Acuta analisi di Sandro Magister sul Papa dittatore e duce.
"Dando potere al “popolo di Dio”, cioè estendendo la partecipazione ai Sinodi, con diritto di voto, anche ai semplici battezzati, Francesco ha certamente compiuto un’innovazìone di grande portata. Ma ancora una volta in piena contraddizione. Perché non è stato un Sinodo a decidere il cambiamento, come il nuovo corso “popolare” vorrebbe, ma lui tutto da solo, il papa".
Luigi
Settimo Cielo, 26-9-23
Sta accadendo molto di contraddittorio, nella Chiesa cattolica. Da un lato si celebra un Sinodo sulla sinodalità, che estende la partecipazione al governo della Chiesa ben al di là del papa e dei vescovi, anche a sacerdoti, religiosi e laici, uomini e donne. Ma dall’altro lato si assiste a un esercizio dei poteri papali, da parte di Francesco, autoritario e monocratico come non mai.
Con una estemporanea novità in più, enunciata l’11 settembre dal nuovo prefetto del dicastero per la dottrina della fede, l’argentino Victor Manuel Fernández, che rispondendo per iscritto alle domande di Edward Pentin per il “National Catholic Register” dell’11 settembre ha assegnato a Francesco “un particolare carisma per la salvaguardia del deposito della fede, un carisma unico, che il Signore ha dato solo a Pietro e ai suoi successori”, ma di cui prima d’oggi nessuno aveva mai avuto notizia.
Si tratta di “un dono vivo ed attivo”, ha spiegato Fernández, “che è all’opera nella persona del Santo Padre. Io non ho questo carisma, né lo ha lei, né lo ha il cardinale Burke. Oggi solo papa Francesco lo ha. Ora, se lei mi dice che qualche vescovo ha un dono speciale dello Spirito Santo per giudicare la dottrina del Santo Padre, entriamo in un circolo vizioso (nel quale ciascuno può dire di possedere la vera dottrina) e questo sarebbe eresia e scisma. Ricordi che gli eretici sempre pensano di conoscere la vera dottrina della Chiesa. Sfortunatamente, oggi cadono in questo errore non solo alcuni progressisti, ma anche, paradossalmente, alcuni tradizionalisti”.
È difficile pensare a un’estensione ancor più smisurata dell’infallibilità del papa in materia di fede, affermata dal Concilio Vaticano I entro confini estremamente stringenti. E infatti il nuovo dogma inopinatamente enunciato da Fernández è subito finito sotto il fuoco di fila delle critiche.
La più argomentata e graffiante è venuta dal campo conservatore, sul blog “Caminante Wanderer”, ad opera di un anonimo e colto studioso argentino.
Ma anche sul versante opposto, quello progressista, il singolarissimo “carisma” di cui, a detta di Fernández, il solo Francesco sarebbe dotato è stato bocciato senza appello, proprio in quanto incompatibile con i limiti dell’infallibilità papale ribaditi dal Concilio Vaticano II nella costituzione dogmatica “Lumen gentium”. Ne ha scritto su “Commonweal” Massimo Faggioli, professore di teologia alla Villanova University.
Resta quindi ancor più incomprensibile la contraddizione tra gli sconfinati poteri monocratici di cui Francesco si ritiene sempre più investito dall’alto, con tanto di timbro del suo teologo di corte, e la contemporanea “democratizzazione” della Chiesa da lui voluta con la nuova sinodalità.
Anche su questa nuova forma del Sinodo è avvenuto con Francesco un cambio di passo, nel corso del suo pontificato.
Tornando al Concilio Vaticano II, nella “Lumen gentium”, la costituzione dogmatica del Vaticano II espressamente dedicata alla Chiesa, la parola “Sinodo” compare una sola volta ed è sinonimo della parola “Concilio”, che riunisce esclusivamente il papa e i vescovi.
Mentre nei rari documenti pontifici dei decenni successivi nei quali la parola “sinodalità” ricorre, essa si riferisce a come è praticata nelle Chiese ortodosse, cioè al collegio dei vescovi riuniti col loro patriarca o arcivescovo maggiore per esercitare l’autorità gerarchica sulla rispettiva Chiesa.
Peter Anderson, lo studioso di Seattle che è osservatore attento di ciò che accade nelle Chiese d’oriente e diffonde in proposito le note informative più puntuali e documentate, ha accertato che dal Concilio a tutto il 2013 sono appena dodici le ricorrenze della parola “sinodalità”: sei con Giovanni Paolo II, due con Benedetto XVI e quattro con Francesco.
Da ciò si ricava che, ancora nel primo anno dopo l’elezione a papa, Francesco non inclinava affatto, almeno nei suoi enunciati pubblici, verso una “democratizzazione” dei Sinodi.
La prima volta in cui egli parlò di “sinodalità” fu il 28 giugno 2013, rivolgendosi alla delegazione del patriarcato ecumenico di Costantinopoli. E si riferì alla “riflessione della Chiesa cattolica sulla collegialità episcopale”, per la quale era buona cosa “apprendere” dalla “tradizione della sinodalità così tipica delle Chiese ortodosse”.
La seconda volta fu nell’omelia del giorno successivo, festa dei santi Pietro e Paolo, per auspicare “armonia” tra il Sinodo dei vescovi e il primato del papa.
La terza fu nell’intervista del settembre 2013 col direttore de “La Civiltà Cattolica” Antonio Spadaro. Lì fece sì balenare l’idea che “forse è il tempo di mutare la metodologia del Sinodo, perché quella attuale mi sembra statica”. Ma per subito ripetere che è “dai nostri fratelli ortodossi” che “si può imparare di più sul senso della collegialità episcopale e sulla tradizione della sinodalità”.
La quarta volta fu nell’esortazione apostolica “Evangelii gaudium” del 24 novembre 2013, il documento programmatico del suo pontificato, dove però di nuovo si limitò a dire che “nel dialogo con i fratelli ortodossi noi cattolici abbiamo la possibilità di imparare qualcosa di più sul significato della collegialità episcopale e sulla loro esperienza della sinodalità”.
Ma questo era solo l’inizio. Negli anni a seguire, per Francesco è stato tutto un crescendo di annunci e di decisioni che hanno portato all’attuale mutazione della forma del Sinodo, ormai talmente distante dal plurisecolare modello tuttora in vigore nelle Chiese orientali da motivare, da quella parte, la protesta di cui ha dato notizia il precedente post di Settimo Cielo:
Dando potere al “popolo di Dio”, cioè estendendo la partecipazione ai Sinodi, con diritto di voto, anche ai semplici battezzati, Francesco ha certamente compiuto un’innovazìone di grande portata.
Ma ancora una volta in piena contraddizione. Perché non è stato un Sinodo a decidere il cambiamento, come il nuovo corso “popolare” vorrebbe, ma lui tutto da solo, il papa.
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POST SCRIPTUM – Questo post di Settimo Cielo ha ispirato a José Arturo Quarracino, 70 anni, argentino, filosofo e saggista, nipote del cardinale e arcivescovo di Buenos Aires Antonio Quarracino (1923-1998) che ebbe Jorge Mario Bergoglio come suo ausiliare e successore, un commento molto tagliente:
Inoltre, ricevo e pubblico anche quest’altro commento, il cui autore, Antonio Caragliu, è avvocato del foro di Trieste e membro dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani:
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Caro Magister,
nella sua intervista dell’11 settembre Fernández concepisce la dottrina cattolica alla luce di una impostazione che compone Henry Bergson con Max Weber.
La distinzione del Bergson de “Le due sorgenti della morale e della religione” (1932), che distingue tra una religione/morale statica, chiusa, legalitaria, conservatrice, dogmatica e autoritaria e una religione/morale dinamica, mistica, vocata alla trasformazione del mondo, viene declinata politicamente e ricondotta alla distinzione weberiana tra potere “carismatico” e potere “tradizionale”.
Il papa, secondo l’ardita ricostruzione del cortigiano Fernández, ha, se non un monopolio, una indiscussa preminenza nell’esercizio di quel potere carismatico che identifica e coglie l’aspetto progressivo e dinamico della religione/morale, a cui la morta (o comunque morente) tradizione, offre solo una materia passiva. Papa o duce?
Antonio Caragliu