La foto (da qui) è quella dell'oratorio di S. Antonio abate alla marina, dove si celebra ora la S. Messa tradizionale ogni domenica e feste di precetto alle ore 9:45.
Roberto
Spett. Redazione,
ringrazio in primo luogo per la pubblicazione dell'articolo sulle vicissitudini, antiche e recenti, della S. Messa tradizionale a Genova, nonostante la sua lunghezza e tanto più ora che, dal commento introduttivo, apprendo delle Vs. forti riserve di opportunità su alcuni contenuti. Mi spiace che non mi siano state manifestate nei giorni scorsi: sarei stato ben lieto di spiegarmi meglio o di modificare il testo, così evitando oltretutto al lettore il disagio di saltare da una
pagina all'altra in cerca delle rispettive precisazioni (lo dico anche per le obiezioni su numero di protocollo e modifica al n. 2 del decreto, anticipatemi con una cortesia molto apprezzata, ma quando – mi è stato detto – l'articolo non era più modificabile).Comincio dal secondo dei punti
critici: il numero di protocollo che, osserva il commento introduttivo, in
realtà era presente nel testo del decreto come da Voi pubblicato il 2 dicembre.
Giusto, mi scuso per l'errore.
Perché mi sono
soffermato sul numero di protocollo? Perché dovevo pur spiegare al lettore la
stranezza, obiettiva, di un testo già firmato eppure ancora aperto a modifiche.
In diritto italiano, questo non sarebbe possibile; lo è in diritto canonico,
perché la firma non è il momento terminale della formazione dell'atto, lo è la
sua promulgazione o comunicazione ufficiale. Ciò vale per la legge, tant'è vero
che proprio
il “Summorum Pontificum” è
uscito sugli “Acta Apostolicae Sedis” in una versione ritoccata
rispetto a quella inizialmente diffusa dalla Sala Stampa vaticana, e vale per i
decreti singolari, che acquistano efficacia giuridica solo nel momento in cui
vengono “intimati” ai destinatari (cfr. can. 54). La forma normale di
intimazione è la consegna del documento scritto (can. 55) o, più spesso, la sua
trasmissione
per posta; di qui l'importanza del protocollo, da intendersi come
protocollo in uscita, che quindi dovrebbe dare atto che il documento,
essendo stato avviato alla spedizione, si considera ormai definitivo.
Come
giustamente mi avete fatto notare, però, il numero di protocollo era presente
già nel primo testo, sicché ci troviamo di fronte a qualcosa che normalmente
non sarebbe possibile: due versioni diverse di uno stesso decreto, entrambe
firmate, con lo stesso numero di protocollo. Potrebbe, a questo punto, essere
il protocollo della pratica (anche se non credo); ma c'è un'altra
spiegazione. Nel nostro caso, come spesso avviene con i gruppi numerosi, il
contenuto essenziale del provvedimento arcivescovile - nuova sede, frequenza
delle celebrazioni, nome del delegato – è stato annunciato pubblicamente, a
voce, da S.E. il Vescovo Ausiliare, Mons. Anselmi. Una forma simile di
intimazione è prevista dal can. 55,[1]
sicché la protocollazione potrebbe a buon diritto essersi riferita alla data
dell'annuncio e ad un sunto del suo contenuto, p.es. quello diffuso sulla
pagina web della Cancelleria il 30
novembre. Il tutto in attesa che terminasse il processo di elaborazione del
testo complessivo (decreto + regolamento)... e fermo che le decisioni ulteriori
avrebbero richiesto un'intimazione a sé stante, sempre ai sensi del can. 54.
Non è comunque
per via del numero di protocollo che ho affermato – e confermo – che quello
pubblicato non era “il testo definitivo e ufficiale”, ma per il semplice
motivo che all'incontro ci è stato presentato come aperto a modifiche, che
infatti sono state suggerite e concordate in quella sede.[2]
Né il mio rilievo voleva essere un appunto alla Redazione, che non poteva certo
saperlo alle 20:00 del 2; semmai, questo sì, un rimprovero alla fonte, cui
invece doveva essere nota, o lo sarebbe stata facilmente, almeno la convocazione
dell'incontro. Infatti, nel tentativo di tenere informati i fedeli sugli
sviluppi della situazione, è stata creata una chat WhatsApp dedicata che, in
quei giorni, contava venticinque membri: lì ho dato notizia dell'incontro –
arrivata con poco preavviso – alle 14:59 dell'1. Le reazioni sono state
tranquille, ma non dubito che la notizia abbia girato anche fuori della chat: a
quel punto, il semplice buon senso avrebbe dovuto suggerir di attenderne
l'esito. A maggior ragione visto che già due volte erano state diffuse
informazioni non veritiere e distorte, riguardanti l'Oratorio prescelto come
nuova sede delle celebrazioni.
Mi spiego
meglio: da qualche tempo, sul blog di Aldo Maria Valli, un tal “Romano Curiale”
ha intrapreso una sorta di campagna di stampa assai critica nei confronti
dell'Arcivescovo di Genova e del suo Ausiliare, soprattutto per asserita
cattiva gestione dei beni ecclesiastici; e fin qui, pace. Senonché, il 18
novembre egli ha concluso l'ormai consueto articolo
con un'ultima frecciata “che tanto si è adoperato a relegare i fedeli della
Messa tradizionale in un oratorio in disuso e pericolante, insufficiente per il
loro numero”; ha poi rincarato parecchio la dose proprio
l'1, arrivando a parlare di “un oratorio sbrecciato, pericolante, orari
d’accesso limitati e sotto custodia di un secondino che apre e chiude la porta”.
Sono il primo a dire che eravamo un po' tutti preoccupati che l'Oratorio di S.
Antonio Abate potesse rivelarsi troppo piccolo; quanto però alle sue condizioni
strutturali, se in effetti era corsa qualche voce allarmata nei primi giorni
dopo l'annuncio di Mons. Anselmi, dal 16 novembre in poi abbiamo potuto
vederlo, appurare che le cose stavano ben altrimenti e rassicurare i fedeli.
Invito il lettore a confrontare l'immagine mentale che le frasi citate evocano
con le illustrazioni di Wikipedia
o, se preferisce, le recensioni di TripAdvisor:
al massimo, si può dire che all'esterno servirebbe qualche ritocco a intonaco e
vernice... ma ciascuno può valutare da sé il grado di accuratezza e di
attendibilità dell'articolo al riguardo.
L'incontro si
è regolarmente svolto nel pomeriggio del 2, presenti, oltre al sottoscritto e
al Segretario Dott. Andrea Gaggioli per il coetus, Mons. Anselmi, il
Cancelliere Mons. De Santi, il Parroco del luogo Ab. don Carlo Parodi, con due
collaboratori, e il Priore della Confraternita... che, sia detto per inciso,
non era per nulla contento di come l'articolo, di cui ovviamente ci considerava
gli ispiratori, dipingeva sia l'Oratorio sia lui e i suoi. A riunione
terminata, ci siamo trattenuti a parlare con lui nel tentativo di ricucire, poi
c'è stato uno scambio di messaggi WhatsApp con Mons. Anselmi su cui tornerò tra
poco; alle 18:59, dunque un'ora prima che apparisse l'articolo di MiL, ho
riferito in chat di gruppo, scrivendo in particolare che, “per come siamo
rimasti, dovrebbe sparire il riferimento ad un contributo pecuniario fisso alle
spese – che saranno sostenute, in linea di principio, dalla Confraternita –
perché ci siamo accordati per un 'contribuire in modo congruo', definito di
comune accordo con la Confraternita stessa, formula che ci consentirà anche
l'apporto in natura, per così dire (secondo i casi, collaborare alle pulizie,
fornire ostie e vino...).”. Che è poi quanto ritroviamo nel testo
modificato e quanto, da allora, abbiamo regolarmente fatto, senza problemi.
Per quanto
riguarda, invece, la modifica in peius notata dalla Redazione, debbo
osservare che non si tratta di una novità: il divieto delle funzioni
parrocchiali recensite al can. 530 corrisponde, infatti, a quello di Battesimi,
Cresime, Matrimoni e funerali che, nella versione anteriore, compariva al punto
2 del regolamento. La modifica è frutto del già accennato scambio di messaggi
tra me e Mons. Anselmi, intercorso tra le 17:12 e le 17:22; credo che abbia, se
non altro, il pregio di evitare l'impressione che il compimento di tali atti di
culto secondo l'usus antiquior sia vietato di per sé.
Con questo,
penso di aver anche già spiegato il perché della nostra reazione alla comparsa,
per noi del tutto inattesa, dell'articolo delle 20:00 su MiL (come pure alle
polemiche sui social che ne sono scaturite nei giorni seguenti, cui
ovviamente il blog in quanto tale è del tutto estraneo). La Redazione, o almeno
le sue fonti, sembrano convinte che esso sia stato determinante per far
cambiare il testo del regolamento sull'entità del contributo economico; ora,
può darsi che le fonti abbiano captato qualcosa di discussioni successive, in
Curia, e che in esse si sia parlato anche dell'articolo.. ma tenderei ad
escludere un suo particolare impatto, per il semplice motivo che, quando il
Dott. Gaggioli, preoccupato per più ragioni, ha menzionato gli articoli di
Valli, la reazione è stata quasi divertita, con una nota di compatimento
all'indirizzo dell'articolista.
In ogni caso,
la modifica in merito al contributo economico era già decisa... e qui mi
permettano le signore fonti: o hanno motivo di pensare che la disponibilità
manifestataci fosse simulata oppure mi stanno dando del bugiardo sulla
ricostruzione dei fatti. La prima, transeat; la seconda no.
Un'ultima
osservazione, in replica al rilievo secondo cui la previsione di un contributo
del genere sarebbe discriminatoria rispetto ai fedeli della forma ordinaria.
Si tratta di un punto di vista che capisco, ma che non ritengo condivisibile:
la discriminazione consiste nel trattare in modo diverso situazioni eguali; e
queste non lo sono. Il fedele che frequenta una parrocchia, o un luogo di culto
regolarmente officiato secondo il Novus Ordo, senza dubbio non si vede
chiedere nulla a parte l'offerta della questua, che resta libero di non dare; e
già qui potrei osservare che ciò resta vero anche per noi, nessuno si trova un
esattore alle costole se non versa nulla all'Offertorio e non c'è neanche un
sistema di tassazione individuale extra Missam. Ma soprattutto, il
fedele Novus prende il prodotto che gli offrono, si trova in una
posizione che definirei da “consumatore di servizi religiosi”; invece, sebbene
la maggior parte dei frequentanti le celebrazioni tradizionali si comporti in
modo analogo, i coetus nel loro complesso – e dunque almeno alcuni dei
loro componenti – debbono fungere innanzitutto da “organizzatori di servizi
religiosi”. Ciò innanzitutto perché le chiese sono, entro certi limiti,
officiate a prescindere dalla frequenza, ma il servizio liturgico per i coetus
deve essere organizzato ad hoc... e, quasi sempre, solo chi ne vuole
usufruire sa qualcosa di come organizzarlo. La Liturgia tradizionale è
sopravvissuta anche e soprattutto perché tanti fedeli che l'amavano si sono
fatti carico delle incombenze anche più umili, dal pulire i pavimenti al
comprare i fiori; altri hanno salvato (quando hanno potuto...) paramenti,
suppellettili, Messali e quel che si è potuto racimolare; talvolta qualcuno ha
messo a disposizione una cappella, talaltra uno spazio che è stato attrezzato
per quell'uso. E se il “Summorum Pontificum” ci ha insegnato qualcosa,
io credo che sia proprio l'insostituibilità del ruolo dei laici: la Messa ha
attecchito e dato frutti dove c'era un gruppo di laici motivato ed organizzato,
anche in termini logistici. A mio avviso sarebbe scorretto vedere tutto questo
come un ripiego, una forma di supplenza alla pur dolorosa indisponibilità del
clero: se amiamo la Liturgia, se la Liturgia riguarda tutti noi, allora
organizzarla non può essere affare del solo prete e nemmeno della parrocchia
considerata solo come ente, bisogna semmai recuperare lo spirito di quando i
fedeli portavano all'altare, in dono, la materia stessa del Sacramento.
Del resto, se
parliamo di offerte, vorrei notare che vi è un'altra differenza rispetto al
fedele Novus: i soldi della questua lì vanno, per l'appunto, alla
parrocchia o alla chiesa dove si officia, ma nel nostro caso sono autogestiti.
E ciò proprio in riconoscimento della specifica destinazione d'uso a quelle
celebrazioni, quelle necessità, che si può ben presumere nell'animo
degli offerenti. Nello stesso tempo, però, se dall'uso di un bene altrui – in
sé concesso a titolo gratuito, come ben specifica il regolamento – si ritrae un
vantaggio, evitare che il proprietario ne patisca danno costituisce dovere di
stretta giustizia, anche in ambito canonico; donde una previsione che, a ben
vedere, ha carattere indennitario. Il paragone migliore, a questo proposito,
andrebbe casomai istituito non con i semplici frequentatori di una parrocchia,
ma con i molti gruppi particolari che usano la sacrestia o la stessa chiesa per
l'attività loro propria: è perfettamente normale ed usuale che passino alla
parrocchia un tot per avere, se non altro, tenuto le luci accese.
Non c'è dubbio
che, rispetto alla precedente, felice integrazione nella vita parrocchiale,
questa svolta sia triste per molti versi. Ma il problema sta semmai a monte,
nel m.p. “Traditionis custodes”... per non parlare della morte di don
Romeo, che senza dubbio ha cambiato in peggio situazione e prospettive per il coetus
genovese.
Genova, li 24
dicembre 2022
Guido
Ferro Canale
Associazione
“S. Alberto Magno O.P.”
[1] Se si vuol essere precisi, il decreto non è
stato “letto”, come vorrebbe il can. 55, ma ci è stato soltanto spiegato il
contenuto essenziale; ma, per quanto sia obbligatorio l'impiego della forma
scritta (cfr. cann. 37 e 51), di per sé l'atto amministrativo orale è
perfettamente valido, perfino quando si tratti di una nomina.
A fortiori, dunque, un annuncio a voce di qualcosa che in sostanza
corrisponde al contenuto del documento.
[2] Per chiarire: il testo presentato – comunque
diverso dalla bozza poi pubblicata su MiL, perché era stato già cambiato il
punto 9 del regolamento, eliminando la possibilità di disdetta ivi prevista –
era ovviamente “ufficiale” nel senso che proveniva dall'autorità, ma
altrettanto ovviamente non “definitivo”, appunto perché aperto a modifiche, e
in questo senso non poteva ancora considerarsi un provvedimento, pur avendone
l'aspetto.
Senza entrare nel merito ammiro la signorilità è la moderazione nei toni. Si possono avere idee ed esprimere valutazioni divergenti senza astio e senza offese.
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