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giovedì 20 luglio 2023

Francesco senza più veli. Un’analisi delle sue ultime nomine #Fernández

Magistrale analisi di Sandro Magister, completa esaustiva e "tragica".
Inter alia, su  Fernández: "Qui infatti Francesco ha compiuto ciò che mai aveva osato con Joseph Ratzinger in vita. Cioè la nomina nel ruolo chiave che fu del grande teologo e poi papa tedesco di un personaggio che ne è il totale rovescio. Basti dire che il suo penultimo predecessore nella stessa carica, il cardinale Gerhard L. Müller, anni fa accusò Fernández né più né meno che di “eresia”".
Qui altri post sulla nomina di mons. Fernández Prefetto del DDF.
Luigi

Settimo Cielo, 18-7-23
La morte del suo predecessore Benedetto XVI, alla fine del 2022, è stata per papa Francesco come la scomparsa del “katéchon”, dell’argine che lo tratteneva dal rivelare pienamente se stesso.
Lo testimoniano gli atti di governo che egli ha inanellato in questi mesi, con ritmo incalzante.

L’ultimo è l’annuncio di 21 nuovi cardinali, 18 dei quali in età di conclave. Non compaiono nella lista né l’arcivescovo di Parigi né quello di Milano, quest’ultimo pur in carica da sei anni. Ma soprattutto non c’è l’arcivescovo maggiore della Chiesa greco-cattolica dell’Ucraina, Sviatoslav Shevchuk, colpevole anche d’aver detto a viso aperto tutto ciò che giudica sbagliato nell’operato di Francesco riguardo alla guerra in corso.

Nella lista compaiono due gesuiti, il vescovo di Hong Kong Stephen Chow Sau-Yan – reduce da un viaggio ufficiale a Pechino che per il papa vale più delle umiliazioni subite ad opera del regime con i recenti insediamenti di due vescovi senza il dovuto previo consenso di Roma – e l’arcivescovo di Córdoba, in Argentina, Ángel Sixto Rossi, fedelissimo di Jorge Mario Bergoglio fin dagli anni in cui il futuro papa era provinciale della Compagnia di Gesù, in aspro contrasto con la maggioranza dei confratelli.

C’è poi l’arcivescovo di Juba in Sud Sudan, Stephen Ameyu Martin Mulla, risarcito con la porpora dall’attacco da lui subito quando fu insediato in diocesi nel 2019, da parte di oppositori di diversa tribù, che lo accusavano anche di atti immorali.

E ancora ci sono due nomine volutamente contrarie agli orientamenti conservatori dei rispettivi episcopati nazionali: in Sudafrica l’arcivescovo di Città del Capo Stephen Brislin, bianco di pelle e di idee simili a quelle del “cammino sinodale” tedesco; e in Polonia Grzegorz Rys, arcivescovo di Lodz, la stessa diocesi di cui è originario il cardinale elemosiniere del papa Konrad Krajewski, suo amico stretto. Rys è una delle rare voci progressiste dell’episcopato polacco, mentre resta senza porpora Cracovia, retta da un successore di Karol Wojtyla d’orientamento opposto.

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La nomina, però, che più ha fatto colpo non è quella, scontatissima, dell’argentino Victor Manuel Fernández (nella foto) a cardinale, ma il precedente affidamento a lui della carica di prefetto del dicastero per la dottrina della fede.

Qui infatti Francesco ha compiuto ciò che mai aveva osato con Joseph Ratzinger in vita. Cioè la nomina nel ruolo chiave che fu del grande teologo e poi papa tedesco di un personaggio che ne è il totale rovescio.

Basti dire che il suo penultimo predecessore nella stessa carica, il cardinale Gerhard L. Müller, anni fa accusò Fernández né più né meno che di “eresia”, per le tesi sconclusionate che sosteneva. Ma papa Francesco non si scompose minimamente. Alla carica di prefetto per la dottrina della fede aveva sì nominato prima Müller e poi Luis Francisco Ladaria Ferrer, l’uno e l’altro di impeccabile ortodossia, ma per lui questo era solo un tributo d’obbligo a Benedetto XVI ancora in vita. Di quanto essi dicevano e facevano gli importava poco, finanche, a volte, a contraddirne platealmente le sentenze, come ad esempio il veto opposto da Ladaria alla benedizione delle coppie omosessuali. A scrivergli i documenti chiave del pontificato, “Evangelii gaudium” o “Amoris laetitia”, era sempre Fernández, anche copiando interi brani di suoi precedenti saggi.

E ora tocca a lui, Fernández, fare “qualcosa di molto diverso” rispetto ai predecessori, stando all’inusuale lettera con cui il papa ha accompagnato la sua nomina: chiudere con “i tempi in cui più che promuovere il sapere teologico si perseguivano possibili errori dottrinali”, lasciare che lo Spirito Santo faccia lui “armonia” delle più diverse linee di pensiero, “più efficacemente di qualsiasi meccanismo di controllo”. Insomma, il trionfo di quel relativismo che era il nemico numero uno di Ratzinger teologo e papa.

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Altre nomine significative: quelle dei partecipanti al prossimo sinodo sulla sinodalità. Tra i vescovi eletti dalle conferenze episcopali spiccano i cinque degli Stati Uniti, tutti di segno conservatore, ai quali però Francesco ha rimediato aggiungendo di sua scelta i cardinali a lui molto più vicini Blase Cupich, Wilton Gregory, Robert McElroy, Joseph Tobin e Sean O’Malley, più l’arcivescovo Paul Etienne e l’attivissimo gesuita James Martin, il vate, quest’ultimo, di quella nuova morale omosessuale che è anche tra gli obiettivi dichiarati del vero regista del sinodo assieme al papa, il cardinale Jean-Claude Hollerich, relatore generale dell’assise.

Tra i “testimoni” senza diritto di voto Francesco ha incluso anche Luca Casarini, l’attivista no-global da lui più volte elogiato come eroe del soccorso dei migranti nel Mediterraneo, da ultimo all’Angelus di domenica 9 luglio.

Ma oltre ai prescelti, fanno notizia anche quelli che Francesco ha escluso dal partecipare al sinodo, tra i quali i titolari di tutti gli uffici vaticani che si occupano di diritto.

Il primo degli esclusi è il cardinale Dominique Mamberti, prefetto del supremo tribunale della segnatura apostolica e fino a poco tempo fa, per statuto, anche presidente della corte di cassazione dello Stato della Città del Vaticano, assieme ad altri due cardinali membri della suprema corte, tutti giuristi e canonisti di provata competenza.

Ma nella primavera di quest’anno Francesco ha promulgato una nuova Legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano e ha cambiato del tutto i criteri di nomina dei membri della corte di cassazione, riservando a sé la scelta di ciascuno.

E chi sono i quattro cardinali da lui nominati? Come presidente della nuova corte lo statunitense Kevin J. Farrell e come membri gli italiani Matteo Zuppi, Augusto Lojodice e Mauro Gambetti. Nessuno dei quali ha la minima competenza giuridica. Gambetti, ad esempio, ha recentemente brillato, piuttosto, per il clamoroso fiasco di un pretenzioso show con cantanti e premi Nobel fatti venire da tutto il mondo in nome della fratellanza, in una piazza San Pietro desolatamente vuota.

Tra gli studiosi del diritto canonico, la nuova Legge fondamentale promulgata dal papa è stata subito fatta segno di critiche severe. Ma si sa che Francesco non ha il minimo rispetto per lo stato di diritto, visto come ha fin qui manomesso, ad esempio, il processo in corso in Vaticano per il malaffare del palazzo di Londra. O come ha messo alla gogna il cardinale Giovanni Angelo Becciu, molto prima che fosse regolarmente giudicato e senza nemmeno dire il perché.

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Tornando alla nomina di Fernández, va aggiunto che questi ha subito dichiarato di non essere competente nel trattare i casi di abuso sessuale che sono tra i principali compiti del dicastero a lui affidato, e di averne avvertito a suo tempo il papa, che però l’avrebbe dispensato dall’occuparsi in futuro di tali casi, lasciando tale compito agli specialisti dello stesso dicastero.

Non solo, Fernández ha anche ammesso di aver agito in modo manchevole, sempre per impreparazione, nel trattare un caso d’abuso come vescovo dell’arcidiocesi di La Plata.

Ma gli abusi sessuali non sono stati dichiarati più volte da papa Francesco come una questione capitale per la Chiesa? E allora perché affidarli alla responsabilità di un incompetente?

Sta di fatto che sul caso più spinoso e tuttora irrisolto, quello del gesuita Marko Ivan Rupnik, è stato Francesco in persona a stendere una copertura di protezione, dapprima revocando nel volgere di poche ore la scomunica che la congregazione per la dottrina della fede aveva comminato al gesuita, e poi facendo sì che la stessa congregazione archiviasse per prescrizione un successivo processo.

È toccato poi alla Compagnia di Gesù aprire una nuova indagine contro Rupnik, sostanziata da numerose, nuove denunce, tutte giudicate credibili a un primo esame. Alla quale indagine però il gesuita si è sempre sottratto, fino ad essere espulso dalla Compagnia e quindi a ritrovarsi libero ancor più di prima, in attesa d’essere incardinato nella diocesi di un vescovo amico, e sempre sotto lo scudo del papa.

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Pescando poi tra le decisioni minori prese da Francesco in questi ultimi mesi, anche lì se ne trovano di rivelatrici.

Ad esempio la creazione di una Commissione dei nuovi martiri e testimoni della fede, cattolici e di altre confessioni cristiane, praticamente consegnata dal papa alla già onnipresente – in Vaticano – Comunità di Sant’Egidio, con vicepresidente il fondatore Andrea Riccardi, con segretario Marco Gnavi, parroco della basilica di Santa Maria in Trastevere, e tra i membri Angelo Romano, rettore della basilica di San Bartolomeo all’Isola, epicentro della neonata commissione, e il professor Gianni La Bella, tutti appartenenti alla Comunità.

Oppure l’inopinata nomina a rettore del pontificio seminario romano maggiore e a vescovo ausiliare di Roma di Michele Di Tolve, fino a ieri parroco a Rho e prima ancora, dal 2014 al 2020, rettore del seminario arcivescovile maggiore di Milano.

Curiosamente, le credenziali di Di Tolve come rettore di seminario sono tutt’altro che brillanti. Durante il suo rettorato nell’arcidiocesi ambrosiana il numero dei seminaristi è calato a picco e i suoi metodi di gestione sono stati molto criticati. Una dotta indagine statistica sul futuro del clero milanese ha prodotto previsioni disastrose.

Eppure Francesco l’ha voluto a Roma come rettore e vescovo. E il perché l’ha spiegato il 25 marzo scorso, in un’udienza in Vaticano ai fedeli delle parrocchie di Rho. Con queste testuali parole:

“Il vostro parroco Michele Di Tolve, che conosco da tanti anni, l’ho conosciuto appena nominato cardinale. Ero andato a visitare una mia cugina e lei mi ha parlato di un vice-parroco eccezionale che avevano lì: ‘Guarda, lavora quel prete!’ – ‘Ah sì? Fammelo conoscere, ma non dirgli che sono un cardinale’ – ‘No, non lo dirò’. Mi sono tolto l’anello, siamo arrivati in oratorio e lui andava da una parte all’altra, si muoveva come un ballerino con tutti. Così l’ho conosciuto. E così è rimasto per tutta la vita: uno che sa muoversi, non aspetta che le pecore vengano a cercarlo. E come rettore del seminario ha fatto tanto bene ai ragazzi che si preparano al sacerdozio, tanto bene, e per questo vorrei davanti a tutti voi dare testimonianza e ringraziare per quello che sta facendo: grazie, grazie!”.

A Milano nessuno ha pianto per la chiamata di Di Tolve a Roma. Ma tante nomine di Francesco sono fatte così.