QUI mons. Hector Aguer, via Aldo Maria Valli, sulla decisione tirannica nei confronti del card. Burke.
QUI Sandro Magister: "Peggio di un papa re. Uno storico e una canonista analizzano il malgoverno di Francesco".
Luigi C.
La Nuova Bussola Quotidiana, 5 e 6 dicembre 2023, Geraldina Boni
PRIMA PARTE
Diversi fatti più o meno recenti hanno contribuito a rendere più acuta la domanda relativa ai perimetri del potere del Sommo Pontefice. Tradizionalmente si parla di plenitudo potestatis, un’espressione che però, forse complici le ideologie del Novecento e contemporanee, viene sempre più intesa, persino dallo stesso titolare, come potere assoluto e arbitrario. Abbiamo perciò chiesto alla Professoressa Geraldina Boni, Professore Ordinario di Diritto Canonico, di Diritto Ecclesiastico e di Storia del Diritto Canonico presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università Alma Mater Studiorum di Bologna, di orientarci in questo tema tanto delicato e urgente. La Prof.ssa Boni è altresì Presidente della Commissione interministeriale per le intese con le confessioni religiose e la libertà religiosa e Consultore del Dicastero per i Testi Legislativi.
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«Il Papa non sta, da solo, al di sopra della Chiesa; ma dentro di essa come Battezzato tra i Battezzati e dentro il Collegio episcopale come Vescovo tra i Vescovi, chiamato al contempo – come Successore dell’apostolo Pietro – a guidare la Chiesa di Roma che presiede nell’amore tutte le Chiese». Questa frase, pronunciata da Papa Francesco il 17 ottobre 2015, si inscrive del tutto armonicamente nell’evoluzione secolare della progressiva penetrazione della sostanza del munus affidato da Cristo a Pietro e ai suoi successori da parte del magistero cattolico nonché della scienza teologica e canonistica. Una graduale comprensione dell’ufficio petrino che è stata cadenzata e influenzata altresì dalle diverse contingenze storiche sperimentate dalla Chiesa (cfr. il mio ultimo libro Il diritto nella storia della Chiesa. Lezioni, Morcelliana, 2023).
Così, il ruolo particolarmente incisivo e propulsivo dispiegato dal papato a partire dagli esordi del secondo millennio e che condusse a un deciso accentramento e ad una rigida verticalizzazione nel reggimento dell’intera Chiesa va traguardato nel contesto – oltre che della mentalità medievale – del “gigantesco duello” ingaggiato dalla Chiesa per sgravarsi dalla sudditanza nei confronti dell’Impero e recuperare la sua libertas. E tuttavia anche l’elaborazione immediatamente successiva ‒ nell’epoca classica del diritto canonico – della plenitudo potestatis papale, pur accentuando sensibilmente il contenuto giurisdizionale del primato e incrementandone notevolmente le prerogative, non ha mai nutrito dubbi nel proclamare con fermezza la non arbitrarietà del potere papale. Enunciando, ad esempio, il doveroso ossequio, da parte del successore di Pietro, dello status generalis Ecclesiæ, nonché insistendo sulla utilitas o ædificatio Ecclesiæ come ragioni giustificatrici dell’istituzionalizzazione del primato, declinate poi segnatamente nella difesa dell’unità e della fede.
Così, la libertà e l’emancipazione del Papa dalle leggi viene perimetrata e specificata, da un lato, nella sola superiorità al diritto positivo e, dall’altro, nell’indispensabile razionalità di un’eventuale dispensa da lui concessa: senza che mai si possano compromettere i fondamenti dell’ordine e della disciplina ecclesiastica solidamente ancorati allo ius divinum. D’altronde, è viva la persuasione che la delimitazione della funzione petrina non indebolisca in alcun modo l’autorevolezza del Vicario di Cristo, ma la rinsaldi e la potenzi, radicandola nella genuina traditio ecclesiale e, specialmente, nell’autentico mandato superiormente ricevuto.
Senza potersi ora soffermare sulle tappe della secolare maturazione in ordine al munus petrinum, va rimarcato ancora, solo incidentalmente, come al Concilio Vaticano I, che definì la «dottrina relativa all’istituzione, alla perennità e alla natura del sacro primato apostolico» (Pio IX, Costituzione dogmatica Pastor æternus), ricorrenti e ripetuti siano i riferimenti al diritto divino come fonte e criterio ispiratore del primato, fissando e imponendo ad esso un vincolo costitutivo. La Costituzione Pastor æternus precisa, in particolare, che «questo potere del Sommo Pontefice non reca assolutamente pregiudizio al potere di giurisdizione episcopale ordinaria e immediata dei singoli vescovi», palesando inoltre una chiara coscienza dell’intrinseca funzione aggregante ed essenzialmente servente del ministero petrino, e così allontanandosi da quel prototipo dispotico e autocratico contestato dagli avversari.
Il Vaticano II, finalmente emancipato da preoccupazioni difensive e apologetiche (specie nei confronti delle ingerenze secolari), ha poi integrato e perfezionato quel quadro secondo il quale il romano Pontefice non è padrone, ma amministratore e custode dei beni salvifici e della societas Ecclesiæ, tra l’altro evidenziando l’impronta diaconale di tutto il ministero ecclesiastico, non escluso quello papale, volto al bonum commune, nonché aggiungendo la forte sollecitazione alla salvaguardia dei diritti dei fedeli.
In seguito le Considerazioni della Congregazione per la Dottrina della Fede sul primato del successore di Pietro nel mistero della Chiesa (1998) correlano ancora una volta la determinazione dell’estensione del ministero petrino alla necessitas Ecclesiæ, esplicitando di nuovo con nettezza la non arbitrarietà dell’esercizio del comando e delineando una responsabilità del Papa volta inderogabilmente all’edificazione della Chiesa e garantita dal servizio dell’unità, col mantenere e promuovere la comunione con gli altri vescovi e con l’intero popolo di Dio. La valutazione della necessitas Ecclesiæ, menzionata altresì nel can. 333 § 2 del Codex Iuris Canonici vigente, seppure rimessa al discernimento insindacabile del Papa, non per questo si può tradurre nel suo ipotetico dittatoriale capriccio: al contrario il principio della necessitas Ecclesiæ è propriamente e squisitamente giuridico, essendo il successore di Pietro ad esso irrefragabilmente tenuto proprio in virtù dell’incarico assolto.
Sia pur da tali scarni cenni, emerge come nella Chiesa sia costante nei secoli, e divenuta quindi granitica, la consapevolezza che la potestà del successore di Pietro è certamente suprema, ma non affatto assoluta. Non vengono distillati espressamente divieti o proibizioni tassative, ma si tracciano, senza esitazioni, impegni e condizioni che inseriscono appieno l’ufficio petrino nella struttura costituzionale della Chiesa: i limiti sono cioè insiti e connaturati all’in sé del ministero petrino, lo configurano, lo alimentano e lo fortificano più che ridurne o addirittura eroderne il carattere supremo.
Anche il ricoprire l’ufficio di Papa, dunque, non può essere attributivo di uno status personale di superiorità o di dominio – «battezzato tra i battezzati», ha asserito Francesco, evocando l’uguaglianza radicale e fondamentale di tutti i christifideles, e arrivando a dichiarare che «in questa Chiesa, come in una piramide capovolta, il vertice si trova al di sotto della base» –, ma conferisce un compito di cura e servizio, riflettendo la matrice cristologica (Mt 20,28; Lc 22,27) e comunionale del potere, secondo la bellissima definizione di Gregorio Magno secondo cui il vescovo di Roma è servus servorum Dei.
SECONDA PARTE
Si è riscontrato come i limiti del potere del Papa siano frutto e conseguenza dell’obœdientia fidei che non può non accompagnare il cammino del successore di Pietro nella fedeltà alle orme di Cristo. Rigettandosi dunque coralmente nella Chiesa una potestas absolute illimitata [autorità o potere assolutamente illimitato], si usa solitamente sottolineare che la potestà del Romano Pontefice è “recintata” dal diritto divino, sia quello naturale sia quello rivelato. Per non rendere tale asserzione una formula astratta, una mera dichiarazione teorica priva di portata effettiva concreta, occorre riempirla di contenuti, come invero la dottrina teologica e canonistica ha mirato a fare, giungendo ad alcune acquisizioni largamente condivise e oramai consolidate, pur nella varietà di accenti e sempre ricordando l’irriducibilità delle categorie canonistiche ai modelli politici secolari.
Anzitutto, l’affermazione che il Papa è legibus solutus [sciolto dalle leggi] si può intendere esclusivamente nel senso che egli è al di sopra del solo diritto positivo – al quale resta comunque ordinariamente soggetto, sebbene, quale suprema autorità, possa ragionevolmente modificarlo –, restando peraltro completamente sottoposto e docilmente obbediente alla legge divina. In una sintetica illustrazione di cosa questo comporti, con un’attenzione prevalente ai profili giuridici, va preliminarmente ribadito che la sua competenza giurisdizionale non deve esorbitare invadendo la legittima autonomia della sfera temporale, come anche il Vaticano II ha ammonito (Gaudium et spes, 36), estrinsecandosi unicamente nelle materie di spettanza della Chiesa in ordine al perseguimento del suo fine soprannaturale, la salus animarum, compresi gli aspetti relativi alla sua organizzazione a tale missione orientati.
Il ministero del Papa si pone poi preminentemente come servitore nella trasmissione della fede cattolica e dei sacramenti, costituendo la preservazione del depositum fidei l’esigenza prioritaria e ineludibile del suo ministero. «Il Romano Pontefice è – come tutti i fedeli – sottomesso alla Parola di Dio», attestano seccamente le Considerazioni della Congregazione per la Dottrina, già richiamate: ove il vocabolo “sottomesso” veicola, per lui, un titolo di onore e un compito da svolgere, non certo una deminutio capitis.
La potestà del Romano Pontefice deve realizzarsi così nel totale rispetto dell’episcopato, anch’esso di origine divina (Lumen gentium, 22), sia per quanto ai pastori spetta nei riguardi della Chiesa particolare loro affidata non come meri vicari o delegati del Papa, sia per quanto attiene alle pur differenti adunanze episcopali, innervate nel dipanarsi dell’esperienza ecclesiale. Anche i diritti dei fedeli, scaturenti dalla dignità battesimale e che li convocano a cooperare all’edificazione del Corpo di Cristo, sono un argine invalicabile per la potestà, la quale si deve per converso adoperare affinché essi raggiungano la pienezza della vita cristiana: diritti, peraltro, pur mai da considerare quali istanze rivendicative in contrapposizione e antitesi all’autorità gerarchica, essendo tutti cospiranti al bonum commune.
Del pari le esigenze promananti dal diritto divino naturale non possono essere compresse o mortificate, esplicandosi tra l’altro nei confronti di tutti gli uomini. È così inammissibile un esercizio potestativo, anche del detentore della potestas suprema, che calpesti e conculchi i diritti correlati alla dignità della persona umana: ad esempio, il diritto alla vita, all’intimità e alla riservatezza o alla buona fama, ma anche – per riferirci a un ambito delicato, oggi sotto i riflettori nella Chiesa – il diritto di difesa in un giusto processo, la presunzione di innocenza, la tutela di preesistenti diritti acquisiti, non escluso quello di non essere punito per un delitto prescritto.
C’è tuttavia un altro ordine di limitazioni che sovente vengono trascurate, se non addirittura fraintese, e che spetta eminentemente ai giuristi porre in rilievo: quelle collegate al retto esercizio della potestà. In questi ultimi anni, me ne sono ampiamente occupata, con riferimento in particolare alla recente attività normativa: mettendo in luce la cruciale importanza del rispetto, anche da parte del legislatore supremo, della legalità in legiferando, vale a dire l’ottemperanza delle modalità e delle procedure nomopoietiche contemplate, così da assicurare il necessario ordine, chiarezza e coerenza del sistema giuridico.
Sarebbe quindi da biasimare un sovrapporsi frenetico, alluvionale e caotico di leggi, ovvero di precetti scanditi senza un’appropriata tecnica normativa, e di previsioni di cui nebulosi appaiano il rango e la portata giuridica e il cui puntuale tenore non sia desumibile da una rituale promulgazione secondo i canali prefissati; ugualmente lo sarebbero delibere di governo non secundum iuris normas [non secondo le norme del diritto] ed esoneri da ogni responsabilità degli atti di soggetti rivestiti di autorità, sia pur sospettati di illegittimità; inoltre dovrebbero criticarsi non eccezionali ma usuali, addirittura legislativamente pianificate, approvazioni in forma specifica da parte del titolare del potere supremo, con l’effetto di rendere in alcun modo impugnabili provvedimenti virtualmente lesivi di diritti. Tutto ciò va censurato da parte della canonistica, non per un accademico e puntiglioso gusto di geometrie astratte, ovvero per un ossequio quasi manieristico o addirittura giuspositivista della legalità e della certezza del diritto. Per contro, al di là dei pericoli per il patrimonio stesso della fede (inevitabilmente sotteso ad ogni prescrizione normativa), sarebbe soprattutto la carne viva delle persone – fedeli ma anche cittadini per gli innumeri e inscindibili legami tra ordine spirituale e ordine temporale – ad essere afflitta e lacerata laddove le norme risultino irragionevoli, cioè non adeguate alla realtà storica disciplinata, mettendo così gravemente a repentaglio quella giustizia che per diritto divino ad essi è dovuta e al cui servizio è posta l’autorità ecclesiastica, anche quella primaziale.
Pertanto, tali restrizioni, alle quali tutti i titolari di potere nella Chiesa devono adeguarsi, non sono di carattere meramente formale o funzionale, ma indirizzano e plasmano intimamente il bonum agere, dunque la sostanza e il contenuto del governo, che altrimenti, se deviato, rischia di intaccare proprio quei diritti, cui abbiamo appena accennato, direttamente riconducibili al piano divino, vulnerando appunto la iustitia corrispondente al disegno divino, per la quale tutti i soggetti ecclesiali si devono spendere. Si tratta di capisaldi innestati nella costituzione stessa della Chiesa, del tutto alieni, quindi, dalla logica volontarista della legalità, inammissibile e deviante nell’ordinamento canonico, nel quale, infatti, non auctoritas sed veritas facit legem [non l’autorità, ma la verità fa la legge].
Con queste ultime annotazioni affiora ancora una volta come, del tutto in linea con la sapienza classica, sia preferibile e più congruo non enumerare negativamente restrizioni al potere supremo del Papa in un’ottica di contrapposizioni o di conflittualità: ma occorra piuttosto indicare e insistere positivamente e costruttivamente su connotati, qualità e requisiti del buon governo della società ecclesiale, senza peraltro che la loro cogenza sia, per questo, meno stringente e obbligante anche per chi è investito del supremo potere. Il quale, quindi, seppur non soggetto ad alcun controllo o supervisione, appello o ricorso, da parte di qualsiasi istanza umana, non per questo deve reputarsi supra ius divinum [al di sopra del diritto divino] e sciolto dal dovere di operare costantemente «intuitu utilitatis Ecclesiae vel fidelium ‒ in vista dell'utilità della Chiesa o dei fedeli» (Lumen gentium, 27a), sempre in ædificationem et non in destructionem [per edificare, non per distruggere] (come si rilevò al Vaticano I, richiamando 2 Cor 10,8), essendo «proprio di Pietro sorreggere e conservare unita e ferma in indissolubile compagine la Chiesa» (Leone XIII, Enciclica Satis cognitum, 1896), in quanto «perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli» (Lumen gentium, 23).
* Professore Ordinario di Diritto Canonico, di Diritto Ecclesiastico e di Storia del Diritto Canonico presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università Alma Mater Studiorum di Bologna.