Vi proponiamo – in nostra traduzione – la lettera numero 1008 pubblicata da Paix Liturgique il 27 febbraio, in cui – prendendo spunto dalla recente nota Gestis verbisque sulla validità dei sacramenti – si riflette sugli «abusi liturgici» e sulle esasperate personalizzazioni quali inevitabili effetti della rivoluzione conciliare, più volte denunciati nei documenti pontifici degli ultimi sessant’anni e talvolta forieri di gravi conseguenze.
L.V.
C’è un recente documento del Dicastero per la Dottrina della fede che è passato praticamente inosservato: la nota Gestis verbisque sulla validità dei sacramenti del 2 febbraio 2024 [QUI; QUI su MiL: N.d.T.], che ci ricorda, giustamente, che mentre «la Chiesa è “ministra” dei Sacramenti, non ne è padrona». Ne abbiamo parlato nella nostra Lettre dei Veilleurs davanti all’Arcivescovado di Parigi [QUI; QUI su MiL: N.d.T.], ma vorremmo riprendere queste riflessioni per tutti i lettori della Lettre di Paix Liturgique.
La nuova liturgia è aperta a tutte le interpretazioni personali
Nella sua lettera ai Vescovi di tutto il mondo per presentare il motu proprio «Traditionis custodes» sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970 [QUI: N.d.T.], papa Francesco ha aperto una falsa finestra di simmetria, denunciando gli «abusi» che vede nella celebrazione della liturgia preconciliare e gli «abusi» delle «interpretazioni errate» della nuova liturgia:
Mi addolorano allo stesso modo gli abusi di una parte e dell’altra nella celebrazione della liturgia. Al pari di Benedetto XVI, anch’io stigmatizzo che «in molti luoghi non si celebri in modo fedele alle prescrizioni del nuovo Messale, ma esso addirittura venga inteso come un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, la quale porta spesso a deformazioni al limite del sopportabile» [Benedetto XVI, Epistula Episcopos Catholicae Ecclesiae Ritus Romani, 7 luglio 2007: AAS 99 (2007) 796].
In effetti, la lotta contro gli «abusi liturgici» è il pane quotidiano di Roma fin dall’introduzione della liturgia di San Paolo VI che, con le sue innumerevoli varianti e possibili scelte scritte nel testo stesso dei nuovi libri, apre la porta a ogni tipo di innovazione e interpretazione personale. Non siamo noi a dirlo, ma lo stesso papa Francesco nella lettera apostolica Desiderio desideravi sulla formazione liturgica del popolo di Dio (n. 54) [QUI: N.d.T.]:
Nel visitare le comunità cristiane ho spesso notato che il loro modo di vivere la celebrazione è condizionato – nel bene e, purtroppo, anche nel male – da come il loro parroco presiede l’assemblea. Potremmo dire che vi sono diversi «modelli» di presidenza. Ecco un possibile elenco di atteggiamenti che, pur essendo tra loro opposti, caratterizzano la presidenza in modo certamente inadeguato: rigidità austera o creatività esasperata; misticismo spiritualizzante o funzionalismo pratico; sbrigatività frettolosa o lentezza enfatizzata; sciatta trascuratezza o eccessiva ricercatezza; sovrabbondante affabilità o impassibilità ieratica. Pur nell’ampiezza di questa gamma, penso che l’inadeguatezza di questi modelli abbia una comune radice: un esasperato personalismo dello stile celebrativo che, a volte, esprime una mal celata mania di protagonismo. Spesso ciò acquista maggior evidenza quando le nostre celebrazioni vengono trasmesse in rete, cosa non sempre opportuna e sulla quale dovremmo riflettere. Intendiamoci, non sono questi gli atteggiamenti più diffusi, ma non di rado le assemblee subiscono questi «maltrattamenti».
Non c’è modo migliore per denunciare la fonte degli abusi: a differenza del celebrante tradizionale, che è il fedele esecutore di un testo e di gesti rigorosamente fissati come una lex, una legge di preghiera, il nuovo celebrante è intrinsecamente un interprete, una sorta di attore di un testo sciolto.
È importante notare che anche la dichiarazione Fiducia supplicans sul senso pastorale delle benedizioni del Dicastero per la Dottrina della fede [QUI: N.d.T.] introduce un’aberrazione liturgica. Essa afferma
la possibilità di benedizioni di coppie in situazioni irregolari e di coppie dello stesso sesso, la cui forma non deve trovare alcuna fissazione rituale da parte delle autorità ecclesiali
La benedizione rimane un atto sacro compiuto in nome della Chiesa, cioè un atto liturgico. Per benedire le coppie divorziate o dello stesso sesso, ai sacerdoti viene semplicemente concesso il diritto di inventare una propria liturgia, non fissata ritualmente. Molti sacerdoti lo stanno già facendo, organizzando cerimonie per celebrare il «risposalizio» dei divorziati, in un modo che, ovviamente, non è stabilito dal rituale.
E più comunemente, molti sacerdoti – o non sacerdoti, come tutti coloro che organizzano funerali senza sacerdote – inventano cerimonie non rituali a piacere. In realtà, sono gli stessi libri liturgici che ci invitano a lasciare il rito e ad aprire la porta all’invenzione. Un esempio: le parole di benvenuto in una cerimonia di confermazione possono variare a seconda dell’ispirazione: se è il Vescovo a salutare l’assemblea, «dirà, per esempio: Che Dio nostro Padre…», o altro; se è il moderatore, «dirà, per esempio…», o altro.
In una parola, la libertà è diventata la regola, che non è altro che l’abolizione dell’essenza dell’azione rituale. È facile capire perché, sotto San Paolo VI e San Giovanni Paolo II, la Congregazione dei Riti e la Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti abbia emanato una serie di istruzioni per difendere la «corretta applicazione» della nuova liturgia dagli innumerevoli «abusi»: Inter Oecumenici del 26 settembre 1964, Tres abhinc annos del 4 maggio 1967, Liturgicae instaurationes del 5 settembre 1970, Liturgiam authenticam del 28 marzo 2001 (che trattava delle traduzioni e correggeva Varietates legitimae del 25 gennaio 1994, troppo liberale), e infine Redemptionis sacramentum del 25 marzo 2004. Ammonizioni ripetute e ripetitive, fatte invano, e che non hanno mai dato luogo ad alcuna sanzione contro un sacerdote o un Vescovo.
L’istruzione Redemptionis sacramentum su alcune cose che si devono osservare ed evitare circa la Santissima Eucaristia [QUI: N.d.T.], pubblicata il 25 marzo 2004, un anno prima dell’assunzione del Pontificato da parte del card. Joseph Aloisius Ratzinger, è stata un vertice nella – perfettamente inutile – disamina degli «abusi». Questo testo sorprendente è un vero e proprio sillabo di abusi liturgici proibiti, ma senza sanzioni. L’elenco delle trasgressioni è istruttivo:
- le preghiere eucaristiche inventate (n. 51);
- preghiere eucaristiche proclamate anche da non sacerdoti (n. 52);
- le variazioni personali introdotte nei testi (n. 59);
- i laici predicano durante la Messa (n. 66);
- la Messa è mescolata con una cena ordinaria o un pasto festivo, su un tavolo da pranzo (n. 77);
- si introducono nella liturgia elementi presi in prestito dai riti di altre religioni (n. 79);
- i non cattolici o addirittura i non cristiani ricevono la comunione (n. 84);
- le ostie vengono passate di mano in mano per raggiungere il comunicante, o in una Messa nuziale, gli sposi si danno la comunione a vicenda (n. 94);
- la Messa si celebra con qualsiasi recipiente di uso quotidiano (n. 117).
Un’enumerazione edificante che non proviene da scrupolosi tradizionalisti ma dalla stessa Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti. L’istruzione Redemptionis sacramentum prevedeva addirittura che i reclami potessero essere presentati al Vescovo o alla Sede Apostolica, come ai bei tempi della Sapinière! Si può immaginare che i reclami si accumulassero sulla scrivania di un impiegato della Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti, e poi alla fine nella sua pattumiera…
Un «abuso» che porta a una possibile invalidità
Ma questi «abusi» – laici che recitano la preghiera eucaristica o che predicano, buddisti che fanno la comunione, vino che viene consacrato in bicchieri ordinari… – erano in qualche modo classici nella terra della nuova liturgia. Sotto papa Francesco, invece, perché Roma si muova, è necessario qualcosa di molto più grande. Finalmente si è resa conto che alcuni abusi stavano mettendo in discussione la validità dei sacramenti. Anche in questo caso, non sono i critici tradizionali a dirlo, ma il card. Víctor Manuel Fernández, Prefetto del Dicastero per la Dottrina della fede, nella presentazione della nota Gestis verbisque sulla validità dei sacramenti [QUI: N.d.T.]:
Ad esempio, invece di usare la formula stabilita per il Battesimo, si sono utilizzate formule come quelle che seguono: «Io ti battezzo nel nome del Creatore…» e «A nome del papà e della mamma… noi ti battezziamo». In una tale grave situazione si sono ritrovati anche dei sacerdoti. Questi ultimi, essendo stati battezzati con formule di questo tipo, hanno scoperto dolorosamente l’invalidità della loro ordinazione e dei sacramenti sino a quel momento celebrati.
Nessun commento.
Quale grado di assurdità deve esserci per poter dire che non stiamo celebrando il sacrificio della Messa? Potremmo elencare le Messe da circo celebrate sotto un tendone a Natale, con clown e giocolieri, o le Messe da festa celebrate appositamente per i matrimoni (vedi questa, per esempio: Un Cure Jovial [si tratta di don Bruno Maggioni, Parroco di Margno: N.d.T.] o le Messe a buffet nelle case di riposo, o ancora le Messe da concerto, come quella celebrata dall’abilissimo don Rainer Maria Schießler, Parroco di St. Maximilian a Monaco, il giorno 1 gennaio 2021: Hl.Messe vom 01.01.2021 / 10.30 Uhr in St.Maximilian, München mit Manuel Kuthan’s Glitzerbeisl).
Lo stesso don Rainer Maria Schießler, che è anche un attivista pro-LGBT, ha presieduto una Messa di carnevale alla vigilia dell’Epifania, il 5 gennaio, durante la Narrhalla [sfilata di carnevale: N.d.T.] celebrata a gennaio sulla Marienplatz di Monaco, una reinterpretazione delle mascherate medievali delle Fêtes des Fous, o Fêtes des Innocents, di cui una foto è stata presa dal bollettino dell’Arcidiocesi di Monaco e Frisinga e riprodotta da de.news (Die Karnevalssaison des Novus Ordo ist eröffnet), con l’altare e la chiesa decorati con motivi colorati e palloncini.
In Italia, per l’Epifania, mons. Derio Olivero, Vescovo di Pinerolo, ha presieduto una «Messa dei Popoli» in casula policroma, con un gruppo di ballerini in pigiama che si sono esibiti nella Cattedrale di San Donato. Il Vescovo ha ammesso che alcuni fedeli devono essersi scandalizzati. «Siamo diversi», ha detto, «nel nostro modo di pensare i riti e l’Eucaristia». Lo stesso Vescovo, decisamente inventivo, ha presieduto anche un’altra «Messa dei Popoli» per l’Epifania del 2020, con la presenza di protestanti, ortodossi e non credenti. E ha sostituito il Credo con un minuto di silenzio, durante il quale ognuno era libero di dire a Dio, o all’Essere Supremo, o a nessuno, quello che si sentiva di credere.
Tutto era possibile. Nello Zambia, lo stesso card. Annibale Bugnini C.M., già Segretario della Congregazione per il Culto divino, disse che la mescita dell’acqua e del vino era stata eliminata, con il pretesto che non aveva alcuna base biblica (La riforma liturgica, Roma, 1983, capitolo 38). Proverbi 9,5 nella Vulgata, tuttavia, parla di «vinum, quod miscui vobis» [la CEI traduce erroneamente: «il vino che io ho preparato»: N.d.T.].
Ci sono altri problemi. La nota Gestis verbisque sulla validità dei sacramenti si preoccupa della possibile invalidità di alcuni sacramenti a causa dell’invenzione degli attori. Ma le libertà prese con la forma e il contenuto dei sacramenti sono state talvolta debitamente autorizzate. Ad esempio, secondo un articolo apparso su La Croix il 9 agosto 1989, Célébrer en terre africaine [Celebrare in terra africana: N.d.T.], che all’epoca fece molto scalpore, fu concessa l’autorizzazione ad experimentum a una regione dello Zaire di utilizzare per l’Eucaristia pane fatto con farina di manioca e vino di mais.
Molto inquietante è il permesso concesso dalla lettera della Congregazione per la Dottrina della fede a tutti i Presidenti delle Conferenze Episcopali sull’uso del pane con poca quantità di glutine e del mosto come materia eucaristica (19 giugno 1995) [QUI: N.d.T.], ripresa dalla lettera circolare ai Presidenti delle Conferenze Episcopali circa l’uso del pane con poca quantità di glutine e del mosto come materia eucaristica (24 luglio 2003) [QUI: N.d.T.]. La Congregazione per la Dottrina della fede ha preso in considerazione il caso di sacerdoti che non possono più mangiare pane (a causa di una malattia dell’apparato digerente) o vino (ad esempio, coloro che si sono disintossicati). In questi casi, ha detto la Congregazione per la Dottrina della fede, si potrebbero preparare ostie speciali con meno glutine, ma in quantità sufficiente per la panificazione, che non pone alcuna difficoltà, e anche, cosa infinitamente più problematica, si potrebbe usare il mosto, cioè il succo d’uva, al posto del vino. È vero che, date le estreme difficoltà incontrate in certi tempi e in certe regioni per ottenere il vino o per conservarlo, il Sant’Uffizio permetteva di ottenere il vino immergendo l’uva sultanina nell’acqua e lasciandola fermentare. Oggi, invece, il succo d’uva in commercio è stato pastorizzato per evitare la fermentazione. È con il succo d’uva puro che alcuni sacerdoti celebrano oggi la Messa.
Un nuovo rito intrinsecamente fragile
A prescindere da eventuali «abusi» evidenti, bisogna riconoscere che la nuova liturgia, e in particolare la Messa riformata, è intrinsecamente fragile, proprio perché comporta una grande interpretazione da parte dei celebranti. Padre Hervé Mercury sottolinea questo punto nel suo libro La Liturgie sacrificielle. Du rite rénové par Jean XXIII au Novus Ordo Missae de Paul VI (con prefazione del card. Robert Sarah), in attesa di pubblicazione da diversi anni. In esso, egli mostra la mancanza di significato sacrificale nella nuova Messa, come si manifesta nella presentazione dei doni, che ha sostituito il tradizionale offertorio sacrificale. Da qui la necessità di una «presenza» molto forte da parte del celebrante, caratteristica della Messa di oggi: nel nuovo rito, il celebrante deve manifestare a se stesso e agli altri un’intenzione più esplicita (nel senso tecnico di volontà del ministro di fare, compiendo il rito, ciò che la Chiesa fa e vuole).
In altre parole, per evitare che la celebrazione tenda a un mero memoriale, il celebrante del nuovo rito, manifestando la sua fede e la sua pietà, compensa in qualche modo la mancanza di espressione nell’offerta, che il vecchio rito dice molto chiaramente essere presentata per il perdono «pro innumerabílibus peccátis, et offensiónibus, et negligéntiis meis» [per i miei peccati, per le offese e le innumerevoli negligenze: N.d.T.], e «pro ómnibus fidélibus christiánis vivis atque defúnctis» [per tutti i fedeli vivi e defunti: N.d.T.] (preghiera Súscipe, sancte Pater). Ma il celebrante del nuovo rito può fare il contrario e interpretarla come una semplice azione festiva.
Mentre nella liturgia tradizionale i riti di per sé altamente significativi sono la salvaguardia dei sacramenti, la nuova liturgia, come i testi del Concilio Vaticano II, ha bisogno di essere interpretata, per non dire rettificata, perché soffre quantomeno di incompletezza.
Ci vorrebbe un concilio veramente Cattolico, fatto, vissuto e interpretato secondo la tradizione, dai soli vescovi Cattolici, senza interferenze esterne, senza uditori, curiosi e altro. Le cui conclusioni siano per il vero bene della Chiesa Cattolica e scevre da ogni personalismo e deviate fantasie.
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