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mercoledì 26 aprile 2023

Una politica controproducente per #traditioniscustodes

Grazie all'amico Michelangelo per la segnalazione e la traduzione.
"Lungi dal restituire la competenza ai vescovi, stiamo assistendo a una drastica riduzione della competenza, a partire da quella di discernere la situazione locale".
Luigi

Da Redaccioninfovaticana | 15 aprile, 2023
Il 20 febbraio scorso il Dicastero per il Culto divino ha promulgato un rescritto che specifica l'applicazione del motu proprio Traditionis custodes (16 luglio 2021) limitando drasticamente l'uso del Messale tridentino. A posteriori, possiamo già dire che questa azione rivolta al mondo tradizionalista è controproducente.
Il motu proprio Traditionis custodes del 16 luglio 2021 si proponeva: 1) di restituire ai vescovi, custodi "di tutta la vita liturgica", la gestione del dossier tradizionalista (art.2); 2) denunciare l'"uso strumentale" del Messale Romano del 1962, cioè il "crescente rifiuto non solo della riforma liturgica, ma anche del Concilio Vaticano II" (Lettera ai vescovi che accompagna il motu proprio Traditions custodes); 3) "difendere l'unità" della Chiesa, danneggiata dalla "divisione" derivante da "un uso parallelo del Messale Romano promulgato da San Paolo VI" (stessa lettera). 2) ;2 )denunciare l'"uso strumentale" del Messale Romano del 1962, cioè il "crescente rifiuto non solo della riforma liturgica, ma anche del Concilio Vaticano II" (Lettera ai vescovi che accompagna il motu proprio Traditions custodes); 3) "difendere l'unità" della Chiesa, danneggiata dalla "divisione" derivante da "un uso parallelo del Messale Romano promulgato da San Paolo VI" (stessa lettera). Tuttavia, ad oggi, i risultati di questo processo disciplinare possono già essere visti come un chiaro esempio di azione controproducente.
Lungi dal restituire la competenza ai vescovi, stiamo assistendo a una drastica riduzione della competenza, a partire da quella di discernere la situazione locale. Il motu proprio già obbligava i vescovi a consultare la Sede Apostolica prima di dare il permesso ai sacerdoti ordinati dopo questo testo di celebrare secondo il vecchio messale (art. 4). Le risposte della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, datate 4 dicembre 2021, aggiungono: "Non si tratta di un semplice parere consultivo, ma di una necessaria autorizzazione data al vescovo diocesano dalla Congregazione"; il controllo aumenta, poiché, per quanto riguarda la ricezione di tali celebrazioni nelle chiese parrocchiali, non è più il solo vescovo ad essere autorizzato, ma deve chiedere una "dispensa". Quanto alla facoltà di celebrare due volte al giorno, che il Codice di Diritto Canonico riconosce ai vescovi di concedere ai sacerdoti (can. 905, § 2), essa viene puramente e semplicemente ritirata.
Infine, il rescritto (atto ufficiale dell'udienza) del 20 febbraio 2023 precisa che queste "dispense sono riservate in modo speciale alla Sede Apostolica", proprio come i reati più gravi! Inoltre, essendo necessaria una dispensa riservata in modo speciale, il vescovo è ancora privato della possibilità, se giudica che "è per il bene spirituale dei fedeli", "di dispensarli dalle leggi disciplinari sia universali che [...]" (can. 87 § 1). È difficile non notare la rilevanza dell'opinione del cardinale Müller, secondo cui questo processo "degrada i vescovi locali o ordinari di rango secondario in firmatari di petizioni alla massima autorità (cioè la burocrazia del Dicastero per il Culto)".

Se è in discussione la competenza pastorale dei vescovi stessi, è perché questa questione è stata, per così dire, completamente "depastorizzata". A questo proposito, è abbastanza significativo che la facoltà concessa dalla legge all'ordinario di consentire le celebrazioni biquotidiane non sia efficace in questo caso perché, dice il cardinale Roche, non c'è "necessità pastorale". Il tono poco accogliente di questi documenti è quindi comprensibile. Il Dicastero per il Culto Divino non ha alcun bisogno, da Roma, di conoscere le situazioni locali, poiché il suo unico criterio di valutazione è l'obsolescenza programmata di questa forma antiquata e lo smantellamento di questa catena di "rigidità". Va notato che questo dicastero, che pretende di regolare tutto, non ha i mezzi per contenere se stesso, poiché, per quanto ne sappiamo, non risponde nemmeno a tutti i vescovi che chiedono tali dispense o autorizzazioni.

Le deviazioni di una parte del movimento Ecclesia Dei, lungi dall'essere frenate, vengono esacerbate. Ponendosi sul terreno dell'unicità della lex orandi e quindi di una nuova lex credendi che si dice incompatibile con la precedente espressione della fede, si va di fatto nella direzione di una "ermeneutica della rottura", che corrisponde esattamente alla posizione lefebvriana, secondo la quale la "nuova Messa" si allontana, in modo impressionante, dalla teologia tridentina.
Inoltre, esentando la Fraternità di San Pietro dal motu proprio Traditionis custodes, una giurisprudenza che sembra estendersi ad altri istituti anch'essi esclusivisti in materia rituale, alla fine sono solo i sacerdoti diocesani ad essere colpiti dalle misure restrittive in vigore, mentre prima potevano passare da una forma liturgica all'altra senza alcun problema.

Non sfugge a nessuno che queste misure discriminatorie nei confronti del movimento Ecclesia Dei sono accompagnate da ampie concessioni accordate alla Società San Pio X, come se l'obiettivo fosse quello di assorbire la prima nella seconda e di racchiudere il mondo intero in una riserva indiana.

Infine, emarginando questi fedeli, riducendoli addirittura a ghetti, vietando loro di celebrare la vecchia forma nelle chiese parrocchiali, li si mette in condizione di radicalizzarsi. Benedetto XVI aveva capito e formulato perfettamente che è la segregazione a causare indurimento, restringimento e altre unilateralità e che è, al contrario, la convivenza nelle strutture più visibili ad attenuare questi comportamenti. Di fatto, dopo la Traditionis custodes non abbiamo visto questi istituti cambiare di una virgola la loro prassi liturgica; al contrario, si sta cristallizzando l'opposizione alla Messa di Paolo VI e del Concilio Vaticano II.

Nel tentativo di imporre un'unica forma di rito romano, si ignorano completamente i problemi che hanno portato i papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI a preferire l'unità all'uniformità. Ricordiamo alcuni dei loro parametri.
- Innanzitutto, non è affatto certo che la riforma liturgica sia conforme ai principi del Vaticano II. Se si pensa spontaneamente alle differenze fondamentali tra il messale del 1969 e quello del 1962: celebrazione rivolta verso il popolo, quasi tutta in lingua volgare, con una serie di preghiere eucaristiche alternative al canone romano e la comunione nella mano, nulla di tutto ciò è stato incluso nella costituzione conciliare sulla liturgia. Come ha osservato J. Ratzinger, questa riforma liturgica è senza precedenti nel senso che non procede da un continuum, costruendo su ciò che già esisteva, come frutto di una crescita organica, ma appare come una nuova costruzione "frutto di un lavoro erudito e di una competenza giuridica". Da qui la difficile ricezione di questo messale, che fa parte dello stato in questione.

- In secondo luogo, perché, almeno di fatto, questa riforma tollera il pluralismo della prassi liturgica. Basta vedere le differenze a volte abissali tra i modi di celebrare da un sacerdote all'altro sulla base dello stesso messale di Paolo VI. E gli unici che non potrebbero godere di questo pluralismo sarebbero proprio coloro che sono attaccati a un messale in cui il celebrante si attiene a ciò che è scritto in rosso?

- Infine, a prescindere dalle virtù del messale rinnovato, esso deve ancora dimostrare la sua attualità nel tempo se vuole avere un successo unico, nonostante il fatto che il numero di praticanti in Europa stia drasticamente diminuendo.

Alcuni tradizionalisti non sono privi di difetti, ad esempio nel dare un carattere assoluto ai dettagli o nel credere, a volte fino all'arroganza, di essere gli unici veramente cattolici. Ma non tutti, tutt'altro, hanno questo atteggiamento. Se devono essere corretti, che lo siano caso per caso, ma non indiscriminatamente con punizioni collettive. Hanno anche il merito, per esempio, di aver trasmesso meglio l'eredità della fede ai loro posteri e di aver resistito meglio alla cultura della morte. Sono certamente una minoranza, ma una minoranza dinamica in termini di evangelizzazione all'interno di un cattolicesimo che è esso stesso una minoranza. Con il ripetersi dei suoi commenti denigratori, Francesco sembra aver fatto della liquidazione amministrativa di questi fedeli, che definisce "arretrati" e di cui decreta che "sono persone vive che hanno una fede morta", cioè priva di ogni carità! - il fulcro del suo pontificato, a scapito della sua paternità universale, per cui si chiama "papa". Alla fine, è l'immagine del papato ad essere danneggiata.

Pubblicato da Pierre Louis su La Nef

1 commento:

  1. Perfetto questo articolo. In modo particolare per mettere in evidenza l'odio verso il Summorum Pontificum (che cerca di essere dentro la Chiesa) e non verso la San Pio X (che è fuori la comunione gerarchica). Sono (siamo) i primi a creare problemi!!!

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