Un lettore ci ha segnalato questo articolo di Aldo Maria Valli di quattro anni fa sulla modifica al Pater.
Un piccolo gioiello.
Luigi C.
Radio Roma Libera, 23-11-2020
Vorrei spiegare in due parole perché continuerò a recitare il Padre nostro dicendo “e non ci indurre in tentazione” e quindi non adotterò la nuova traduzione secondo la quale dovrei dire “e non abbandonarci alla tentazione”.
Dio può indurci in tentazione? Certo che può. Lo fa per il nostro bene. Indurci in tentazione significa metterci alla prova, e ogni buon educatore mette alla prova il discepolo, per vedere a che punto è nel cammino di formazione.
A causa del peccato originale, io sono continuamente tentato dal peccato. E Dio è liberissimo di indurmi in tentazione per verificare la mia fedeltà, per testare la mia fortezza, per consentirmi di misurare la mia disponibilità a spogliarmi di me stesso al fine di seguire e servire solo Lui.
La tentazione serve a valutare. È come un’interrogazione, come un compito in classe.
Il fedele che chiede al Padre “non mi indurre in tentazione” è come l’alunno che implora l’insegnante: “Per favore, non mi interroghi!”. Lo studente sa benissimo che l’insegnante, se è tale, dovrà interrogarlo, però, piccolo e debole com’è, ci prova lo stesso.
Esattamente come lo studente nei confronti dell’insegnante, anche noi fedeli sappiamo benissimo che, prima o poi, il Padre ci indurrà in tentazione, però, piccoli e deboli quali siamo, ci proviamo lo stesso: “Per favore, Padre, ti supplico; siccome non ho studiato e non sono pronto, non mi mettere alla prova, non mi interrogare”.
Ma allora, mi chiederete, perché, subito dopo, diciamo al Padre “ma liberaci dal Male”?
Lo diciamo – per restare al paragone scolastico – perché, sapendo di essere perennemente impreparati ed essendo ben coscienti della nostra ignoranza, ci rivolgiamo al Padre in questo modo: “Senti, invece di interrogarmi, di mettermi alla prova, per favore liberami del tutto dall’ignoranza in cui mi trovo”. Richiesta comprensibile, e anche legittima se e quando è motivata non da opportunismo ma da sincero desiderio di superare l’ignoranza. Richiesta, tuttavia, che per il nostro bene è impossibile da soddisfare. Perché, a causa del peccato originale, io sono completamente esposto al rischio del peccato e ho bisogno del decisivo aiuto del Padre per non esserne fagocitato.
Secondo me il “non ci indurre in tentazione” non solo non andava cambiato, ma è molto bello. Esprime tutta la nostra piccolezza, la nostra inadeguatezza. Ma esprime anche la confidenza con il Padre. Pur sapendo che non potrà accogliere la nostra richiesta (perché è chiaro che, se è veramente Padre, Egli ci indurrà in tentazione, e lo farà per il nostro bene, per la nostra crescita), noi gli chiediamo ugualmente di risparmiarci la prova e di liberarci dall’ignoranza, ovvero dal peccato. La richiesta non sta in piedi, perché il Padre, proprio in quanto tale, ha non solo il diritto ma il dovere di metterci alla prova, ma noi la formuliamo come fanno i piccoli alunni nei confronti del maestro. È una richiesta insieme assurda e tenera, con la quale diciamo quanto siamo piccoli e, nello stesso tempo, ci mettiamo del tutto nelle mani del Padre.
Se invece dico “non abbandonarmi alla tentazione” affermo due cose. Primo, che la tentazione, la prova, non ha alcun valore educativo ma è solo una cattiveria. Secondo, che il Padre può in effetti abbandonarmi, cioè togliersi di mezzo, sparire, lasciarmi solo di fronte al peccato. E, in questo modo, dico una cosa terribile, perché implicitamente accuso il Padre di potersi disinteressare di me.
Io preferisco di gran lunga un Padre che, per il mio bene, mi induce in tentazione piuttosto di uno che mi può abbandonare al peccato. Il primo è un educatore. Certamente severo, ma tutto dalla mia parte, tutto schierato con me nella lotta al peccato, uno che mi è sempre accanto. Il secondo, visto che mi può abbandonare, non è un vero educatore. Magari apparirà più simpatico, meno arcigno, ma non è veramente dalla mia parte.
I sostenitori della necessità della nuova traduzione dicono è stato fatto un grande passo avanti teologico, perché si è resa giustizia a Dio, il quale “può volere solo il nostro bene”. E aggiungono: “Prevale la visione di Dio misericordioso, Dio amore, quella che piace a papa Francesco”. Infatti “quando Gesù insegnò la sua preghiera agli apostoli non trasmise un’immagine arcigna di Dio, ma lo chiamò Padre”.
Mi sembra che qui siamo di fronte a un grande fraintendimento.
È proprio perché Dio è amore, e vuole il nostro bene, che può indurci in tentazione. Se non lo facesse, se non ci mettesse alla prova, non sarebbe veramente Padre e non dimostrerebbe autentico amore.
Il santo Curato d’Ars scrisse che “la tentazione è per noi molto necessaria, per poter conoscere chi siamo veramente”. È proprio così. È necessaria in quanto verifica, in quanto prova. “Niente è più necessario della tentazione – aggiungeva san Jean-Marie Vianney – per renderci convinti del nostro nulla e per impedirci di lasciarci dominare dall’orgoglio”.
Se gli chiedo di non abbandonarmi alla tentazione dimostro di non avere una grande considerazione del Padre. Come immaginare che possa abbandonarmi se Egli è Amore?
Ho l’impressione che l’abolizione del “non indurci in tentazione” nasca da quella mentalità sessantottina che all’epoca nelle università pretese di eliminare gli esami e di imporre il “diciotto politico”. Così come allora il presunto diritto dello studente alla promozione veniva fatto prevalere sul dovere, che il docente in quanto tale ha, di valutarne la preparazione, oggi il presunto diritto del credente di essere perdonato viene fatto prevalere sul dovere di Dio di metterne alla prova la fede. Non a caso, i paladini dell’abolizione del “non indurci in tentazione” appartengono allo stesso filone teologico che ha messo in soffitta il peccato. In primo piano non c’è più Dio, non c’è più il giudizio divino, ma c’è l’uomo, con la sua pretesa di essere comunque perdonato.
Ecco perché, con buona pace della Conferenza episcopale e del papa, continuerò a pregare come ci ha insegnato Gesù.