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martedì 10 giugno 2025

“Comunione in mano: l’inganno liturgico che umilia Cristo”

Grazie ad Investigatore Biblico per questa analisi sulle pessima S. Comunione in mano.
Luigi C.

22-5-25
 
Nel cuore della liturgia eucaristica pulsa da sempre un gesto carico di mistero e di riverenza: il ricevere il Corpo del Signore. La Chiesa, madre e maestra, ha custodito nei secoli questo gesto nella sua forma più antica e venerabile, quella della comunione ricevuta sulla lingua, in ginocchio e con devozione, non per formalismo esteriore ma per sottolineare con il linguaggio del corpo la profondità dell’incontro sacramentale con il Cristo vivente.
Non si tratta qui di una disputa tra forme, ma di discernere ciò che più aiuta l’anima a entrare in riverente silenzio davanti al Mistero. I gesti sono carichi di significato teologico e spirituale. La modalità con cui si riceve l’Eucaristia non è indifferente, perché tocca il cuore stesso della nostra fede: crediamo che in quel piccolo frammento di pane consacrato vi sia realmente, totalmente, sostanzialmente presente il Signore Gesù, il Figlio del Dio vivente. Non simbolo, ma realtà in Corpo Sangue Anima e Divinità.

Il racconto evangelico dell’Ultima Cena ci offre un’indicazione preziosa. Gesù, nell’atto di istituire l’Eucaristia, non comanda semplicemente di “prendere”, ma “prendete e mangiate”, come sottolinea Matteo (Mt 26,26). Questo “mangiare”, nel linguaggio ebraico — akal (אָכַל) — e nel contesto sacro del pasto rituale, era carico di solennità. Il gesto di nutrirsi veniva compiuto con rispetto, spesso da una posizione raccolta, quasi prostrata. Non si trattava di un gesto qualunque, né di un pasto ordinario.

Nel Libro dell’Esodo, quando il Signore istituisce la Pasqua e chiede di consumare l’agnello, vi è una prescrizione rituale dettagliata, che esige purificazione e rispetto (Es 12,11). Se tanto zelo fu richiesto per l’ombra del Mistero, quanto più ne è richiesto per il suo compimento nel Corpo e Sangue del Figlio?

I Padri della Chiesa, con la sapienza dei primi secoli, ci aiutano a cogliere la profondità della prassi tradizionale. San Cirillo di Gerusalemme, pur accennando alla possibilità della comunione in mano, raccomandava che la mano fosse come un trono, e che si facesse attenzione a non perdere nemmeno una briciola. «Stai attento che nulla cada, perché perderesti una parte del tuo corpo» (Catechesi mistagogica V,21). Eppure, fu proprio questa attenzione estrema a condurre la Chiesa, in occidente, a preferire la comunione sulla lingua, come segno di maggiore sicurezza, riverenza e adorazione.

San Tommaso d’Aquino è ancora più chiaro nella Summa Theologiae (III, q. 82, a. 3, ad 8): “La distribuzione del Corpo di Cristo appartiene al sacerdote per ragione della consacrazione, e anche per rispetto a questo Sacramento: perciò a nessun altro spetta di toccarlo se non in caso di necessità.” Il gesto di ricevere l’Eucaristia direttamente sulla lingua esprime in modo visibile questa verità teologica: non ci appropriamo di Cristo, ma lo riceviamo. Non siamo noi a prenderlo, ma è Lui che si dona.

Nel Vangelo di Matteo, Gesù ammonisce: “Non date le cose sante ai cani” (Mt 7,6). La tradizione patristica ha sempre letto questo passo anche in chiave sacramentale: ciò che è santo va trattato con sacro timore, non con leggerezza. È dunque giusto e coerente che il Corpo del Signore sia trattato con la massima riverenza, che si traduce anche nella forma con cui lo si riceve.

È altresì doveroso affermare, nella libertà dei figli di Dio, che nessun fedele può essere obbligato a ricevere la Comunione in una sola forma, quando la Chiesa stessa, nei suoi documenti ufficiali, riconosce il diritto di riceverla sulla lingua. Le norme liturgiche attuali, infatti, consentono la comunione in mano solo come indulto, non come obbligo, e sempre nel rispetto della scelta del singolo fedele. Ogni forzatura, ogni imposizione, è contraria allo spirito del Concilio Vaticano II, che ha parlato di “partecipazione piena, consapevole e attiva” (Sacrosanctum Concilium, 14), e non di uniformità coercitiva.

In questo tempo in cui si rischia di banalizzare il sacro, abbiamo bisogno più che mai di segni che richiamino il mistero, che scuotano l’indifferenza, che ci aiutino ad entrare in ginocchio — se non con il corpo, almeno con il cuore — dinanzi all’Emmanuele. Ricevere la comunione sulla lingua è un piccolo atto, ma profondamente carico di significato. È un atto che ci educa a non prendere ciò che è santo con le mani impure, ma a riceverlo come mendicanti del cielo.

Il fedele non è un consumatore di sacro, ma un adoratore del Dio vivente. Ed è nel gesto umile e riverente del ricevere sulla lingua che si esprime, per molti, questa verità profonda. Non una battaglia contro altri, ma una fedeltà a ciò che la Chiesa ha vissuto, insegnato e amato per secoli, nella consapevolezza che il Mistero non ci appartiene, ma ci viene incontro, fragile e potente, nel silenzio di un’Ostia consacrata.