Il nostro amato Benedetto XVI vedeva lontano.
Luigi
Settimo Cielo, 15-8-23
(s.m.) Era il 4 giugno 1970 quando a Monaco di Baviera, davanti a un migliaio di ascoltatori attentissimi, l’allora professore di teologia all’Università di Ratisbona Joseph Ratzinger tenne una conferenza dal titolo: “Perché sono ancora nella Chiesa”.
In italiano, il testo della conferenza è stato pubblicato prima da Queriniana nel 1971, poi da Rizzoli nel 2008, e infine nel volume VIII dell’”Opera omnia”, per i tipi della Libreria Editrice Vaticana.
Qui di seguito ne è riprodotta la parte iniziale, quella in cui Ratzinger descriveva lo stato della Chiesa cattolica in quegli anni turbolenti del dopo Concilio e del dopo ’68.
A rileggerla oggi, a più di mezzo secolo di distanza, è impressionante notare quanto la stessa “confusione babelica” di quegli anni si sia protratta ed estesa fino ai nostri giorni, con l’unica differenza sostanziale in più che è arrivata a coinvolgere anche il soglio pontificio, con Jorge Mario Bergoglio.
Buona lettura ferragostana!
PERCHÉ SONO ANCORA NELLA CHIESA
di Joseph Ratzinger
Di motivi per non restare più nella Chiesa ce ne sono oggi molti e contraddittori. A voltare le spalle alla Chiesa si sentono spinti non più solo coloro ai quali la fede della Chiesa è diventata estranea, ai quali la Chiesa appare troppo arretrata, troppo medievale, troppo ostile al mondo e alla vita, bensì anche coloro che amarono nella Chiesa la sua figura storica, la sua liturgia, la sua indipendenza dalle mode del momento, il suo riverbero di eternità. A questi ultimi sembra che la Chiesa stia tradendo la propria vera natura, che si stia svendendo alla moda e stia quindi perdendo la propria anima: sono delusi come un innamorato che deve vivere il tradimento di un grande amore e considerano seriamente di voltarle le spalle.
D’altra parte però vi sono motivi molto contraddittori anche per rimanere nella Chiesa. In essa restano non solo quelli che conservano in modo instancabile la loro fede nella sua missione, o quelli che non si vogliono staccare da una vecchia e cara abitudine (anche se ne fanno scarso uso). Oggi rimangono in essa con maggior vigore proprio coloro che rifiutano tutta la sua realtà storica e contestano con passione il significato che i suoi ministri cercano di darle o di conservarle. Sebbene essi vogliano rimuovere ciò che la Chiesa fu ed è, sono anche determinati a non lasciarsi mettere fuori, perché sperano di trasformarla in ciò che secondo loro essa dovrebbe diventare.
In questo modo, però, si ha una confusione davvero babelica per la Chiesa, nella quale non solo sono intrecciati nella maniera più strana i motivi a favore e contro di essa, ma un’intesa sembra quasi impossibile. Innanzitutto nasce la sfiducia, perché l’essere-nella-Chiesa ha perso il proprio carattere inequivocabile e nessuno osa più avere fiducia nella sincerità dell’altro. L’affermazione piena di speranza che Romano Guardini fece nel 1921 sembra ormai capovolta: “Un processo di grande portata è iniziato: la Chiesa si sveglia nelle coscienze”. Oggi al contrario la frase sembrerebbe dover suonare: “È in corso un processo di grande portata: la Chiesa si spegne nelle anime e si disgrega nelle comunità”. In un mondo che tende all’unità, la Chiesa si disgrega in risentimenti nazionalistici, denigrando ciò che è estraneo e glorificando il proprio particolare. Tra i fautori della mondanità e quelli di una reazione che si aggrappa troppo all’esteriorità e al passato, tra il disprezzo della tradizione e la fiducia positivistica di una fede presa alla lettera, sembra non esserci alcuna via di mezzo. L’opinione pubblica assegna inesorabilmente a ognuno il suo posto. Essa ha bisogno di etichette chiare e non accetta le sfumature: chi non è per il progresso, è contro di esso; si deve essere o conservatori o progressisti.
Grazie a Dio, la realtà è indubbiamente molto diversa: in segreto e quasi senza voce ci sono anche oggi, tra questi due estremi, coloro che semplicemente credono di realizzare la vera missione della Chiesa anche in questo momento di confusione: il culto e l’accettazione della vita quotidiana a partire dalla parola di Dio. Ma essi non si adattano all’immagine che se ne vuole avere e così rimangono in larga misura muti: la vera Chiesa non è certamente invisibile, ma profondamente nascosta sotto le malefatte degli uomini.
Si è così ottenuto un primo abbozzo dello sfondo sul quale si pone oggi la domanda: perché rimango ancora nella Chiesa? Per poter dare una risposta sensata, bisogna innanzitutto approfondire ulteriormente l’analisi di questo contesto storico che con la parola progresso entra direttamente nel nostro tema, e dobbiamo intendere le ragioni che hanno portato a questa situazione.
Come si è potuti arrivare a questa singolare confusione babelica, nel momento in cui ci si aspettava invece una nuova Pentecoste? Come è stato possibile che, proprio nel momento in cui il Concilio sembrava aver raccolto il frutto maturo del risveglio dei precedenti decenni, invece della ricchezza del compimento sia emerso un vuoto inquietante? Com’è potuto accadere che dalla grande spinta verso l’unità sia sorta la disgregazione?
Nel nostro sforzo di comprendere la Chiesa, e fare un lavoro concreto su di essa, tramutatosi nel Concilio in una vera e propria lotta, sembra che le siamo giunti così vicino da non riuscire più a percepirla nel complesso: sembra che non siamo più in grado di vedere la città oltre le case, la foresta oltre gli alberi. La prospettiva del presente ha trasformato il nostro sguardo sulla Chiesa in modo tale che noi oggi in pratica la vediamo solo sotto l’aspetto della fallibilità, chiedendoci cosa possiamo fare di essa. Il grande sforzo di riforma interno alla Chiesa ha fatto dimenticare tutto il resto; essa è per noi oggi solo una struttura, che si può trasformare e che ci porta a chiederci cosa si debba cambiare in essa per renderla più efficiente per i singoli scopi che ognuno le attribuisce.
Nel porsi questa domanda, il concetto di riforma è ampiamente degenerato nella coscienza comune ed è stato privato del suo nucleo centrale. Infatti la riforma, nel suo significato originario, è un processo spirituale molto vicino alla conversione e in questo senso fa parte del cuore del fenomeno cristiano; soltanto attraverso la conversione si diventa cristiani, e questo è valido per tutta la vita del singolo e per tutta la storia della Chiesa. Anche essa continua a vivere convertendosi sempre nuovamente al Signore, tenendosi lontana dal chiudersi in se stessa e nelle proprie care abitudini, così facilmente contrarie alla verità.
Ma se la riforma viene allontanata da questo contesto, dallo sforzo della conversione e se ci si aspetta la salvezza solo dal cambiamento degli altri, da forme e adattamenti al tempo sempre nuovi, forse si può raggiungere qualche risultato, ma nel complesso la riforma diventa una caricatura di se stessa. Una simile riforma, in fin dei conti, può portare solo a ciò che è irrilevante, che è di second’ordine nella Chiesa; non c’è da meravigliarsi che alla fine la Chiesa stessa le sembri qualcosa di secondario.
Se si riflette su ciò si comprende meglio anche il paradosso che si è apparentemente delineato negli sforzi di rinnovamento della nostra epoca; lo sforzo per rendere meno pesanti strutture ormai irrigidite, per correggere forme del ministero ecclesiastico che derivano dal medioevo o ancora di più dai tempi dell’assolutismo e per liberare la Chiesa da tali sovrapposizioni verso un servizio più semplice secondo lo spirito del Vangelo. In effetti questi sforzi hanno condotto a una sopravvalutazione dell’elemento istituzionale, che è quasi senza precedenti nella Chiesa. Le istituzioni e i ministeri nella Chiesa di certo vengono criticati oggi in modo più radicale di un tempo, ma essi assorbono l’attenzione in modo più esclusivo che mai: non pochi credono oggi che la Chiesa consista solo di essi. La problematica della Chiesa si esaurisce allora nella battaglia sulle sue istituzioni; non si vuole lasciare inutilizzato un apparato così vasto, ma lo si trova per molti aspetti inadatto ai nuovi scopi che gli vengono assegnati.
Dietro di ciò si profila un secondo punto, il problema effettivo: la crisi della fede, che è il vero nocciolo della questione. Dal punto di vista sociologico la Chiesa si protende molto al di là della cerchia dei veri e propri credenti e questa mancanza di verità, ormai istituzionalizzata, la aliena profondamente dalla sua vera natura. L’effetto mediatico del Concilio e la prospettiva di un possibile avvicinamento tra fede e non fede – avvicinamento che si volle vedere nei suoi documenti – hanno radicalizzato all’estremo questa alienazione. Molte volte il plauso per il Concilio giunse proprio da coloro che pur non avendo affatto intenzione di diventare credenti nel senso della tradizione cristiana, salutarono però questo “progresso” della Chiesa come una conferma delle loro scelte e del loro cammino.
Nello stesso tempo, però, la fede è entrata in una fase di fermento anche nella Chiesa stessa. Il problema della mediazione storica porta l’antico Credo in una penombra incerta ed ambigua, nella quale le verità perdono i loro contorni; l’obiezione delle scienze naturali o ancora di più ciò che si considera come concezione cosmologica moderna fa la sua parte per aggravare questo processo. I confini tra la spiegazione e la negazione diventano, proprio sulle questioni principali, sempre più indistinti: cosa significa veramente “risorto dai morti?”. Chi è che crede, chi è che interpreta, chi è che nega? E mentre si discute sui limiti dell’interpretazione si perde di vista il volto di Dio. La “morte di Dio” è un processo del tutto reale, che oggi penetra in profondità all’interno Chiesa. Dio muore nella cristianità, così almeno sembra. Poiché laddove la resurrezione diventa l’esperienza di una missione percepita come superata, Dio non è più presente con la sua opera. Ma Dio agisce poi ancora? È questa la domanda che sorge spontanea. Chi ha ancora il coraggio di essere così reazionario da credere come reale l’affermazione “Egli è risorto”? Così ciò che per l’uno è progresso per l’altro è incredulità, e diventa normale quello che finora era inconcepibile, cioè che delle persone che da tempo hanno abbandonato la fede della Chiesa si considerino ancora con buona coscienza i veri cristiani progressisti.
Per loro, però, l’unico criterio in base al quale giudicare la Chiesa è l’efficienza con la quale essa funziona; ma rimane ancora da chiedersi quale sia la vera efficienza e per quali scopi la si debba usare. Per criticare la società, per aiutare i paesi in via di sviluppo, per fomentare la rivoluzione? O per solennizzare le feste locali? In ogni caso, bisogna ricominciare da capo, poiché la Chiesa originariamente non era stata concepita per tutto ciò ed effettivamente nella sua forma attuale non è adatta a queste funzioni. In questo modo aumenta il disagio sia fra i credenti che tra i non credenti. Il diritto di cittadinanza che l’incredulità ha ottenuto nella Chiesa rende la situazione sempre più insopportabile per gli uni e per gli altri; soprattutto, attraverso questi processi il programma di riforma è finito tragicamente in una singolare ambiguità, che per molti è irrisolvibile.
Naturalmente si può obiettare che tutto ciò non rappresenta l’intera nostra situazione. Ci sono anche tanti elementi positivi, che sono cresciuti negli ultimi anni e che non devono assolutamente passare sotto silenzio: la nuova liturgia più accessibile al popolo, la sensibilità per i problemi sociali, la migliore comprensione tra i cristiani di diverse confessioni, la diminuzione di una certa paura dovuta a una fede troppo legata alla lettera, e molto altro ancora. Questo è vero e non lo si deve sminuire, ma non contraddistingue l’atmosfera generale della Chiesa. Al contrario, anche tutto ciò è stato nel frattempo intaccato da quell’ambiguità che è emersa dalla scomparsa di precisi confini tra fede ed incredulità. Soltanto all’inizio il risultato di questa scomparsa sembrò essere una liberazione. Oggi è chiaro che, nonostante tutti i segni di speranza ancora esistenti, da un simile processo non è emersa una Chiesa moderna, bensì una Chiesa profondamente dilaniata e quanto mai problematica.
Dobbiamo ammetterlo una buona volta a chiare lettere: il Concilio Vaticano I aveva descritto la Chiesa come “signum levatum in nationes”, come il grande vessillo escatologico visibile da lontano, che chiama e unisce gli uomini attorno a sé. Secondo il concilio del 1870, essa rappresenta quel segno auspicato da Isaia (11,12), visibile da lontano, che ogni uomo può riconoscere e che indica a tutti il cammino in modo inequivocabile. Con la sua meravigliosa diffusione, la sua profonda santità, la sua fecondità in tutto ciò che è buono e la sua incrollabile stabilità, essa rappresenta il vero miracolo del cristianesimo, la miglior prova della sua origine divina di fronte al mondo e alla storia.
Oggi sembra vero tutto il contrario: non un’istituzione prodigiosamente diffusa, ma un’associazione vuota e stagnante, che non è in grado di superare seriamente i confini né dello spirito europeo, né di quello medioevale; non una profonda santità, bensì un insieme di tutte le azioni vergognose degli uomini, insudiciata e mortificata da una storia che non si è fatta mancare alcuno scandalo, dalla persecuzione degli eretici e dai processi alle streghe, dalla persecuzione degli ebrei e dall’asservimento delle coscienze fino alla dogmatizzazione di sé e alla resistenza all’evidenza scientifica: a tal punto che chi fa parte di questa storia non può che coprirsi vergognosamente il volto; infine non più stabilità, bensì accondiscendenza a tutte le correnti della storia, al colonialismo, al nazionalismo e persino il tentativo di adattarsi al marxismo e, dove possibile, di mimetizzarsi con esso.
Se le cose stanno così, allora la Chiesa sembra essere non più il segno che richiama alla fede, quanto piuttosto il principale ostacolo alla sua accettazione. […]