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mercoledì 1 marzo 2023

Il card. Arthur Roche: «La legge sono io!». Le radici dell’opposizione alle opere di pace di Papa Benedetto XVI

Vi proponiamo – in nostra traduzione – la lettera numero 923 pubblicata da Paix Liturgique il 27 febbraio 2023, in cui si riporta una riflessione di James Baresel, giornalista freelance, per il la rivista on line The Catholic World Report.
James Baresel, che ha studiato filosofia alla Franciscan University di Steubenville (Ohio), collabora con numerose riviste e siti web in lingua inglese specializzati in storia, critica letteraria, liturgia e notizie cattoliche. Tra queste, Public Discourse, One Peter Five, Catholic Herald, Adoremus Bulletin e Catholic World Report, da cui è tratto il testo che segue.
Questa riflessione è stata pubblicata in inglese il 13 febbraio, prima della vicenda del rescritto con cui papa Francesco ha approvato l’interpretazione del card. Arthur Roche, Prefetto del Dicastero per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, sulla riserva delle dispense concesse in relazione alle disposizioni del motu proprio Traditionis custodes. Tuttavia è ancora interessante, perché mostra come il card. Arthur Roche «opera», aggirando la legge quando non gli conviene e applicandola spietatamente quando serve al suo progetto di «rottura» con la teologia tradizionale della Santa Messa.

L.V.


Nel 2007, mons. Arthur Roche, Vescovo di Leeds, ha ostacolato l’attuazione del motu proprio Summorum Pontificum. Ora, come Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, sta facendo un uso improprio e persino un abuso del motu proprio Traditionis Custodes?


Poco dopo l’emanazione del motu proprio Summorum Pontificum da parte di Papa Benedetto XVI nel 2007, l’allora Vescovo di Leeds pubblicò una «interpretazione» che faceva del suo meglio per ridurre il motu proprio a un non senso e ostacolarne l’attuazione. Tra gli esempi vi sono:

  1. insistendo sul fatto che i Parroci potessero introdurre la Santa Messa tridentina solo se un «gruppo stabile» di fedeli della loro Parrocchia, e non di varie parti della Diocesi, lo richiedeva;
  2. affermando che il Vescovo avesse l’autorità di determinare se un sacerdote fosse «qualificato» a celebrare la Santa Messa tridentina;
  3. implicando fortemente che il «gruppo stabile» dovesse essere costituito da persone che già frequentavano la Santa Messa tridentina piuttosto che da persone che desiderassero iniziare a frequentarla;
  4. sottintendendo fortemente che i sacerdoti non sarebbero stati autorizzati a «binare» (celebrare due Sante Messe in un giorno feriale) se una di queste Sante Messe fosse stata celebrata utilizzando il Messale tridentino.

Quel Vescovo era senza dubbio tra quelli che mons. Albert Malcolm Ranjith Patabendige Don, allora Segretario della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti aveva in mente quando condannava «documenti interpretativi che mirano inspiegabilmente a limitare il motu proprio del Papa» e insisteva sul fatto che tali Vescovi si lasciavano «usare come strumenti del diavolo» [intervista di Bruno Volpe sul quotidiano on line Petrus, novembre 2007: N.d.T.].

In seguito, l’istruzione della Pontificia Commissione Ecclesia Dei «Universae Ecclesiae» ha corretto i primi due punti affermando che «tale coetus può essere anche costituito da persone che provengano da diverse parrocchie o Diocesi e che a tal fine si riuniscano in una determinata chiesa parrocchiale o in un oratorio o cappella», che «ogni sacerdote che non sia impedito a norma del Diritto Canonico è da ritenersi idoneo alla celebrazione della Santa Messa nella forma extraordinaria» e che «la facoltà di celebrare la Messa sine populo (o con la partecipazione del solo ministro) nella forma extraordinaria del Rito Romano è data dal Motu Proprio ad ogni sacerdote sia secolare sia religioso […]. Pertanto in tali celebrazioni, i sacerdoti a norma del Motu Proprio Summorum Pontificum, non necessitano di alcun permesso speciale dei loro Ordinari o superiori». Il permesso sarebbe necessario ai parroci, ai rettori dei santuari ecc. per le Messe pubbliche, ma non al Vescovo diocesano.

Inoltre, il card. Darío Castrillón Hoyos – che in qualità di Presidente della Pontificia Commissione Ecclesia Dei è stato incaricato di supervisionare l’uso della Santa Messa tridentina e che certamente conosceva la mente di Papa Benedetto XVI – ha corretto informalmente il punto n. 3 durante una conferenza stampa, affermando che «il Santo Padre è disposto a offrire a tutto il popolo questa possibilità, non solo per i pochi gruppi che la richiedono, ma affinché tutti conoscano questo modo di celebrare l’Eucaristia nella Chiesa cattolica».

Quattordici anni dopo, la Latin Mass Society of England and Wales ha pubblicato un’interpretazione canonica del motu proprio Traditionis Custodes, che o è legalmente corretta o travisa quel motu proprio quasi fino a renderlo privo di significato, nello stesso modo in cui l’ex Vescovo di Leeds ha travisato il motu proprio Summorum Pontificum. Nel giro di pochi mesi, il Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti ha scritto al card. Vincent Gerard Nichols, Arcivescovo metropolita di Westminster [Primate d’Inghilterra e Galles e Presidente della Conferenza Episcopale di Inghilterra e Galles: N.d.T.], condannando l’interpretazione della Latin Mass Society in quanto in contrasto con le intenzioni del Papa.

Ora, questo potrebbe sembrare tutto molto bello, buono e coerente. Ma c’è solo un piccolo problema. Nel 2007 il Vescovo di Leeds era mons. Arthur Roche. Nel 2021 il Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti era lo stesso card. Arthur Roche. Pochi saranno sorpresi da questo doppio standard, ma la questione è ancora più complessa.

Come ha recentemente analizzato il canonista J.D. Flynn sul sito The Pillar, Arthur Roche – ora cardinale – ha contattato almeno un Vescovo per insistere sul fatto che la dispensa delle parrocchie dal motu proprio Traditionis Custodes sia riservata alla Santa Sede, nonostante tale affermazione non sia contenuta nel motu proprio e nonostante il fatto che, secondo il diritto canonico, i Vescovi abbiano tale potere di dispensa a meno che la legge che regola una particolare materia non affermi esplicitamente il contrario.

Da qualsiasi punto di vista, questo è un problema serio. Come i fatti passati dimostrano chiaramente, ci sono solo due possibilità. O il card. Arthur Roche non può in alcun modo o forma essere considerato in grado di comprendere accuratamente un documento legale della Chiesa o le intenzioni di un Papa, oppure ha deliberatamente minato la legge di un Papa per limitare la Santa Messa tridentina e ora insiste sulla ferma adesione alla legge di un altro Papa per raggiungere lo stesso scopo.

Un problema ancora più grave (che ho analizzato a lungo in un articolo per la rivista mensile Inside the Vatican dello scorso anno) è che il card. Arthur Roche ha esplicitamente sostenuto che il Messale di San Paolo VI è basato su una teologia incompatibile con quella della Santa Messa tridentina – ha sostenuto, in altre parole, l’«ermeneutica della rottura». Su questa base egli ritiene che «accettare il Concilio Vaticano II e il Messale di San Paolo VI» significhi favorire l’eliminazione della Santa Messa tridentina.

Un’implicazione è ovvia. La maggior parte dei Cattolici che partecipano alla Santa Messa tridentina accettano entrambi i punti fondamentali richiesti dalla teologia della Chiesa:

  1. che il Messale di San Paolo VI è un rito autentico e legittimo della Chiesa e che sia esso che la richiesta del Concilio Vaticano II di modifiche alla disciplina liturgica sono in accordo con la dottrina cattolica;
  2. che si trattava di decisioni puramente disciplinari, in nessun modo richieste dalla teologia cattolica, giustificabili solo sulla base della prudenza pastorale e, in linea di principio, soggette a completa inversione.

Secondo la logica del card. Arthur Roche, tali Cattolici «rifiutano il Messale di San Paolo VI» e devono essere privati del permesso di usare la Santa Messa tridentina, o essere autorizzati ad averla solo mentre vengono «catechizzati» a preferire la Messa di San Paolo VI (il che è assurdo come «catechizzare» un Domenicano a preferire la spiritualità dei Francescani o un Gesuita a preferire quella dei Benedettini). Lo stesso pensiero spiega perché la sua risposta del dicembre 2021 ai dubia contraddice il canone 212 c.d.c., insistendo sul fatto che gli uomini ordinati al sacerdozio dopo l’emanazione del motu proprio Traditionis Custodes devono impegnarsi attivamente nella legislazione di papa Francesco piuttosto che mantenere il loro diritto di favorire l’inversione.

È ora di ammettere che i doppi standard in materia di obbedienza e la fede nell’ermeneutica della rottura sono stati prominenti nella storia della «riforma» liturgica. All’inizio del XX secolo sono state introdotte senza autorizzazione la Messa dialogata (in cui è l’assemblea a dare le risposte), l’uso delle lingue vernacolari e la Messa rivolta al popolo. All’epoca mons. Conrad Grober, Arcivescovo di Friburgo, avvertì che chi introduceva la Messa dialogata non voleva solo la libertà per i Cattolici che pregano meglio in quel modo, ma cercava di imporla.

Negli anni Cinquanta, il card. Annibale Bugnini C.M. nascondeva a Roma gli abusi liturgici in modo che potessero essere diffusi e infine sanzionati. Meno di due decenni dopo, ottenne la sanzione e impose la conformità. I lettori potrebbero conoscere il resoconto di padre Louis Bouyer su come San Paolo VI e i membri della Consiglio per l’attuazione della Costituzione sulla Sacra Liturgia fossero uniti nell’opposizione ad alcune delle proposte del card. Bugnini. E di come il card. Bugnini le abbia fatte passare dicendo al Papa che erano ciò che voleva la Commissione, mentre ai membri del Consiglio diceva che erano ciò che voleva il Papa.

Meno noto è il fatto che San Paolo VI insistette che la sua riforma liturgica era puramente disciplinare e motivata da considerazioni pastorali, pur basandosi sulla stessa teologia della Santa Messa tridentina. Ma lo stesso card. Annibale Bugnini intendeva cambiare la teologia in una «ermeneutica della rottura».

Due punti devono essere analizzati seriamente dai teologi morali e dai canonisti:

  1. cosa si può fare – e quale disobbedienza è giustificata – di fronte a superiori che agiscono in modo disobbediente e senza legge fino a quando non possono usare la legge e l’obbedienza per servire il loro programma?
  2. perché una legge sia vincolante, deve essere razionale e giusta. Ma qualcosa che si fonda e intende far rispettare l’ermeneutica della rottura ha evidentemente uno scopo ingiusto e irrazionale. Quale obbedienza è dovuta in tali circostanze?

5 commenti:

  1. Ma che bel campione di pastore, con l'innegabile proposito di operare sempre e comunque per il bene delle anime a lui affidate!

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    1. Un cardinale che non casca nelle trappole dei tradizionalisti vittimisti.
      Un grande uomo.

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  2. È una guerra contro Dio. Tranquilli, non prævalebunt.

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  3. LASCIATELI DIRE, TANTO LA GENTE NON LI SEGUE PIU'.

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