorno, il Santo Padre disse loro che il loro attaccamento era «legittimo»; evocò la bellezza e la ricchezza di questo tesoro della Chiesa; e per onorare questo gesto filiale, promise di garantire e proteggere, in modo ampio e generoso, le aspirazioni dei fedeli attaccati alle forme liturgiche e disciplinari precedenti della tradizione latina, senza alcuna contropartita di ordine liturgico, se non quella di riconoscere il Concilio Vaticano II e la validità del Novus Ordo². La Chiesa cattolica, tenendo conto delle persone e della loro storia, ci ha detto che siamo in comunione con la Chiesa scegliendo la liturgia tradizionale come vera via di santificazione. Non possiamo dubitare di questa parola, il cui valore rimane perché supera le dolorose contingenze storiche del 1988.
Ancora oggi, nonostante le molteplici vessazioni, la nostra famiglia spirituale conserva una serena speranza in questa parola della Chiesa, dalla quale ha imparato che, secondo la giustizia naturale, pacta sunt servanda (la parola data deve essere mantenuta). Ci viene detto che abbiamo rotto il patto, irrigidendo le nostre posizioni, rifiutando le mani tese. Ma dal 1988 non abbiamo cambiato nulla di quel delicato equilibrio tra fedeltà al Sede di Pietro e attaccamento alle pedagogie tradizionali della fede.
Non si è approfondito molto in cosa consistesse questo «attaccamento» alle pedagogie tradizionali della fede. Alcuni lo minimizzano, riducendolo a una sensibilità, a una categoria politica, a una nostalgia timorosa o a una paura della modernità che passerà con il tempo e con la generazione successiva. Altri lo esagerano, rimproverandoci di fare della liturgia un fine a se stessa, o di strumentalizzarla come un’arma al servizio di una lotta. Noi pellegrini sappiamo bene, tuttavia, che il fine è il Cielo, che non bisogna confondere la meta con la strada che vi conduce, e che ci sono molte vie che portano al Santuario del riposo eterno. Ma crediamo nell’importanza delle mediazioni nell’ordine della Salvezza, nel loro valore intrinseco. Crediamo nella libertà dei figli di Dio di usare, secondo le loro necessità e la loro prudenza, le ricchezze che la Chiesa offre loro da duemila anni. Ora, per la nostra famiglia spirituale, la liturgia tradizionale è semplicemente il mezzo soprannaturale del nostro incontro con Cristo. Le sue parole, i suoi Sacramenti, la sua Messa, i suoi Uffici, la sua catechesi sono stati per molti di noi la materia prima della nostra fede, il veicolo della grazia, l’espressione istintiva del nostro rapporto con Dio: in una parola, la nostra lingua materna per parlare al Signore, ma anche per ascoltarlo. Per altri, queste armonie sono state la causa, secondaria ma provvidenziale, di una conversione o di un rinnovamento radicale della fede. Per molti sacerdoti, questa liturgia è diventata «viscerale», nel senso biblico del termine, penetrando in modo totale ogni fibra del loro essere sacerdotale. Non si tratta di vaga sentimentalità estetica, ma di vita, di respiro, di espressione incarnata della fede. Chi crede che il Cristianesimo sia una religione dell’Incarnazione capisce che queste mediazioni non sono affatto accidentali, accessorie o intercambiabili con decreti e divieti.
Il pellegrinaggio è un luogo, nella Chiesa, dove laici e sacerdoti vengono per fare esperienza di questo respiro e di questo linguaggio particolari nella Chiesa. Ma non è solo questo: è anche una formidabile occasione per 19.000 pellegrini di offrire ai nostri contemporanei una luminosa testimonianza della bellezza della fede cattolica, del fervore spirituale, attraverso le sue processioni, le adorazioni, le Confessioni, le Messe. È anche un luogo di amicizia cristiana internazionale, di vita capitolare, di ritrovo, di spoliazione, di penitenza gioiosa. È infine il luogo dell’esperienza di una Cristianità in cui i pellegrini condividono la convinzione che è urgente promuovere la regalità sociale di Nostro Signore sulle società temporali. È tutto questo insieme, in un’armonia che non è fine a se stessa, ma che non è affatto secondaria ai nostri occhi se si considerano i frutti spirituali che produce. Certo, ci viene ricordato con forza che i laici non hanno autorità in materia di liturgia. Ma essi rimangono liberi per diritto di fondare associazioni, di invitarvi chi desiderano e di scegliere di valorizzare alcuni temi come mezzi privilegiati per realizzare il fine di ogni apostolato laico: «il rinnovamento [cristiano] dell’ordine temporale» (decreto sull’apostolato die laici Apostolicam actuositatem, 7). Citiamo volutamente questo testo del Concilio Vaticano II che riconosce una giusta autonomia all’apostolato dei laici e alle sue scelte di azione, proteggendolo dal rischio sempre minaccioso di un pericoloso clericalismo. Non inganniamo nessuno; non abbiamo mai nascosto le nostre specificità; e sappiamo che questi temi sono lungi dall’essere condivisi da tutti i Cristiani. Ma il Pèlerinage de Pentecôte non è adatto a tutti i Cristiani! Non abbiamo mai avuto l’audacia di considerarci portatori di una risposta universale che parla a tutto il popolo di Dio. Noi stessi siamo sorpresi dall’attrattiva di quest’opera, pur così speciale sotto molti aspetti. E fortunatamente esistono altre opere nella Chiesa che valorizzano altre espressioni della fede, utilizzando mezzi che sono loro propri e che non sono i nostri, ma che apportano una complementarità, con un dinamismo missionario o uno slancio caritativo che può suscitare ammirazione. Con alcune di esse intratteniamo ottimi rapporti di collaborazione e non è mai stato richiesto che, per lavorare insieme, fossimo tutti uguali e diluissimo le nostre peculiarità. Perché il mistero del Verbo incarnato è troppo ricco per essere espresso in un’unica lingua; e, per riprendere le parole pertinenti di un teologo che certamente non appartiene alla nostra famiglia spirituale, «non c’è nulla di più contrario alla vera unità cristiana che la ricerca dell’unificazione. Essa consiste sempre nel voler rendere universale una forma particolare, nel rinchiudere la vita in una delle sue espressioni»³.
Questa particolare espressione della fede che sperimentiamo a Chartres è oggi nuovamente minacciata. Oggi una parte del popolo cristiano soffoca, perché si cerca di ostacolare il respiro della sua anima con una sorta di violazione della sua coscienza. Sappiamo tuttavia quali danni possono verificarsi in un’anima quando si vuole privarla autoritariamente della mediazione connaturale e sensibile attraverso la quale ha imparato a toccare il Dio invisibile: è ciò che è accaduto nel 1969, per esempio. Nulla è più violento, spiritualmente, che sentirsi dire che la nostra «lingua» potrà d’ora in poi essere parlata solo in modo eccezionale nel cuore stesso del Pèlerinage de Pentecôte. O sentire, come molti ci hanno affermato direttamente, che essa è sospetta di eresia, che i suoi Sacramenti sarebbero di fatto invalidi, che la celebrazione di questa Santa Messa dovrebbe essere proibita. Perché tutto questo ci è stato detto. Al contrario, raramente viene riconosciuto il valore intrinseco della liturgia tradizionale e i benefici positivi che queste pedagogie apportano ai pellegrini nel corso di tre giorni. La nostra specificità è mascherata, persino negata, considerata aneddotica o accessoria allo spirito del pellegrinaggio o al suo successo; sarebbe l’ossessione di una vecchia generazione che non è affatto condivisa dai giovani, secondo lo slogan più volte sentito: «I giovani non vengono per questo». Resta il fatto che è «questo» che proponiamo da quarantatré anni, per tre giorni, e che non iscriviamo nessuno con la forza. Sentirci dire che una Santa Messa secondo il Vetus Ordo può essere facilmente sostituita da una Messa secondo il Novus Ordo in latino, ad orientem, con incenso e gregoriano: questo testimonia dolorosamente la scarsa considerazione che si ha del legame vitale e spirituale che unisce armoniosamente le pedagogie tradizionali della fede. Ci viene detto che il pellegrinaggio sarà finalmente pienamente «ecclesiale» quando si aprirà al Novus Ordo. Accogliamo questa affermazione con la stessa violenza con cui si dice a una minoranza che sarà finalmente accettata dalla maggioranza quando rinuncerà alla sua cultura, quando diluirà la sua ricchezza per fondersi nella massa. Ciò che la società civile è riuscita a fare per proteggere l’identità delle minoranze in nome della giustizia naturale e del rispetto delle persone e delle culture, siamo certi che anche la Chiesa possa farlo senza rovinare la sua unità.
Contrariamente a quanto è stato scritto, non poniamo divieti liturgici al pellegrinaggio: ne subiamo già abbastanza noi stessi. Ma desideriamo che il pellegrinaggio continui ad essere un luogo in cui la liturgia tradizionale è amata e valorizzata, in particolare dai dirigenti e quindi dai sacerdoti. Anche quest’anno, diversi sacerdoti ci dicono che sono felici di imparare questa liturgia per partecipare al pellegrinaggio. Abbiamo un contatto diretto con ciascuno di loro prima della loro iscrizione e chiediamo loro due cose: di mettersi al servizio di tutti i pellegrini e non dei propri fedeli, per essere tutto per tutti e affinché nessun Capitolo manchi del ministero della Confessione, e di valorizzare presso i pellegrini il tema della Cristianità e della liturgia tradizionale. Chiediamo loro di entrare nello spirito di questi tre giorni di amore e di valorizzazione di questi tesori spirituali, e non di cercare di cambiare il pellegrinaggio. Distinguiamo chiaramente tra coloro che non vogliono condividere questi fondamenti e non manifestano alcun interesse per essi – questi non vengono di loro spontanea volontà – e coloro che apprezzano sinceramente il pellegrinaggio e i suoi pilastri, ma non possono ancora celebrare la forma tradizionale, sia per mancanza di tempo per impararla, sia perché è loro vietato celebrarla. Per loro, per quanto rari, abbiamo sempre cercato di trovare soluzioni per esercitare l’ospitalità liturgica e permettere loro di venire.
Per gettare basi solide al dialogo che auspichiamo, occorre aggiungere ancora questo. Se siamo attaccati alle pedagogie tradizionali della fede nella loro integralità, non è solo perché abbiamo per esse un attaccamento viscerale, ma anche perché constatiamo che la Chiesa attraversa da troppo tempo una crisi grave, una crisi dottrinale e liturgica. C’è una difficoltà di cui siamo consapevoli: l’esistenza delle comunità tradizionali appare ad alcuni come un «rimprovero vivente» nei confronti di altri metodi pastorali e liturgici in cui si vorrebbe, con la forza, diluirci. Chiariamo quindi le cose. Sì, accogliamo integralmente il Concilio Vaticano II e il recente magistero della Chiesa, lo studiamo nei nostri libretti di formazione, lo interpretiamo, secondo il desiderio di Papa Benedetto XVI, alla luce della Tradizione, rifiutando le interpretazioni errate che si possono dare di alcuni passaggi ambigui del testo conciliare⁴. Non siamo tra coloro che desiderano stabilire una rottura tra «Chiesa preconciliare» e «Chiesa postconciliare». Crediamo nella Tradizione vivente (che non confondiamo affatto con le tradizioni umane), nello sviluppo organico del dogma, ma sappiamo che la Chiesa non può modificare, in nome del progresso o dell’adattamento al mondo, la dottrina di Gesù su punti così essenziali come la teologia della Messa, la dottrina del sacerdozio, l’indissolubilità del matrimonio o la morale cattolica. Siamo profondamente preoccupati nel vedere che il relativismo dottrinale e il progressismo morale continuano a prosperare in molti luoghi della Chiesa ancora oggi. Molti dei nostri pellegrini, anche tra le generazioni più giovani, riconoscono di non aver ricevuto alcuna formazione dottrinale, si considerano generazioni sacrificate, hanno l’impressione che sia stato loro nascosto il contenuto della loro fede e vengono in pellegrinaggio per trovare risposte chiare. Il «kaïros» che stiamo vivendo ci chiede di avere il coraggio di fare una constatazione lucida su questa crisi di trasmissione della fede che continua ancora oggi, e di riflettere insieme sui mezzi da mettere in atto per uscirne, perché l’unità della Chiesa è innanzitutto unità nella fede.
Sul piano liturgico, riconosciamo che la Messa di San Paolo VI è il sacrificio di Cristo, che è pienamente valida e che dei santi si sono santificati con essa, come il Beato Carlo Acutis, che abbiamo preso come patrono protettore lo scorso anno durante il pellegrinaggio, e tanti altri santi. Tuttavia, non abbiamo mai nascosto le serie riserve espresse ben oltre l’ambito della nostra famiglia spirituale, su un impoverimento dell’espressione liturgica di alcune verità di fede nel Novus Ordo; né le riserve sul modo in cui è stata realizzata la riforma, che secondo le analisi dello stesso card. Joseph Aloisius Ratzinger, al tempo Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede,⁵ è più una «costruzione» che un’«evoluzione organica». Purtroppo, nella liturgia della Messa così come si realizza concretamente in molti luoghi, non troviamo le prescrizioni richieste dalla costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium, conservate solo nel rito antico. Come Papa Benedetto XVI, «sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia». Questo è anche uno dei motivi principali per cui abbiamo scelto la liturgia tradizionale e la sua valorizzazione durante il pellegrinaggio. Una parte dei nostri pellegrini assiste alle due forme del rito romano; essi sono impegnati nelle Parrocchie, al servizio delle loro Diocesi. Allo stesso tempo, un’altra parte dei nostri pellegrini esprime la propria reale difficoltà a vivere spiritualmente la nuova liturgia e ci comunica il proprio scandalo di fronte agli abusi liturgici a cui assistono ancora oggi, senza che questi abusi sembrino condannati con forza e autorità laddove sarebbe invece doveroso farlo. Bisogna semplicemente riconoscere che, per una parte del popolo cristiano, minoritaria certamente ma ben reale, la nuova liturgia non è il suo linguaggio per parlare a Dio, né per ascoltarlo. E non è con la forza che questo cambierà. È un dramma, quando si sa che nella Chiesa cattolica esistono più di venti riti liturgici diversi per permettere a ciascuno di entrare in contatto con il Dio invisibile? Qui più che altrove, l’unità della Chiesa non ha mai temuto la diversità.
Affrontiamo la pagina che si apre con immensa fiducia nella bontà della nostra Madre Chiesa e nella sollecitudine del Santo Padre. Siamo convinti che un dialogo vero, rispettoso delle persone e della loro storia spirituale, possa portare frutto. Non vogliamo fare Chiesa a parte. Chiediamo semplicemente di servire la Chiesa con la nostra identità, il nostro attaccamento, la nostra lingua materna. Come ci ricordava regolarmente don Denis Coiffet FSSP, uno dei cappellani del pellegrinaggio, presente nel 1988: «Non siamo noi che salveremo la Chiesa, è la Chiesa che salverà noi». È con questo spirito che abbiamo accolto con gratitudine l’appello di Papa Leone XIV alle Chiese orientali a «custodire le vostre tradizioni senza annacquarle, magari per praticità e comodità». Forse c’è qui una pista da esplorare per dare alla nostra famiglia spirituale uno status particolare che permetta di uscire dall’impasse in cui ci troviamo.
Ma non si tratta solo di «proteggere» caritatevolmente un gruppo, una minoranza. Riteniamo di dover porre la domanda: e se la conservazione della liturgia tradizionale e la protezione degli spazi di valorizzazione di questa liturgia fossero un elemento essenziale, se non indispensabile, della comunione della Chiesa con se stessa? Questa «comunione diacronica» della Chiesa con il suo passato era un asse portante del pensiero di Papa Benedetto XVI e forse la ragione teologica principale che ha guidato la lettera apostolica «motu proprio data» Summorum Pontificum⁶. Ciò darebbe un senso molto profondo alla missione che il pellegrinaggio di Chartres può svolgere, con la sua specificità, al servizio della Chiesa.
Nel frattempo, preghiamo che Nostra Signora della Santa Speranza ci preservi dall’amarezza e dalla durezza del cuore e ci mantenga nella gioia del servizio a Cristo e alla sua Chiesa. Le prove e le contraddizioni fanno parte dell’esperienza del pellegrino. La tentazione di abbandonare, di abbassare le braccia, di andarsene. Ma noi non vogliamo lasciare l’unica colonna, quella della Chiesa in cammino verso il Santuario desiderato. Il nostro raduno è particolare, a volte infastidisce i vicini, parla una lingua curiosa e a volte si esprime un po’ forte, ma ha il suo posto, così com’è, nell’immenso pellegrinaggio dei Cristiani. A suo modo, vuole annunciare Cristo. Non sappiamo farlo diversamente che con i nostri tre pilastri di Chartres: Tradizione, Cristianità, Missione. Per alcuni Cristiani, sono proprio questi tre pilastri che costituiscono il loro legame vitale con Gesù. È per loro, per questa parte del popolo di Dio, che chiediamo che sia mantenuta la promessa fatta da San Giovanni Paolo II alla nostra famiglia spirituale. E il giorno in cui non sarà più Cristo che annunceremo, ma noi stessi o la nostra causa umana, allora sarà sempre tempo di proibircelo: ce lo saremo meritato.
Nella Chiesa tutti, secondo il compito assegnato ad ognuno sia nelle varie forme della vita spirituale e della disciplina, sia nella diversità dei riti liturgici, anzi, anche nella elaborazione teologica della verità rivelata, pur custodendo l’unità nelle cose necessarie, serbino la debita libertà; in ogni cosa poi pratichino la carità. Poiché agendo così manifesteranno ogni giorno meglio la vera cattolicità e insieme l'apostolicità della Chiesa.
(decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio, 4, §7).
Note:
¹ San Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Ecclesia Dei in forma di motu proprio, 2 luglio 1988.
² San Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Ecclesia Dei in forma di motu proprio, 2 luglio 1988; e protocollo d’intesa tra la Santa Sede e la Fraternità sacerdotale San Pio X del 5 maggio 1988.
³ Yves Moreau de Montcheuil, La liberté et la diversité dans l’unité, in L’Église est une: hommage à Moehler, ed. P. Chaillet, Parigi, Bloud et Gay, 1939, pagina 252.
⁴ Come ha fatto più volte il Magistero: n. 2105 del Catechismo della Chiesa Cattolica sulla libertà religiosa; Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa della Congregazione per la dottrina della fede del 29 giugno 2007 sul «subsistit in»; Dichiarazione Dominus Jesus circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa della Congregazione per la dottrina della fede del 6 agosto 2000.
⁵ Joseph Aloisius Ratzinger, La mia vita. Ricordi (1927-1997), Edizioni San Paolo, 1997, pagine 134-135.
⁶ Joseph Aloisius Ratzinger, Conferenza conclusiva alle giornate liturgiche di Fontgombault, 22-24 luglio 2001, pubblicata in Une histoire de la Messe, di un monaco di Fontgombault, La Nef, 2003: «Per sottolineare che non vi è alcuna rottura essenziale, che la continuità e l’identità della Chiesa esistono, mi sembra indispensabile mantenere la possibilità di celebrare secondo il Messale Romano Tradizionale come segno dell’identità permanente della Chiesa. Questa è per me la ragione fondamentale: ciò che fino al 1969 era la liturgia della Chiesa, la cosa più sacra per tutti noi, non può diventare dopo il 1969 – con un incredibile positivismo – la cosa più inaccettabile […]. Non c’è dubbio che un rito venerabile come quello romano in vigore fino al 1969 è un rito della Chiesa, un bene della Chiesa, un tesoro della Chiesa, e quindi da conservare nella Chiesa».

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