A Trieste il
cardinale Zuppi scambia le esigenze della verità con le “dogane ideologiche”
Gli
argomenti trattati sono fondamentali, perché vanno a toccare il corpo mistico
di Cristo, che è la sua Chiesa. Il Card. Zuppi, in particolare, ha commentato
la Prima Lettera ai Corinzi di San Paolo (12, 12-30): è il punto della Lettera
dove l’Apostolo parla del corpo e delle membra della Chiesa. La lettura che ne
dà Zuppi è paolina, ovvero il corpo si tiene solo se tutte le membra sono
concordi, se hanno cura le une delle altre, se c’è comunione e concordia.
Al contrario – afferma
Zuppi – l’individualismo e
il protagonismo egocentrico sono un danno per l’unità della Chiesa e, dunque,
per l’unità del corpo mistico. Il danno è inteso anche nel senso di
«partecipazione», perché il partecipare è possibile solo in una comunità di
persone. Da qua l’altro grande tema teologico, toccato da Zuppi, della zizzania
e della divisione: il «divisore» – il diavolo, cioè diàbolos
(divisore, accusatore, in greco)
– corrompe l’unità del corpo mistico con uno «zelo mal posto».
Tutto il corpo
mistico si tiene, secondo Zuppi, sull’amore: «Solo l’amore può generare un
corpo che è pensarsi insieme». No, non solo l’amore, ma accanto all’amore c’è
la verità, che egli non pronuncia mai per tutto l’intervento, se non in
negativo, nel senso che Zuppi reputa un male che il mondo sia «pieno di torri
di guardia e di mura difensive». Il rimando va immediatamente alla nota teoria
delle «dogane ideologiche», più volte richiamate dal progressismo teologico
degli ultimi due decenni (almeno) e che vede con sospetto – se non
con avversione completa –
l’apologetica e la difesa della verità.
Eppure è lo
stesso Gesù Cristo che associa l’unità della Chiesa alla verità, ad esempio nel
Vangelo di Giovanni (17, 11-19): «Padre
santo, custodiscili nel tuo nome […], perché siano una sola cosa, come noi. […]
Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu hai mandato me nel
mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; per loro io consacro me stesso,
perché siano anch’essi consacrati nella verità».
Gesù, nella sua
preghiera sacerdotale, ripete «verità» tre volte e proprio in relazione all’«ut unum sint» («perché siano una sola cosa»). È chiaro che l’esegesi non si fa su un solo verso del Vangelo e,
quindi, l’unità del corpo mistico – nel senso teologico più ampio – si realizza solo nell’unione tra «verità» e «carità», cioè tra verità e
amore. Non è dunque possibile parlare di unità del corpo mistico senza nominare
la verità e l’amore, oppure nominando solo la verità o solo l’amore.
Non va dimenticato che
lo Spirito Santo è Spirito d’amore, per appropriazione, ma in quanto Dio è lo
«Spirito di verità» (Gv 16, 13). Non è possibile rimuovere la questione della
verità nemmeno parlando dell’azione dello Spirito Santo.
Sant’Agostino,
ne La città di Dio, parla sempre e solo di «civitas permixta»
(città mista, composita), che è la società umana e in cui convivono
commischiate – fino alla fine dei tempi, fino alla parusia del Cristo – la «città terrena» e la «città di
Dio». La pólis, quindi, per Agostino e per la teologia
classica è sempre una civitas permixta, in cui la mentalità mondana
(Babilonia) deve convivere con la mentalità convertita dei santi (Gerusalemme).
Le due mentalità sono inconciliabili e, di fatto, non si concilieranno mai,
perché l’empio sarà condannato e il santo sarà salvo in eterno.
La teologia
contemporanea (non Zuppi, che si limita a ripetere), al traino della svolta
antropologica rahneriana, ha invece introdotto il concetto goffo di «città
dell’uomo», per tentare, in modo maldestro, di conciliare Gerusalemme e
Babilonia, sacro e profano, benedizione e maledizione, amore e odio. Si vuole
cioè giungere, con la nuova teologia riformata, al compromesso tra verità e
menzogna.
Anche dal punto di vita grammaticale,
la «città dell’uomo» è una banalità: la città terrena è ovviamente la città
dell’uomo – le tautologie
hanno sempre un secondo fine malcelato. L’obiettivo di questa teologia spuria è
appunto la ricerca del compromesso civile e politico, che finora ha portato
solo danni all’uomo, poiché si sono imposte legislazioni che, pur apparendo
giuste, sono ingiuste e opposte al vero bene comune.
Così come ci
sono due significati di «offendere», ci sono pure due generi di «offesa». C’è
l’offesa dello zelo satanico, che è un ingiuriare, un insolentire, un
oltraggiare, un vilipendere. Ma c’è anche l’«offendere» dei santi, che deriva
dall’etimologia militare propria del termine. In questo senso, l’«offendere» è
il «fendere» con un’arma, il colpire, l’urtare. E infatti la verità può essere
divisiva, sgradevole, dolorosa, indigesta, mortificante.
È lo stesso Gesù
a presentarsi come «divisore» e «separatore»: «Pensate che io sia venuto a
portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione» – «Putatis quia
pacem veni dare in terram? Non, dico vobis, sed separationem» (Lc 12, 51).
L’Agnello è colui al quale esce dalla bocca «una spada affilata
a doppio taglio» (Ap 1, 16). A questo proposito,
sant’Agostino dice che «i santi muovono guerra, sguainano le spade a due tagli,
e avvengono stragi, uccisioni, separazioni» (Esposizione del Salmo 149).
In tempi recentissimi, un altro Cardinale (Angelo Bagnasco, La Stampa,
08/12/2016) ha detto che è necessario «annunciare la verità di
Cristo, anche se può apparire divisiva».
Zuppi, al
contrario, mescola ogni cosa e non distingue lo zelo mal posto da quello ben
posto; non distingue tra irrisione e argomentazione o tra insulto e critica. Se
poi si volesse capire a chi Zuppi si riferisce con precisione, è lui stesso che
fuga il dubbio: «Non accettiamo mai delle logiche di divisione, che si nutrono
di malevolenza, [...] come appunto quello zelo mal posto [...] di
coloro che non sapevano più riconoscere la grandezza nella storia, che
guardavano al passato».
Per avere,
dunque, uno zelo ben posto bisogna essere progressisti, guardare al futuro e
avere uno sguardo non retrospettivo. Essere insomma accomodanti su tutto,
tranne con chi guarda al passato. Bisogna scendere al compromesso col mondo e
non dire mai nulla senza soppesarlo, perché si correrebbe il rischio di essere
«divisori». Bisogna cercare l’«armonia con tutti», come san Francesco d’Assisi,
che però cercava Dio e diceva la verità senza compromessi. Ovvero, bisogna fare
di tutta l’erba un fascio e giudicare maligna e malevola ogni parola che non
piace.
Quanto ai muri e
alle porte, sono sempre presenti, tanto a Babilonia, quanto a Gerusalemme.
Persino la Gerusalemme celeste (il Paradiso) ha mura e porte. Gerusalemme, in
particolare, «è cinta da un grande e alto muro» (Ap 21, 12). È vero che il
Paradiso non ha motivo di difendersi da nulla, ma le mura della Gerusalemme
celeste, oltre a dichiararne i confini, dichiarano anche che – alla parusia –
sarà deciso un dentro e un fuori, un’inclusione e una esclusione da essa.
Resteranno
quindi, ben visibili, i confini, le mura e le «dogane» della città di Dio:
dogane non «ideologiche», ma escatologiche, per la distinzione del vero dal
falso.
Vedi anche: Il
vento del compromesso col mondo soffia sulla Settimana sociale di Trieste.