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sabato 25 gennaio 2025

Magister. "L’autobiografia di Francesco è in vendita. Molto rumore per nulla"

Grazie a Sandro Magister per questa analisi sull'appena uscita autobiografia di Francesco.
Monday Vatican – Andrea Gagliarducci: Papa Francesco, l’autobiografia che in realtà autobiografia non è:  “…Spera è stato scritto dall'editore letterario italiano Carlo Musso, il che rende il termine “autobiografia” piuttosto impreciso, anche se è così che la si spaccia. (...) Spera, in altre parole, è piuttosto una sorta di Apologia pro vita sua. Papa Francesco risponde persino alle critiche, tra cui quella di aver sorriso raramente da quando è stato eletto alla sede di Pietro. Soprattutto, seleziona gli episodi e sceglie con cura ciò che vuole e ciò che non vuole raccontare, saltando intere parti che, dal punto di vista cronologico, avrebbero dovuto essere trattate.(...) Allora, cosa ci dice questo libro di Papa Francesco? Ci dice, innanzitutto, che il Papa ha deciso di passare alla storia fornendo la sua spiegazione dei fatti….Ci dice, innanzitutto, che il Papa ha deciso di passare alla storia fornendo la sua spiegazione dei fatti....Papa Francesco antepone il proprio pensiero a tutto il resto e il suo pensiero affolla e trabocca dalle storie che racconta nel libro. Ogni dettaglio è un pretesto per il Papa al fine di ribadire la sua visione del mondo e negare o criticare coloro che lo hanno criticato.(…)In secondo luogo, la biografia ci dice che Papa Francesco è consapevole delle controversie che circondano il suo pontificato.(…) Infine, la biografia di Papa Francesco conferma che questo pontificato è un pontificato di redenzione più che di costruzione. Francesco è arrivato alla carica con la sua visione del mondo e fin dall'inizio ha voluto imporla in qualche modo. Lo si nota nei suoi duri commenti sulla resistenza alle sue riforme o anche in quelli sui cosiddetti “indietristi”.(…) La verità è che non c'è grande cura per l'istituzione così come viene tradizionalmente tramandata. L'istituzione è diventata Papa Francesco, e tutto ruota intorno a lui- i suoi umori, le sue decisioni. Francesco, tuttavia, è arrivato alla carica non con una tradizione da difendere, ma con dei pregiudizi da superare.(…) L'autobiografia sembra più un pretesto per ribadire i concetti cari al pontificato, che Papa Francesco ripete fino allo sfinimento. Non è un'autobiografia, quindi, ma nemmeno un'esplorazione spirituale della volontà di Dio. In questo libro c'è solo il Papa. Non c'è mai la Chiesa, che il Papa è chiamato a servire".
Luigi C.

23-1-25

È un’autobiografia strana, l’ultima confezionata da Jorge Mario Bergoglio con grande lancio pubblicitario in tutto il mondo. Un’autobiografia che nella prima metà delle sue quasi 400 pagine racconta più del suo parentado che di lui bambino e poi adolescente, e nelle restanti pagine tace proprio ciò che più si aspetterebbe di leggere, della sua vita adulta prima e dopo l’elezione a papa.
“Ogni volta che un papa sta male si sente soffiare un po’ di vento di conclave”, scrive. Per subito aggiungere, però, che “sto bene”, “posso mangiare di tutto” e semplicemente “sono vecchio” (come nella foto a lato, del 18 gennaio, con un braccio al collo dopo un capitombolo, ma senza nulla cambiare della sua agenda).
Per la sua sepoltura ha già optato per la basilica di Santa Maria Maggiore “nella stanza dove ora custodiscono i candelabri”. E quanto alla scelta del successore si arrangino. La sua elezione a papa nel 2013 la racconta in una ventina di pagine, per dire che tutto è avvenuto senza il minimo piano prestabilito, e i voti sono piovuti su di lui solo dal penultimo scrutinio, chissà da dove, e anche lui ha improvvisato tutto al momento, compreso il nome di Francesco, comprese le prime parole dalla loggia delle benedizioni, e ad abitare a Santa Marta non è andato per amor di povertà, ma per “motivi psichiatrici”, perché “senza gente attorno non posso vivere”.
Sgombrato il campo dalle congetture sul prossimo conclave, su cui il libro non dà il minimo segnale, è utile però prender nota di alcune parole e di non pochi silenzi.

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Il perché, ad esempio, di quel suo continuo evocare ed esaltare il ruolo dei nonni nel trasmettere la fede ai nipotini, ignorando i papà e le mamme, è ben spiegato dal racconto del suo straordinario legame affettivo con la nonna paterna Rosa, “pietra angolare della mia esistenza”, e dal rapporto difficile con la mamma Regina Maria, che sì, fin da bambino gli faceva ascoltare e amare le opere liriche, ma anche lo faceva “piangere a dirotto con un’angoscia che mi assaliva nell’intimo”, per i suoi frequenti litigi con il papà. E non prese affatto bene l’entrata del figlio in seminario, nel quale per anni non mise mai piede fino al giorno del suo ingresso nella Compagnia di Gesù, “mantenendo una certa riserva” anche dopo.

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Un altro trascorso giovanile che papa Francesco mette in chiaro nel libro è la sua adesione al peronismo. I suoi famigliari no, scrive, erano tutti antiperonisti e persino “radicali”. La sua riconosciuta maestra di politica, Esther Ballestrino de Careaga, era una marxista integrale. Eppure, fin dall’adolescenza, dice d’aver avuto “simpatia” per “le riforme sociali che Perón stava attuando”, fin quasi a fare a botte con un suo zio che “parlava, sparlava, parlava” contro Perón ed Evita, e quella rissa “è stata un po’ il battesimo pubblico della mia passione politica”.

Niente di nuovo. Di questo peronismo del giovane Bergoglio si sapeva da tempo, anche per sua stessa ripetuta ammissione in libri e interviste. Ma un paio d’anni fa, a sorpresa, in una ennesima sua biografia autorizzata a firma di Sergio Rubin e Francesca Ambrogetti dal titolo “El Pastor”, aveva negato persino d’essere stato un “simpatizzante” di quel movimento politico, polemizzando con chi continuava a definirlo tale.

Una negazione sbalorditiva, questa sua. Che faceva a pugni, tra l’altro, con la sua cessione dell’Università del Salvador, quand’era provinciale dei gesuiti, agli ultraperonisti della “Guardia de Hierro”, riferita per filo e per segno in precedenti sue biografie autorizzate, come pure a quanto rivelato dal biografo forse a lui più congeniale, l’inglese Austen Ivereigh: che “non solo Bergoglio era vicino alla ‘Guardia de Hierro’, ma nel febbraio e nel marzo del 1974, attraverso l’amico Vicente Damasco, un colonnello stretto collaboratore di Perón, fu uno dei dieci o dodici esperti invitati a scrivere i loro pensieri nella bozza del ‘Modelo nacional’, il testamento politico che Perón considerava il mezzo per unire gli argentini dopo la sua morte”.

Ebbene, nell’autobiografia ora in vendita Francesco nega la precedente negazione e rimette in circolo quello che si sapeva da sempre. Al peronismo dedica poco più di una pagina, ma sufficiente per riaffermare che in esso vedeva “un legame con la dottrina sociale della Chiesa”, comprovato dal fatto che “Perón consegnava a monsignor Nicolás De Carlo, in quegli anni vescovo di Resistencia, nel Chaco, i suoi discorsi perché li leggesse e gli dicesse se erano in accordo con quella dottrina”.

La visione politica di papa Francesco, la sua adesione a quelli che chiama i “movimenti popolari”, il suo elevare a “mito” il popolo, hanno nel peronismo la loro radice. Come pure la sua invincibile avversione al “capitalismo che uccide”, più volte condannato con enfasi nel libro.

E poi ci sono le invettive contro la guerra che “è sempre una sconfitta, sempre”, e contro la fabbricazione e il commercio delle armi, “una pazzia”, che nel libro occupano decine e decine di pagine.

Eccetto quelle due righe solitarie in cui all’improvviso si legge che “noi non confondiamo aggressore e aggredito, e non neghiamo il diritto alla difesa”. E allora le armi? E la guerra? La logica, si sa, non primeggia nel pensiero di Bergoglio.

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Sul suo ministero di papa dice poco. Dei titoli attribuiti nella storia ai pontefici ne accetta solo uno, quello di vescovo di Roma. Meglio per il papa, scrive, tornare al “ruolo del primo millennio”, senza però spiegare come e perché. Quanto ai cardinali, anche loro sappiano di essere non “eminenze” ma “servi”.

Nemmeno sulla “sinodalità” della Chiesa dice granché. Insiste piuttosto sulla tesi che “la Chiesa è donna, non è maschio”. Quindi guai a ”maschilizzare” la donna, a “cooptare tutte nel clero”, a “far diventare tutti e tutte diaconi con ordine sacro”. Salvo scrivere, poche righe più avanti, che “la questione dell’accesso delle donne al ministero diaconale, a riguardo del quale occorre proseguire il discernimento, resta aperta allo studio”.

Molto selettivi sono anche i rimandi ai suoi viaggi. Nel ricordare quello in Iraq del 2021 infila una notizia inedita:

“Mi avvertirono non appena atterrammo a Baghdad. La polizia aveva avvisato la gendarmeria vaticana di un’informativa giunta dai servizi segreti inglesi: una donna imbottita di esplosivo, una giovane kamikaze, si stava dirigendo a Mosul per farsi esplodere durante la visita papale. E anche un furgone era partito a tutta velocità con il medesimo intento”.

E poi ancora:

“Quando il giorno seguente domandai alla gendarmeria che cosa si sapeva sui due attentatori, il comandante mi rispose laconicamente: ‘Non ci sono più’. La polizia irachena li aveva intercettati, e fatti esplodere”.

Trapelata un mese prima dell’uscita del libro, questa notizia è stata dichiarata falsa il 18 dicembre dall’ex governatore di Ninive Najim al-Jubouri, all’epoca dirigente supremo della sicurezza nella regione.

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La sorpresa più grossa del libro è in ogni caso data dal silenzio sulla sua vita da gesuita.

Ordinato prete nel 1969 e poco dopo promosso maestro dei novizi della Compagnia di Gesù, “nel 1973 – scrive – sono diventato superiore provinciale dell’ordine. Avevo trentasei anni ed ero il più giovane ad aver ricoperto quella carica in Argentina. Sbagliai molto. E molto avrei avuto modo di imparare, e duramente, dai mei errori”.

Ma su quali siano stati questi “errori” nel libro non c’è una sola riga. Forse “il modo autoritario e rapido di prendere decisioni, in maniera brusca e personalista”, di cui parlò in un’intervista del 2013 alla “Civiltà Cattolica”? Nel libro il papa fa cenno a una sua “mancanza di pazienza”, a un suo essere stato a volte “un disobbediente e un indisciplinato”. Ma non una parola in più.

Riconosce di aver avuto “momenti bui”, e cita “la notte oscura a Córdoba tra il 1990 e il 1992”. Ma anche qui, senza alcun altro cenno.

Eppure in altre occasioni, negli anni passati, Francesco era stato più esplicito, ad esempio nell’incontro che ebbe con i preti di Roma il 15 febbraio del 2018, all’inizio della Quaresima.

Quella volta egli dipinse come un’ascesa rapida e folgorante la fase iniziale della sua vita da gesuita, nella quale confessò d’aver esercitato una sorta di “onnipotenza”.

Bergoglio fu superiore provinciale dei gesuiti per sei anni, fino al 1979, e poi rettore fino al 1985 del Colegio Máximo di San Miguel.

Ma poi cominciò la sua fase discendente, che raccontò così ai preti di Roma:

“Ed è finito tutto questo, tanti anni di governo. E lì è incominciato un processo di ‘ma adesso non so cosa fare’. Sì, fare il confessore, finire la tesi dottorale – che era lì, e che non ho mai difeso –. E poi ricominciare a ripensare le cose. Il tempo di una grande desolazione, per me. Io ho vissuto questo tempo con grande desolazione, un tempo oscuro. Io credevo che fosse già la fine della vita, sì, facevo il confessore, ma con uno spirito di sconfitta. Perché? Perché io credevo che la pienezza della mia vocazione fosse nel fare le cose. Facevo il confessore e il direttore spirituale, in quel tempo: era il mio lavoro. Ma l’ho vissuto in modo molto oscuro, molto oscuro e sofferente, e anche con l’infedeltà di non trovare il cammino, e [con la ricerca di una] compensazione, per compensare [la perdita di] quel mondo fatto di ‘onnipotenza’, per cercare compensazioni mondane”.

In effetti a partire dal 1986, quando provinciale dei gesuiti argentini divenne Víctor Zorzín, suo nemico acerrimo, Bergoglio fu bruscamente messo ai margini, spedito in Germania un po’ di mesi a studiare controvoglia e infine costretto a una sorta di esilio nella città di Córdoba, tra il 1990 e il 1992, senza più alcun ruolo, in tensione mai risolta tra senso di sconfitta e volontà di rivincita.

E tra chi allora deteneva il comando nella Compagnia di Gesù, sia in Argentina che a Roma nella curia generalizia, su su fino al superiore generale Peter Hans Kolvenbach, questa sua mancanza di equilibrio psicologico e quindi questa sua inaffidabilità erano divenute giudizio comune. A preoccupare era soprattutto il fatto che Bergoglio, anche privato d’autorità, continuava a capeggiare una frazione dei gesuiti argentini, in incessante guerra con la frazione avversa, progressista e antiperonista.

Kolvenbach evitò sempre di incontrare Bergoglio, quando si recava in Argentina, né Bergoglio mise mai piede nella curia generalizia dei gesuiti, nei suoi viaggi a Roma. Anche un gesuita di primissimo piano quale il cardinale Carlo Maria Martini aveva maturato su di lui un giudizio negativo, come riferito dallo storico della Chiesa Andrea Riccardi.

Poi, all’improvviso, il miracolo, propiziato dall’allora nunzio vaticano in Argentina Ubaldo Calabresi, che ripescò Bergoglio dall’esilio di Córdoba per farne prima il vescovo ausiliare di Buenos Aires e poi il coadiutore della medesima arcidiocesi, con diritto di successione.

Il seguito, da cardinale e poi da papa, è noto. Con un’indubbia svolta da prima a dopo l’elezione alla sede di Pietro, che si è percepita anche dalla sua faccia sempre scura, prima – “per non sbagliare”, scrive –, e più sorridente, dopo.

Di questa sua vertiginosa risalita da vescovo a papa nel libro non c’è quasi nulla. Tranne il curioso ricordo di un pranzo a Roma “a casa di Lella”, la sorella del defunto nunzio Calabresi, due giorni prima del conclave. Per un ultimo grazie al suo benefattore.