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giovedì 5 ottobre 2023

La libertà d’impresa come pretesto per minare la libertà religiosa

Il rapporto tra la libertà religiosa e la libertà d’impresa è un tema molto dibattuto, soprattutto nella giurisprudenza delle Corti sovranazionali (in particolare Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e Corte di Giustizia dell’Unione Europea), la cui attualità e importanza non è sempre pienamente avvertita.

Possibile conflitto tra due libertà che, nella casistica conosciuta dalle corti, origina, in larga parte, del divieto imposto ai lavoratori in forza di cosiddette “politiche di neutralità” aziendale di manifestare verbalmente l’adesione ad una religione o una ideologia ovvero di esibire simboli e indumenti che ne connotano l’appartenenza (non a caso, un buon numero di controversie scaturisce dal rifiuto di donne mussulmane di togliersi il velo), così imponendosi di confinare esclusivamente al foro interiore la dimensione religiosa, escludendola dalla quotidiana relazionalità interpersonale e, quindi, dal confronto pubblico.

Sebbene l’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea riconosca che «ogni persona ha diritto alla libertà (…) di religione» e «che tale diritto include (…) la libertà di manifestare la propria religione o convinzione individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti», un registro argomentativo oramai consolidato, in particolare nella giurisprudenza della CGUE chiamata a valutare il bilanciamento delle libertà in esame ai fini dell’interpretazione della direttiva 2000/78/CE (che regola la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro), ha sistematicamente riconosciuto il privilegio del datore di lavoro in forza della libertà d’impresa (anch’essa riconosciuta dall’art. 16 della Carta) a trasmettere (ed imporre) una – non meglio definita – «immagine di neutralità», rispetto alla libera manifestazione religiosa o di convinzioni personali da parte del lavoratore.

In diverse decisioni (qui, qui, qui) è stata infatti ritenuta ammissibile una disposizione di un regolamento di lavoro di un’impresa che vieti ai dipendenti di manifestare verbalmente, con l’abbigliamento o in qualsiasi altro modo, le loro convinzioni religiose o filosofiche, di qualsiasi tipo, in quanto ciò non costituirebbe una discriminazione diretta «basata sulla religione o sulle convinzioni personali», a condizione che tale disposizione sia applicata in maniera generale e indiscriminata (per alcune riflessioni sul tema qui).

Si tratta di un orientamento che, invocando un sedicente modello di “neutralità”, mira ad assecondare il processo culturale di conformazione dell’agire e del pensiero di ciascuno individuo (e, di riflesso, della collettività) nella direzione di una laicità atea che, come ebbe modo di denunciare Sua Santità Benedetto XVI nel “Discorso ai partecipanti al convegno nazionale promosso dall’unione giuristi cattolici italiani” (del 9 dicembre 2006), promuove una concezione di laicità «intesa come esclusione della religione dai vari ambiti della società e come suo confino nell’ambito della coscienza individuale», fondata su una «visione a-religiosa della vita, del pensiero e della morale: una visione, cioè, in cui non c'è posto per Dio, per un Mistero che trascenda la pura ragione, per una legge morale di valore assoluto, vigente in ogni tempo e in ogni situazione». Il Sommo Pontefice ci ricordava che se «non può essere (…) la Chiesa a indicare quale ordinamento politico e sociale sia da preferirsi», d’altro canto «non è certo espressione di laicità, ma sua degenerazione in laicismo, l'ostilità a ogni forma di rilevanza politica e culturale della religione; alla presenza, in particolare, di ogni simbolo religioso nelle istituzioni pubbliche. Come pure non è segno di sana laicità il rifiuto alla comunità cristiana, e a coloro che legittimamente la rappresentano, del diritto di pronunziarsi sui problemi morali che oggi interpellano la coscienza di tutti gli esseri umani, in particolare dei legislatori e dei giuristi. Non si tratta, infatti, di indebita ingerenza della Chiesa nell'attività legislativa, propria ed esclusiva dello Stato, ma dell'affermazione e della difesa dei grandi valori che danno senso alla vita della persona e ne salvaguardano la dignità. Questi valori, prima di essere cristiani, sono umani, tali perciò da non lasciare indifferente e silenziosa la Chiesa, la quale ha il dovere di proclamare con fermezza la verità sull'uomo e sul suo destino».

Il tentativo di escludere Dio (e, più in generale, le forme di manifestazione religiosa o di convinzioni personali) dalla dimensione lavorativa (ma anche da ogni ambito della vita) in favore di una pretesa e prevalente “neutralità” delle relazioni sociali, indirizza l’uomo verso un senso dell’esistere che esclusivamente guarda all’autorealizzazione e all’autopossessione. Ma, secondo l’insegnamento di Nicolás Gómez Dávila (in “In Margine ad un testo implicito”), «se l’unico fine dell’uomo è l’uomo, deriva da questo principio una vana reciprocità, come il mutuo riflettersi di due specchi vuoti».


Filippo
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