Riprendiamo tutti l'uso di Settuagesima, ieri 28 gennaio per il calendario liturgico tradizionale.
Luigi C.
Luisella Scrosati, La Nuova Bussola Quotidiana, 28-1-24
La terza domenica antecedente il Mercoledì delle Ceneri cade, da oltre un millennio, la Domenica di Settuagesima, abolita con la riforma liturgica, ma conservata nel Rito antico. Essa segna l’inizio di un tempo di preparazione alla Quaresima, frutto di una fine pedagogia della Chiesa.
Una piccola digressione al percorso sulle gravi crisi nella storia della Chiesa pare opportuna, dal momento che la terza domenica antecedente il Mercoledì delle Ceneri è da oltre un millennio la Domenica di Settuagesima. Fino a quando qualche “esperto” di liturgia ha avuto la brillante idea di farla sparire dal calendario liturgico riformato, secondo l’astruso principio che «non si poteva restaurare mettendo in tutto il suo rilievo la quaresima senza sacrificare la settuagesima, che ne è un’estensione» (A. Bugnini, La riforma liturgica, Roma, 1997, p. 206). Davvero incomprensibile questa motivazione.
La Settuagesima che, come vedremo tra poco, si è andata creando proprio come preparazione alla Quaresima, ricalcando la scansione liturgica del Rito bizantino, è stata abolita per “mettere in risalto” la Quaresima. Lo stesso Paolo VI ne aveva compreso il senso, paragonando la graduazione del tempo liturgico in preparazione alla Pasqua (Settuagesima, Quaresima, Passione ‒ anche questa abolita ‒, Settimana Santa, Triduo) al progressivo suono delle campane che chiamano alla Messa domenicale: un’ora prima, poi mezz’ora, quindici minuti, cinque minuti. Si tratta, non è difficile comprenderlo, di una fine pedagogia che la Chiesa ha messo a punto proprio per preparare spiritualmente e psicologicamente i fedeli alla più importante solennità dell’anno liturgico. Eppure ‒ mistero ‒ lo stesso Paolo VI permise che venisse tolta.
L’esistenza di domeniche in preparazione alla Quaresima, sorta probabilmente in ambito monastico, era una realtà a Roma almeno già dall’epoca del pontificato di san Gregorio Magno (590-604), il quale infatti ne fa cenno nelle sue omelie. E da Roma, durante il periodo carolingio, si diffuse nell’Europa occidentale, divenendo una vera e propria prescrizione nel IX secolo. Da allora, per oltre un millennio, la Chiesa latina ha mantenuto questo tempo liturgico, con la disciplina annessa e le osservanze liturgiche proprie. Fino alla riforma liturgica post-Vaticano II.
Dicevamo del Rito bizantino. C’è un’interessante corrispondenza tra il tempo liturgico di preparazione alla Pasqua del Rito romano, così come poi si è definitivamente consolidato, e il Triodion bizantino, eccezion fatta per la Domenica del Pubblicano e del Fariseo, che precede il periodo liturgico della conversione. Il Rito bizantino prevede che la terza domenica antecedente la Santa Quaresima sia tutta concentrata sul doppio tema della misericordia di Dio e dell’esilio. È la Domenica del Figliol Prodigo, caratterizzata appunto dal canto di questa pericope evangelica, nella quale si parla di un esilio del figlio più giovane, lontano dalla casa paterna. Ed è per questo che, in questa domenica, o meglio, alla vigilia, come Polyeleos, viene cantato il Salmo 137 (136), che è appunto il lamento degli israeliti esuli a Babilonia: «Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion». La Domenica di Settuagesima romana viene chiamata anche Domenica di Adamo, perché a Mattutino viene letto il brano del terzo capitolo del libro della Genesi, che descrive la caduta dei nostri progenitori, o anche Domenica Circumdederunt, dalla prima parola dell’Introito (qui in canto gregoriano), tratto dal Salmo 18 (17), che esprime il gemito di chi si ritrova oppresso dalla morte e dagli inferi, proprio come Adamo dopo il peccato. È dunque una domenica segnata dal lamento per l’esilio dalla vera vita, provocato dal peccato; ma anche dalla speranza del perdono di Dio, Padre che accoglie il figlio esule, Dio che dal suo tempio santo ha ascoltato il grido d’angoscia (cf. Sal 18, 7).
L’analogia continua per la seconda domenica precedente l’inizio della Quaresima. Il rito bizantino prevede la Domenica del Giudizio finale o del Carnevale. Il primo titolo si spiega con la lettura del capitolo 25 del Vangelo di San Matteo, che richiama appunto il Giudizio; mentre il secondo non fa riferimento agli omonimi festeggiamenti, quanto invece al significato etimologico di “carnevale”, carne-levamen, ossia cessazione dell’uso della carne; questa domenica, infatti, è l’ultima nella quale è lecito consumare carne. Per la Chiesa latina si ha invece la Domenica di Sessagesima, chiamata anche Domenica di Noè o Domenica Exsurge. Al Mattutino viene infatti letto il brano che si riferisce al tremendo castigo del Diluvio universale, dal quale riuscirono a scampare solo Noè e la sua famiglia. Si comprende dunque come, per l’Introito (qui in gregoriano), sia stata scelta l’accorata invocazione del Salmo 44 (43), 24.26-27: «Svegliati, perché dormi, Signore? (…) Sorgi, vieni in nostro aiuto». Le parole evocano quelle con cui l’apostolo Pietro svegliò il Signore Gesù che dormiva a poppa, mentre la barca stava per essere sommersa dalla tempesta (cf. Mc 4, 38), ma che, come l’Arca di Noè, non affondò.
Abbiamo infine la Domenica di Quinquagesima, detta anche Domenica di Abramo o Esto mihi. Al Mattutino viene presentato il brano della vocazione di Abramo, che deve lasciare la sua terra, segnata dall’oscurità del paganesimo, per mettersi sotto la protezione dell’unico vero Dio. Per questo l’Introito (qui) canta le parole del Salmo 31 (30), 3-4: «Sii per me la rupe che mi accoglie (…) per il tuo nome dirigi i miei passi». I bizantini hanno invece la Domenica dei Latticini, perché è l’ultimo giorno in cui è possibile mangiare latticini e uova, o del Perdono, per la lettura del capitolo sesto del Vangelo di San Matteo, appunto sul perdono da offrire.
Si comprende pertanto come, sia nell’Oriente che nell’Occidente cristiani, si sia imposto un tempo liturgico in preparazione alla Quaresima, contraddistinto dal particolare profumo del pianto dell’esule consapevole che «finché abitiamo nel corpo siamo in esilio, lontano dal Signore» (2Cor 5, 6). Un esilio pieno di sofferenze, di insidie, di stenti, tutti provocati dai nostri peccati, ma non per questo privo di speranza e consolazione. Queste domeniche scuotono il cristiano e lo richiamano al fatto che questo mondo in cui viviamo non è la nostra patria né la dimora nella quale soggiornare allegramente, avendo come sola preoccupazione il benessere. Gli orientali, togliendo prima le carni e poi i derivati animali, richiamano la condizione originale dell’uomo nel Paradiso terrestre, dove egli si cibava di ogni erba e di ogni frutto (cf. Gen 1, 29), che il suo Dio gli elargiva con abbondanza. L’uomo, cacciato dall’Eden, si rivolge tuttavia verso di esso, piangendo sulla propria miseria e sospirando su quanto ha perduto, fiducioso però che Dio non l’ha abbandonato a sé stesso. La Chiesa latina, che pure seguiva un’astinenza analoga, andata via via perduta, fino a ridursi a quasi nulla, toglieva già da Settuagesima dalla liturgia l’Alleluia e il Gloria in excelsis e imponeva i paramenti viola.
Il Rito romano antico ha chiaramente mantenuto queste domeniche, così come le hanno mantenute i cristiani di Rito bizantino, di Rito armeno, e persistono persino nel calendario liturgico luterano. Perché dunque è stato tolto? Perché la gran parte dei cattolici latini sono stati privati di questi tesori liturgici? Forse è proprio questa santa estraneità da questo mondo, come se non ne usassimo appieno (cf. 1Cor 7, 31), questo desiderio ardente della Patria celeste, che ci fa piangere l’esilio, a non essere stati più compresi come un bene da custodire e trasmettere. Ma nessuno ci vieta di vivere queste tre settimane che ci separano dall’inizio della Quaresima con questo spirito, magari abbeverandoci alle sorgenti della liturgia romana antica.