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AGGIORNAMENTO del programma del 13º Pellegrinaggio Populus Summorum Pontificum #sumpont2024

Cari amici, a pochi giorni dall ’inizio de l  13º Pellegrinaggio  Populus Summorum Pontificum   a Roma da venerdì 25 a domenica 27 ottobre  ...

domenica 1 settembre 2024

La chiesa della nuova liturgia

Vi proponiamo – in nostra traduzione – la lettera 1092 di Paix liturgique pubblicata il 30 agosto, in cui, per gentile concessione dell’autore, si pubblica uno studio di don Grégoire Célier su un aspetto poco studiato della riforma liturgica: il suo impatto sulla trasformazione degli edifici destinati al culto.
Questo stravolgimento dello spazio sacro esprime e sottolinea la teologia che lo sottende.
Lo studio ha il vantaggio di fornire un’antologia di testi pubblicati da specialisti riconosciuti tra il 1965 e il 1985, nei due decenni in cui la riforma era «fresca e gioiosa», costituendo una preziosa documentazione storica del suo contesto e delle sue intenzioni.

L.V.


La riforma liturgica è stata uno degli elementi più importanti degli sviluppi successivi al Concilio Vaticano II, se non il più significativo. Una citazione di San Paolo VI del 13 gennaio 1965, tra le tante, lo ricorda puntualmente [QUI: N.d.T.]:

la nuova pedagogia religiosa che il presente rinnovamento liturgico vuole instaurare, si innesta, e quasi al posto di motore centrale, nel grande movimento, iscritto nei principii costituzionali della Chiesa di Dio, e reso più facile e più impellente dal progresso dell’umana cultura […].

È quindi opportuno ripercorrere questa riforma liturgica per comprenderne meglio i fondamenti, le implicazioni e i risultati. Ci proponiamo di farlo qui attraverso la lente dell’«edificio chiesa». La questione di come la liturgia risultante dal Concilio Vaticano II sia incorporata nelle chiese costruite prima del Concilio Vaticano II è particolarmente attuale per valutare i cambiamenti apportati dalla riforma.

A tal fine, abbiamo attinto alle riflessioni e ai commenti dei migliori specialisti di liturgia che hanno scritto dopo il Concilio Vaticano II. Essi ci permetteranno di individuare i problemi che sono sorti con l’inizio della celebrazione delle nuove forme liturgiche e di cogliere in cambio ciò che la riforma liturgica post-conciliare ci dà da pensare. Poiché questi testi sono stati pubblicati durante i due decenni (1965-1985) in cui la riforma liturgica è stata attuata, non sorprende che siano scritti al presente o al futuro piuttosto che al passato.

Relazione contenitore-contenuto

Gli autori iniziano sottolineando che l’architettura di una chiesa, come quella di qualsiasi altro edificio, riflette le idee di chi l’ha costruita. Costruita per una certa liturgia, un certo cerimoniale, una certa teologia, esprime necessariamente quei valori. Attraverso la sua disposizione, crea un clima particolare, favorevole al dispiegamento della forma di espressione religiosa che ha presieduto alla sua progettazione. Di conseguenza, «interessarsi alla liturgia senza preoccuparsi della disposizione dei luoghi in cui si svolge non avrebbe senso. Esiste infatti una profonda affinità tra uno spazio progettato secondo l’arte e la liturgia che vi si svolge» (Emile Vauthier, «L’aménagement des églises», Esprit et Vie - L’Ami du clergé 27, 5 luglio 1984, pagina 393).

Per sua natura, un edificio è un oggetto stabile che resiste alla prova del tempo. «Un edificio non cambia come un rito» (Guy Oury, «L’aménagement des églises - Un aspect du renouveau liturgique», L’Ami du clergé 6, 10 febbraio 1966, pagina 89). Si trasporta così l’involucro che un periodo della vita della Chiesa aveva messo in atto per muoversi a suo agio, in un momento in cui, forse, la vita della Chiesa è profondamente cambiata, il che può causare una distorsione tra il contenitore e il contenuto. Dopo il Concilio Vaticano II, proprio a causa di una rapida e radicale evoluzione rituale (e teologica), una liturgia abbastanza nuova ha dovuto essere dispiegata in spazi architettonici costruiti secondo altri canoni e per altri usi. Infatti «la maggior parte dei nostri luoghi di culto sono stati progettati e costruiti diversi secoli fa, a volte per esigenze diverse dalle nostre» («Simple dialogue à propos de l’espace liturgique», Communautés et Liturgies 6, novembre-dicembre 1978, pagina 545). I vecchi edifici si sono quindi rivelati più o meno inadatti alle nuove norme della celebrazione cristiana.

Da questo punto di vista, «si pone una duplice questione: come utilizzare i luoghi di culto così come ci sono stati lasciati e come progettarne di nuovi che siano più adatti al nostro stile di vita urbano e alla situazione della Chiesa di oggi» («Simple dialogue à propos de l’espace liturgique», Communautés et Liturgies 6, novembre-dicembre 1978, pagina 546).

Il monumento dà una certa idea di Dio

Fin dall’inizio ci si è chiesti: «Come garantire che la liturgia di oggi si svolga in un ambiente concepito per la liturgia di altre epoche?» («Le congrès d’art sacré d’Avignon», Notes de pastorale liturgique 137, dicembre 1978, pagina 63). Infatti, come ha notato padre [poi card.: N.d.T.] Yves Marie-Joseph Congar O.P. a proposito dell’Arcibasilica di San Pietro in Vaticano a Roma (ma la sua osservazione vale anche per le altre chiese), «tutta un’ecclesiologia è già inscritta nella pianta del luogo» (Yves Congar, Vatican II. Le concile au jour le jour, première session, Cerf-Plon, 1963, p. 23).

Padre Jean-Yves Quellec O.S.B. spiega molto chiaramente qual è la posta in gioco: «La configurazione esterna di un edificio, la distribuzione e l’organizzazione dei suoi spazi interni, lo stile degli oggetti che vi sono esposti, formano già un’immagine più o meno chiara del Dio che vi incontriamo. (…) Il modo in cui occupiamo lo spazio delle nostre chiese, il modo in cui disponiamo i mobili, il modo in cui arrediamo il santuario, il modo in cui scegliamo una croce, un’icona o un altare, implicano tutti che ci riferiamo, consapevolmente o inconsapevolmente, a diverse immagini di Dio. È stato spesso sottolineato che l’immagine di Cristo nell’Eucaristia è molto diversa a seconda che l’altare assomigli a un semplice tavolo o a una tomba monumentale. (…) Va notato che, nella maggior parte dei casi, non c’era la possibilità di fare scelte che rivelassero una spiritualità: la chiesa veniva ricevuta, quasi così com’era, da coloro che l’avevano progettata e organizzata. Si deve anche notare che, altrettanto spesso, esiste una sorta di divario tra la sensibilità e le idee religiose dei contemporanei e quelle che regolavano la costruzione di un edificio» (Jean-Yves Quellec, «Le Dieu de nos églises», Communautés et Liturgies 4, settembre 1981, pagine 275 e 278).

Ad esempio, «le pale d’altare del XVII secolo, concepite per l’adorazione come richiesto dal Concilio di Trento, rappresentano una certa visione della fede. Oggi abbiamo un’idea diversa della Presenza Reale» (Philippe Boitel, «Une église peut-elle être un musée?», Informations catholiques internationales 402, 15 febbraio 1972, pagina 5). «Fin dai tempi della Controriforma, la riserva sacra è stata spesso legata all’altare maggiore, con il quale sembrava essere il centro vitale dell’edificio. Ma l’attuale rinnovamento della celebrazione liturgica, restituendo il giusto valore a ogni momento della celebrazione, ha ridato valore alle altre modalità della presenza del Signore» («Paramenti, oggetti, spazi liturgici», Notes de pastorale liturgique 105, agosto 1973, pagina 26).

Due modelli di Chiesa da due teologie diverse

«La prima concezione di Chiesa, quella pre-Concilio Vaticano II, corrisponde, a titolo di esempio, a un’architettura di chiesa in cui il santuario è sproporzionatamente enorme, ben separato dal popolo, dominante su tutti i fedeli, un corpo insignificante (nel vero senso della parola) con la testa idrocefala. La teologia del Concilio Vaticano II, invece, corrisponde a un’architettura in cui il santuario e la navata sono integrati senza soluzione di continuità in un insieme armonioso» (Lucien Deiss, Les ministères et les services dans la célébration liturgique, éditions du Levain, 1981, pagina 8).

L’architettura sacra «deve presentare un’immagine della Chiesa pienamente coerente con quella che la liturgia, da parte sua, si sforza di trasmettere» (Roger Béraudy, «Introduction» in Espace sacré et architecture moderne, Cerf, 1971, pagina 7). Per questo «nemmeno la progettazione dei luoghi di culto è stata interessata dal rinnovamento» (Charles Wackeinheim, Entre la routine et la magie, la messe, Centurion, 1982, pagina 23).

La riforma liturgica implica quindi modifiche agli edifici

L’unica soluzione ipotizzabile è definire la disposizione dei volumi e degli oggetti e creare uno spazio architettonico. Ma questa conversione è difficile, a causa della caratteristica inerzia dell’edificio. «Celebrare in un vecchio edificio pone problemi tecnici, di protezione e legati all’evoluzione della liturgia: dopo il Concilio Vaticano II, la predicazione e la celebrazionaeucaristica, ad esempio, non richiedono più gli stessi movimenti di prima» («Le congrès d’art sacré d’Avignon», Notes de pastorale liturgique 137, dicembre 1978, pagina 64).

«Poiché la riforma liturgica ha portato a cambiamenti nella disposizione degli spazi, dobbiamo renderci conto che questi cambiamenti non sono privi di problemi, soprattutto quando avvengono in edifici progettati secondo una logica diversa. Per esempio, oggi occupiamo punti di questo spazio in cui non era previsto che si parlasse. Così facciamo violenza al luogo. L’architettura violata non risuona più con l’assemblea. Può farlo – può rispondere – solo se rimaniamo nel posto giusto» (Paul Roland, «Libre propos sur l’espace liturgique», Communautés et Liturgies 4, settembre 1981, pagina 296).

Tuttavia, questo cambiamento comportava difficoltà reali

«Il problema della conversione delle chiese tradizionali, come abbiamo visto, non è né semplice né facile da risolvere. La forma delle nostre vecchie chiese non si presta immediatamente ai cambiamenti voluti dal Concilio Vaticano II» (Jean Huvelle, «Réforme liturgique et aménagement des églises», Revue diocésaine de Tournai, 1965, p. 236). Ad esempio, «una volta installato l’altare definitivo [rivolto verso il popolo], sarà necessario considerare la rimozione, il trasferimento o qualsiasi altra opzione per il vecchio altare. Tale operazione non può essere effettuata senza la consulenza di un architetto competente. L’architettura di una chiesa è stata spesso progettata pensando all’altare in fondo al coro. Cambiare l’altare non solo cambia l’arredamento, ma trasforma anche le linee architettoniche» (Thierry Maertens e Robert Gantoy, La nouvelle célébration liturgique et ses implications, Publications de Saint-André-Biblica, 1965, pagina 57).

«Le chiese non si prestano facilmente a usi diversi da quelli per cui sono state progettate: nella maggior parte di esse, l’insieme è pensato per assemblee “in lunghezza”. Da qualche tempo la disposizione delle chiese sta cambiando: sono progettate per assemblee “larghe”, dove le persone possono vedersi, ascoltarsi e comunicare. A volte si riesce a sistemare una vecchia chiesa in questo modo, ma è sempre difficile» («Costruire una celebrazione», Célébrer 151, aprile 1981, p. 14). «È abbastanza certo che le nostre belle chiese allungate, piene di una foresta di pilastri, incoraggiano la preghiera solitaria più che il raduno di un popolo; le nuove chiese, al contrario, ci impediscono di isolarci» (Henri Denis, «L’esprit de la réforme liturgique», Société nouvelle des imprimeries de la Loire Républicaine, 1965, p. 27).

Tuttavia, non è possibile lasciare le cose come stanno

Poiché la qualità della celebrazione secondo le nuove norme liturgiche dipende da un ambiente architettonico adeguato, non è possibile lasciare le cose come stanno. Padre Joseph Gélineau S.I. nota «la difficoltà fin troppo evidente incontrata nel tentativo di inserire la liturgia post-Concilio Vaticano II in spazi e volumi pensati per un tipo di liturgia molto diverso» (Joseph Gélineau, Demain la liturgie, Cerf, 1976, pagina 29).

I liturgisti non si sono arresi: «Va anche sottolineato che i sacerdoti sono invitati a continuare ad adattare le loro chiese alle esigenze della liturgia. In particolare, si raccomanda loro di collocare il Santissimo Sacramento in una cappella separata dalla navata principale della chiesa, e di dare una nuova collocazione ai tesori dell’arte sacra, se devono essere rimossi dalla loro attuale collocazione» («L’instruction sur le culte eucharistique montre que la mise en œuvre de la réforme est fermement poursuivie», Informations catholiques internationales 290, 15 giugno 1967, pagina 8).

È quindi necessario prendere in considerazione la possibilità di modificare la disposizione delle chiese, laddove necessario e possibile, per adattarle alla nuova liturgia. Va notato che, fin dall’inizio, alcune disposizioni sono più favorevoli di altre. «Una chiesa semicircolare, dove tutti possono vedersi e sentirsi in relazione, permette certamente una migliore attuazione della riforma post-conciliare rispetto a una navata allungata costruita secondo altri canoni estetici e religiosi» (Jean-Claude Crivelli, Des assemblées qui célèbrent: une pratique des signes du salut, Commission suisse de liturgie, 1980, pagina 11).

Adattamenti necessari

Ma poiché spesso non è così, occorre pensare a «trasformare l’assetto interno delle chiese di tutto il mondo, al fine di rinnovare la celebrazione dell’Eucaristia» (Pierre Jounel, «Le missel de Paul VI», La Maison Dieu 103, 3º trimestre 1970, pagina 32). Per questo motivo l’altare doveva essere collocato di fronte al popolo,¹ l’ambone doveva essere fornito, la riserva eucaristica doveva essere ricollocata e i posti a sedere dovevano essere ridistribuiti. «Questo spirito ci ha spinto ancora più in là: la scelta di panche piuttosto che di sedie (per evitare di girarsi e il rumore che ne deriva), l’eliminazione degli inginocchiatoi (i fedeli rimangono in piedi o seduti durante l’azione liturgica)» (Thierry Maertens e Robert Gantoy, La nouvelle célébration liturgique et ses implications, Publications de Saint-André-Biblica, 1965, pagina 21).

In breve, l’assetto generale della domus ecclesiae doveva essere riconsiderato. «Questa severa prescrizione sugli altari minori [cioè la loro rimozione] si applica a maggior ragione ai numerosi oggetti devozionali che ancora oggi costellano così spesso le pareti e le colonne delle nostre chiese: Via Crucis, statue, confessionali indiscreti ecc. Se si trovano in cappelle separate dallo spazio principale della chiesa, disperdono la comunità quando, nell’Eucaristia, è chiamata a dare un segno di unità» (Thierry Maertens e Robert Gantoy, La nouvelle célébration liturgique et ses implications, Publications de Saint-André-Biblica, 1965, p. 21).

«Anche le chiese catalogate sono solo musei incidentali. Esse svolgono innanzitutto una specifica funzione religiosa. È quindi normale che la loro disposizione e il loro arredamento rispondano alle esigenze della liturgia, e più in particolare della liturgia del momento. Tuttavia, la liturgia implica nuovi modi di riunirsi; richiede un arredamento veramente mobile; porta all’abbandono dell’uso di alcuni oggetti liturgici; raggruppando le parrocchie, lascia le chiese inutilizzate. Tutto ciò ha importanti conseguenze pratiche, e bisogna dire che le vecchie chiese non sempre si prestano agli adattamenti desiderati» (Philippe Boitel, «Une église peut-elle être un musée?», Informations catholiques internationales 402, 15 febbraio 1972, pagina 4). «La riforma richiede nuove creazioni: la disposizione delle chiese, con l’altare rivolto verso i fedeli, il luogo dove si celebra la Parola di Dio, la sede del celebrante, la cappella del Santissimo Sacramento, una nuova concezione del confessionale» («Interview du cardinal Knox», La Documentation catholique 1674, 20 aprile 1975, pagina 368).

Queste trasformazioni esprimono la nuova ecclesiologia conciliare

«Cambiando il rito, la riforma comporterà anche una nuova concezione della struttura delle nostre chiese? Sì, e in modi diversi. Innanzitutto, insistendo sul significato comunitario della Messa come assemblea del popolo di Dio, la riforma richiede che tutti possano seguire il rito che si svolge sull’altare. Da un lato, quindi, mira a eliminare tutti gli schermi (colonne, pilastri ecc.) che impediscono una chiara visione dell’altare, oggi possibile grazie ai progressi delle tecniche architettoniche. Dall’altro, rimette l’altare al centro, non geometricamente, ma idealmente, e lo preferisce decisamente e giustamente rivolto verso il popolo. Inoltre, enfatizzando il servizio della comunità, la riforma rende necessario trovare luoghi adatti per il celebrante, i suoi ministri, i lettori, l’ambone e così via. Per le stesse ragioni, riduce il numero degli altari minori, che sono dannosi per l’unità dell’assemblea, e allo stesso tempo semplifica gli ornamenti che prima sovrastavano l’altare» (Card. Giacomo Lercaro, «Nouvelle étape de la réforme liturgique: le pourquoi du comment», Informations catholiques internationales 235, 1 marzo 1965, pagina 26).

Questa necessità di riorganizzazione architettonica non deve sorprendere, perché se il contenitore influenza il contenuto, il contenuto deve a sua volta reagire al contenitore. «La Chiesa post-conciliare sta subendo un profondo cambiamento ed è naturale che l’edilizia ecclesiastica ne subisca gli effetti» (Philippe Boitel, «Quelles églises pour demain?», Informations catholiques internationales 388, 15 luglio 1971, pagina 22). In effetti, «la riforma liturgica costringe molte persone a riprogettare i loro luoghi di culto» («Dimanche et mission pastorale dans un monde paganisé», Notes de pastorale liturgique 57, agosto 1965, pagina 10).

«Che [il rinnovamento della liturgia] abbia delle ripercussioni sui luoghi di culto e che questi si trovino parzialmente inadeguati a causa dell’evoluzione subita dalla liturgia, non deve sorprendere nessuno. Nella misura in cui le azioni sacre sono cambiate, nella misura in cui l’accento è stato posto su una partecipazione più totale dei fedeli, anche gli edifici costruiti in altri tempi e con una visione diversa dovranno essere adattati alla loro nuova funzione» (Guy Oury, «L’aménagement des églises - Un aspect du renouveau liturgique», L’Ami du clergé 6, 10 febbraio 1966, pagina 89).

La nuova visione ecclesiologica si esprimeva naturalmente in questa nuova strutturazione dello spazio sacro. «È evidente che la riforma liturgica non può limitarsi a qualche cambiamento nel contenuto dei testi letti dai ministri o nei gesti dei celebranti. (…) Trasforma il modo in cui si svolge la liturgia. (…) Trasforma il rapporto tra il celebrante e i fedeli. Distribuisce le rispettive funzioni del celebrante, dei ministri, della schola e del popolo in un modo per noi nuovo, anche se profondamente tradizionale. Ne consegue che essa richiede una disposizione dei luoghi di celebrazione alquanto diversa da quella finora adottata» (Commission épiscopale de liturgie, «Le renouveau liturgique et la disposition des églises», Notes de pastorale liturgique 58, ottobre 1965, pagina 41, oppure La liturgie, Documents conciliaires V, Centurion, 1966, pagina 201).

Da qui la nuova disposizione

Perché «la costruzione e l’allestimento delle chiese possono ora avvenire alla luce di una concezione molto più completa ed elaborata dello spazio liturgico» (Frédéric Debuyst, «Quelques réflexions au sujet de la construction d’espaces liturgiques», Communautés et Liturgies 4, settembre 1981, pagina 285).

Padre Aimon-Marie Roguet O.P., da buon giudice, aveva intuito molto presto l’inevitabile avvento di questa sensibile incarnazione del rinnovamento. «Alcune riforme, che sembravano riguardare solo la disposizione dei testi e dei riti, modificheranno insensibilmente alcuni accessori delle nostre chiese e persino alcune delle loro strutture architettoniche» (Aimon-Marie Roguet, «Le signe du vin», Notes de pastorale liturgique 66, febbraio 1967, pagina 43). Questo è ciò che tutti hanno potuto capire un po’ più tardi. «La riforma liturgica mira con tutte le sue forze alla partecipazione piena e attiva di tutto il popolo. Perché ciò sia possibile, è necessaria un’architettura adeguata. (…) Il rinnovamento liturgico e il modo in cui la Chiesa si colloca nel mondo richiedono un nuovo tipo di architettura» (F. Agnus, «Architecture et renouveau liturgique», Notes de pastorale liturgique 76, ottobre 1968, pagina 46).

Le nuove chiese da costruire dovrebbero essere mobili e temporanee

«Il carattere monumentale e definitivo di ciò che costruiamo non si presta bene all’attuale mobilità, che si nota nella Chiesa stessa: i problemi, spesso insolubili, posti dall’adattamento delle vecchie chiese alle esigenze attuali, se non altro alle nuove forme di celebrazione liturgica, è molto probabile che si presentino, tra cinque o dieci anni, per le chiese che abbiamo appena costruito. (…) Nelle condizioni attuali, sembrerebbe normale concepire questo luogo di incontro, a immagine delle attività della comunità, come un luogo multifunzionale, utilizzabile per scopi diversi dalle sole cerimonie liturgiche. Una domus ecclesiae, ad esempio, potrebbe essere costruita su uno o due piani di un grande edificio e comprendere, oltre ad alcune piccole stanze (una delle quali potrebbe essere adibita a oratorio per la preghiera privata e la visita al Santissimo Sacramento) e agli uffici del personale permanente, una grande sala che potrebbe essere allestita per vari usi (conferenze, riunioni, celebrazioni, ricevimenti, liturgia, ecc.) con mobili veramente mobili» (Pierre Antoine, «L’église est-elle un lieu sacré?», Études, marzo 1967, pagine 442-444).

Perché «è chiaro che oggi dobbiamo abbandonare la concezione più o meno pagana e trionfalistica del tempio, dove predominano gli elementi della monumentalità e dello spazio sacro, e riscoprire la concezione cristiana dell’assemblea, dove predominano i valori dell’umiltà, dell’interiorità e delle relazioni personalizzate. Le chiese tornerebbero così a essere chiese-casa piuttosto che santuari dell’Altissimo» (Dieudonné Dufrasne, «Contribution à une spiritualité du samedi saint», Paroisse et Liturgie 2, marzo-aprile 1972, pagina 115).

«Dobbiamo lanciare un avvertimento. Oggi la liturgia è nel crogiolo: non possiamo dire quali saranno le forme di culto del futuro. Per questo motivo, non possiamo progettare chiese solo sulla base dell’attuale concezione della liturgia, senza correre il rischio di vederle superate quando saranno completate. Man mano che il movimento liturgico avanza, emergeranno nuove idee sul culto (…). In ultima analisi, gli edifici religiosi devono essere edifici moderni per l’uomo moderno» (John Gordon Davies, «La tendance de l’architecture moderne et l’appréciation des édifices religieux», in Espace sacré et architecture moderne, Cerf, 1971, pagine 94, 95 e 99). «Ciò presuppone che un edificio religioso sia, per vocazione, incompiuto: non tanto perfettibile quanto in evoluzione, disponibile, almeno in una certa misura. (…) Non dovremmo forse essere preparati a cambiamenti e riconversioni imprevedibili nell’ambito della probabile durata di vita dei nostri edifici?» (Denis Aubert, «De l’église à tout faire à la maison d’église - Expériences à Taizé» in Espace sacré et architecture moderne, Cerf, 1971, p. 110 e 112).

La Chiesa è chiamata a trasformarsi in modo permanente

Infatti, «se la costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium viene osservata nella lettera e nello spirito, la liturgia non rischia più di fissarsi o di immobilizzarsi. Come un albero che ha radici forti e la cui linfa è nutriente, porterà su rami che vivono e si diffondono, nuovi fiori e nuovi frutti» (Mons. Henri-Martin Félix Jenny, «Introduction» in La liturgie, Centurion, 1966, pagina 41).

È in questo senso che il card. Giacomo Lercaro, allora presidente del Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, orientò la sua ricerca nel suo messaggio al simposio di artisti tenutosi il 28 febbraio 1968 a Colonia. Disse: «Senza dubbio, una cosa è abbastanza chiara: le strutture architettoniche delle chiese devono cambiare con la stessa rapidità con cui cambiano oggi le condizioni di vita e le case delle persone. Anche quando costruiamo un luogo di culto, dobbiamo tenere presente la natura estremamente transitoria di queste strutture materiali, la cui funzione è quella di servire la vita delle persone. In questo modo, eviteremo che le generazioni future siano condizionate da chiese che oggi consideriamo all’avanguardia, ma che rischiano di essere solo edifici obsoleti. Noi, da parte nostra, sperimentiamo oggi questo condizionamento: vediamo quanto sia difficile per le meravigliose chiese del passato adattarsi alla nostra sensibilità religiosa, e come resistano ineluttabilmente alle necessarie riforme dell’azione liturgica. (…) Non presumiamo dunque di costruire chiese per i secoli a venire, ma accontentiamoci di fare chiese modeste e funzionali, adatte alle nostre esigenze e davanti alle quali i nostri figli si sentano liberi di ripensarne di nuove, di abbandonarle o di modificarle come il loro tempo e la loro sensibilità religiosa suggeriscono» (Giacomo Lercaro, «Message au symposium des artistes tenu à Cologne le 28 février 1968», La Maison Dieu 97, 1º trimestre 1969, pagine 16-17, oppure in Espace sacré et architecture moderne, Cerf, 1971, pagine 25-26). Questa riflessione del suo presidente corrispondeva perfettamente agli obiettivi del Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia e del suo segretario, mons. Annibale Bugnini C.M., come si evince dai due testi della sua rivista ufficiale, su cui concluderemo. «Il lavoro di riforma liturgica non è finito e, secondo lo spirito del Concilio Vaticano II, non deve mai finire. La liturgia, come la Chiesa nel suo aspetto umano, è inevitabilmente soggetta a una continua riforma, che nasce dalla vita ecclesiale, affinché la Chiesa sia veramente adattata al tempo presente, alla cultura odierna e al momento storico» (Dom Anschaire J. Chupungco O.S.B., «Costituzione conciliare sulla sacra liturgia. 15º anniversario», Notitiæ 149, dicembre 1978, pagina 580). «La riforma liturgica continuerà senza limiti di tempo, di spazio, di iniziativa o di persona, di modalità o di rito, affinché la liturgia rimanga viva per gli uomini di tutti i tempi e di tutte le generazioni» («Rinnovamento nell’ordine», Notitiæ 61, febbraio 1971, pagina 52).

«Solo dopo una catechesi che potesse concentrarsi o sul significato dell’assemblea o sul significato della presenza di Dio nella comunità, si sarebbe adottato l’altare davanti al popolo definitivo e le conseguenze che esso comporta. Si potrebbe spiegare ai fedeli che l’assemblea cristiana non è solo un’assemblea di uomini rivolta verso il suo Dio, perché Dio si è incarnato in essa ed è al suo interno che deve scoprirlo» (Thierry Maertens e Robert Gantoy, La nouvelle célébration liturgique et ses implications, Publications de Saint-André-Biblica, 1965, pagina 16).

Alcuni libri per riflettere

Tra le «opere» che, a partire dagli anni Cinquanta, hanno messo in guardia dalla grande crisi della Chiesa e della civiltà, di cui stiamo subendo le drammatiche conseguenze, la rivista mensile Itinéraires e il suo direttore Jean Madiran devono senza dubbio occupare un posto d’onore. La nuova biografia di Jean Madiran di Yves Chiron (la prima fu pubblicata nel 1989 da Danièle Masson) è quindi particolarmente gradita.

Questo lavoro non si limita alla rivista Itinéraires (che ha funzionato dal 1956 al 1996), ma copre l’intera vita del suo fondatore, dal 1920 al 2013, che è stato per molti anni direttore del quotidiano Présent, oltre che autore di un’abbondante e importante opera scritta. Attraverso questa biografia, ripercorriamo un secolo di storia della Chiesa e della Francia, in compagnia di un «contemporaneo chiave», in un momento in cui, grazie soprattutto ai miraggi di internet, si sta semplicemente dimenticando il proprio passato, anche quello più recente. Eppure, «chi non ha passato non ha futuro».

Don Jean-Paul André ha pubblicato un libro molto originale, in quanto, intervallando le meditazioni sui Prefazi e sulle Collette liturgiche, ad esempio, offre riflessioni spirituali rivolte a varie categorie di persone: futuri sposi, come è prevedibile, ma anche futuri artisti, futuri lavoratori, futuri carcerati, futuri malati gravi, futuri sconfitti, e così via. Poiché è possibile e probabile che chiunque nel nostro tempo passi un giorno o l’altro attraverso almeno uno di questi stati, tutti troveranno in questo libro molti spunti di riflessione.

Cyril Farret d’Astiès (un laico, al suo secondo libro sulla liturgia), pone la questione fin dall’inizio, in tre capitoli successivi: Perché rimettere sul tavolo il tema della liturgia? Perché un laico si prende la libertà di trattare questo argomento? Osare il dibattito.

Sgombrato il terreno, inizia proponendo di «riscoprire il senso della liturgia», a partire dalla «gioia di Dio» (nelle due possibili accezioni di questa espressione). Dedica poi un capitolo di 130 pagine a un’utile «breve storia della riforma liturgica». Poste tutte queste basi, è finalmente in grado di affrontare la questione del rito di San Paolo VI e del rito tradizionale in tre capitoli, innanzitutto ricordando cosa vuole essere (in sé) il rito di San Paolo VI; in secondo luogo mostrando i problemi che sorgono quando si vuole celebrare questo nuovo rito con uno «spirito tradizionale»; in terzo luogo sottolineando le immense ricchezze del rito tradizionale, che non è mai stato vietato e non può esserlo.

Infine, citiamo la «quarta edizione parzialmente rivista» di un libro di don Claude Barthe, membro del programma di commenti religiosi online «Le Club des Hommes en noir». Quest’opera classica sulla crisi della Chiesa merita ancora di essere letta, o riletta.

  • Yves Chiron, Jean Madiran 1920-2013, DMM, 2023, 29 euro.
  • Jean-Paul André, Conseils d’un prêtre pour un temps troublé, Via Romana, 2024, 20 euro.
  • Cyril Farret d’Astiès, La joie de Dieu - Réflexions liturgiques, Presse de la Délivrance, 2023, 22 euro.
  • Claude Barthe, Trouvera-t-il encore la foi sur la terre, Via Romana, 2023, 22 euro.

¹ «L'altare rivolto verso il popolo definitivo e le conseguenze che ne derivano saranno adottate solo dopo una catechesi che potrebbe concentrarsi sul significato dell'assemblea o sul significato della presenza di Dio nella comunità. Potremmo spiegare ai fedeli che l'assemblea cristiana non è solo un'assemblea di uomini rivolta verso il suo Dio, perché Dio si è incarnato in essa ed è al suo interno che deve scoprirlo» (Thierry Maertens e Robert Gantoy, La nouvelle célébration liturgique et ses implications, Publications de Saint-André-Biblica, 1965, pagina 16).

4 commenti:

  1. Una Chiesa diversa, incompatibile con la Chiesa di sempre, anche dal punto di vista architettonico, per ammissione dei suoi stessi fautori, una Chiesa vuota, fatta di parole vuote, di brutture architettoniche, che non attira perché non ha veri contenuti!!

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  2. Quando dici che Francesco è amico di Maduro, sei serio come quelli che dicono che Giovanni Paolo II era amico di Pinochet: matrice politica opposta, ma stesso odio ideologico.

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    1. 06:47, ma in questo caso (amicizia Bergoglio-Maduro), i fatti sono eloquenti ed non mere chiacchiere.

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  3. Non credo che la Chiea dovesse restare immobile. Ma i cambiamenti sono stati così maldestri e così maldestramente radicali da diventare un suicidio.

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