«Dixit itaque ei Pilatus: “Ergo rex es tu?”. Respondit Iesus: “Tu dicis quia rex sum”». «Allora Pilato gli disse: “Dunque tu sei re?”. Rispose Gesù: “Tu lo dici: io sono re”» (Gv. 18, 37). Gesù non rifiuta la regalità, non si schermisce, non teme il peso delle parole, non si sottrae all’«investitura», non insegna quella «falsa modestia», quella contraffazione dell’umiltà con le quali si evitano gli onori per non portarne gli oneri, o si professa un egualitarismo tanto infondato quanto solo ostentato.
Egli si
dichiara, come uomo e come Dio, come uomo-Dio, «Re dell’universo». «Bestemmia»,
per il Sinedrio, perché si fa Dio; ma «bestemmia» anche per noi uomini d’oggi,
così idolatri di libertà ed uguaglianza, perché si costituisce in autorità, perché
pretende di «comandare». La sua regalità non può, infatti, essere quella di un
moderno «re costituzionale», che regna ma non governa. Essa o è effettiva o non
è. Può essere solo un’autentica sovranità: Gesù dichiara di essere il Signore.
L’unico ed il solo: risponde al rappresentante del più potente sovrano, in quei
luoghi ed in quei tempi, e mite, ma fermo, si proclama Re, dicendogli «tu
stesso mi riconosci come Re», cioè «anche quel potere temporale che tu
rappresenti mi è soggetto». Egli è davvero Dominus
Iesus, il Signore Gesù.
E non
si accontenta di dirsi re. Spiega anche che il suo Regno non è un banale regno
temporale – in questo senso, Gesù non si dichiara monarchico, la Sua è la
regalità di assoluta eminenza, ed usa per descriverla il termine all’epoca più
comprensibile –, destinato a sorgere ed a tramontare, ad avere un inizio ed una
fine, un regno per alcuni, ma non per tutti. Subito dopo essersi dichiarato Re,
dice: «Ego in hoc natus sum et ad hoc
veni in mundum, ut testimonium perhibeam veritati», «Per questo io sono
nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità»
(Gv. 18, 37). Gesù è Re per la Verità
e di Verità, è egli stesso la Verità
che in Lui si rivela. E poiché la Verità è una, è di sempre, ed è per tutti,
Gesù è unico come Re, è per sempre Re, è per tutti Re.
Credo
che nulla scandalizzi l’uomo moderno quanto questa affermazione, senza la quale
però la fede cristiana è svuotata della sua essenza. Perché essa è la fede in
quella persona che si è detta Re di verità e per la verità, e non prendere sul
serio Gesù su questo punto significa semplicemente non prenderlo sul serio. Tutto
quel che ha detto e che ha fatto è fondato sulla dichiarazione di essere il Signore, non uno dei tanti. E l’uomo
d’oggi – tanto «modesto» da dirsi non all’altezza della verità – tutto può
sopportare, tranne l’affermazione che la verità esiste, e che in qualche modo è
conoscibile; di più, che c’è chi la può insegnare con autorità e che ne ha
istituito la Cattedra. E purtroppo sembra che di questa pretesa di verità,
anche molti che dovrebbero professarla, si vergognino.
Ma
forse v’è un’altra affermazione, implicita in questo dirsi Re da parte di Gesù,
che suona ancora più scandalosa. L’enciclica di Papa Pio XI Quas primas[1], che
istituì la solennità liturgica di Cristo Re[2], insegna
chiaramente che Gesù non può essere Re soltanto dei singoli, non può regnare
solo sui cuori degli uomini, ma che regna anche sulla società, in quanto non «v’è differenza fra gli individui e il
consorzio domestico e civile, poiché gli uomini, uniti in società, non sono
meno sotto la potestà di Cristo di quello che lo siano gli uomini singoli.
[…] Non rifiutino, dunque, i capi delle
nazioni di prestare pubblica testimonianza di riverenza e di obbedienza
all’impero di Cristo coi loro popoli». E perciò condanna «la peste dell’età nostra […] il così detto “laicismo”», che «negò alla Chiesa il diritto – che
scaturisce dal diritto di Gesù Cristo – di ammaestrare […] le genti, di dar leggi, di governare i
popoli per condurli alla eterna felicità»[3].
Ecco,
questo aspetto della regalità – che, repetita
iuvant, è naturalmente intesa come titolo di «eccellenza», nulla ha a che
vedere con l’istituto monarchico storicamente determinato, per quanto esso sia
altamente rispettabile – che il Signore Gesù rivendica sul mondo è probabilmente
ancora più scandaloso: la sua dimensione pubblica, la regalità sociale, appare
inaccettabile a chi pensa che la fede sia, tutt’al più, un affare privato. Ma
piaccia o non, il Regno del Signore non può avere limiti; ed è un Regno esigente.
Forse
perciò lo coronarono di spine. Questa risposta derisoria alla dichiarazione d’essere
Re da parte di Gesù è monito perenne per ogni cristiano. Se è vero che molti lo
hanno seguito, lo seguono e lo seguiranno, è anche vero che nella storia
agirono, agiscono ed agiranno quelli che il papa santo, Giovanni Paolo II, ha
definito il «fronte anti-evangelizzatore»[4]
costituito dai nemici di Dio, che nella storia incessantemente ripetono «Nolumus hunc regnare super nos», «Non
vogliamo che costui venga a regnare su di noi» (Lc. 19, 14).
La
regalità di Cristo, perciò, oltre che una consolante realtà, è anche una
missione: va promossa e difesa, nei nostri cuori, ma anche nella società,
perché sia riconosciuta. Ed in una società in cui domina il rifiuto di essa,
purtroppo anche tra tanti buoni fedeli[5], chi
se ne fa volontariamente suddito ha un compito preciso[6]. Oggi
si chiama Nuova Evangelizzazione, cioè non un «nuovo» annuncio, ma «di nuovo»
l’annuncio del Vangelo di sempre. Perché siano ri-evangelizzati non solo i
cuori, ma anche i popoli, le nazioni, le culture, l’intera civiltà, e sia
restaurato dal basso il Regno sociale di Gesù Cristo.
A
tale missione non è dato di obiettare che ad un re detronizzato non è dovuta
obbedienza più di quanto se ne debba ad una legge abrogata. Neppure essa può
essere ridotta ad operazione nostalgica, sorta di legittimismo anti-storico,
che si proponga di restituire il trono ad una dinastia che ne sia stata
ingiustamente privata. La cristianità non può essere dichiarata definitivamente
perduta, e la rinuncia al Regno sociale di Cristo, seppure provenga da
ecclesiastici altolocati, talvolta molto altolocati,
è nulla per definizione.
Infatti,
la regalità sociale di Cristo non è un fatto del passato, per quanto sia vero
che oggidì ad essa non già è negata l’obbedienza dovuta, ma persino l’esistenza
stessa e la sua necessità per la città dell’uomo, che attraversa l’intera
storia e che talvolta neanche i credenti riconoscono.
La
regalità anche sociale di Cristo è una realtà sempre attuale, è un fatto, sottratto alle mutevoli vicende
della storia. Essa è. Ma agli uomini
è data la tragica scelta di negarla, di sfuggirle, di non rispettarla, anziché
sottomettersi docilmente ad essa, tanto quanto possibile post peccatum, possibilità
cui tuttavia mai manca il sostegno della grazia, che non viene negata a
nessuno, persino a chi non la chieda. Scelta tragica, perché non priva di
conseguenze, sebbene «rispettata» dal Re, che attende la fine del tempo per
separare la zizzania dal grano (cfr. Mt., 13, 24-30 e 37-42).
Ma
intanto, il mondo che si allontana progressivamente[7] da
quella storica incarnazione della regalità sociale di Cristo che è stata la
civiltà cristiana, la cristianità detta medievale, il mondo «moderno», cioè teofobico
e integralmente secolarizzato, diventa sempre più inabitabile, e non solo per i
buoni perseguitati.
«Il
mondo moderno non sarà castigato. È il castigo»[8].
Chi costruisce la città senza Dio, la costruisce contro l’uomo[9],
e realizza un inferno storico. È difficile definire diversamente i regimi
totalitari del secolo del male[10],
così com’è impossibile dire altro del tempo nostro, che con Dio e la regalità
di Cristo nega di conseguenza la stessa natura umana, la realtà sessuata
dell’uomo e quindi il matrimonio la famiglia e la procreazione, legittimando –
anzi nobilitando – le peggiori turpitudini e nefandezze, fino a farle matrici
di coppia titolata persino alla filiazione a pagamento o per
adozione, nega il diritto della vita, e ne fa materiale da laboratorio, merce
in compravendita, come se ne fosse il padrone, si ottunde di droghe vegetali,
chimiche, acustiche e psicologiche, nega le più elementari libertà e il diritto
di proprietà.
Dunque, come insegna il giurista catalano Àlvaro d’Ors – uno dei
tanti maestri senza discepoli nel saeculum
–, «poiché […] Gesù Cristo è il “Re”, non
esiste nella storia altro potere originario, altra sovranità, se non quella di
Cristo. Tutti coloro che sono chiamati “sovrani”, nonostante la loro apparente
maestà, siano essi re autocratici o costituzionali, governi oligarchici o democratici,
non sono altro che delegati che devono comandare nel nome di Gesù Cristo e ai
quali bisogna obbedire per il seguente motivo: per la potestà che hanno
ricevuto da Lui»[11].
È il solo
criterio di legittimità d’ogni potere sovrano, d’ogni legge, d’ogni autorità,
d’ogni ordine civile. Se non c’è potestà che non sia delegata – il comando è
per definizione un mandato –, non c’è alcuna delega che in ultima analisi non
provenga da Dio (Rm., 13, 1), da Cristo Re: a Lui, perciò, ogni sovranità deve
rendere conto. Qui e ora, e di là.
«Non si può avere, dopo
«In ogni caso, gli atti concreti
della potestà non obbligano moralmente quando contraddicono quei precetti
morali», costitutivi
dell’ethos sociale, e che derivano
dal diritto naturale.
«
È
questo il senso proprio della Dottrina Sociale della Chiesa – da non confondere
con la pretesa d’una «dottrina socialista
della Chiesa», il cui centro sarebbero le questioni socio-economiche –, che è
il «programma» del Regno sociale di Cristo. Essa, perciò, non ha e non può
avere un orizzonte minore dell’instaurazione cristiana delle realtà temporali[13] –
cioè del rispetto sociale nel tempo storico del primo comandamento –, non
imposta, ma riconosciuta anche come via storica di salvezza, e pertanto, ancora
una volta, non calata dall’alto con la forza, ma scaturente organicamente dal
basso.
E
torniamo così alla missione, e alla Nuova Evangelizzazione.
Giovanni Formicola
[1] Cfr., Pio XI (1922-1939),
Lettera Enciclica Quas primas sulla
regalità di Cristo, 11 dicembre 1925.
[2] «La
celebrazione di questa festa, che si rinnova ogni anno, sarà anche
d’ammonimento per le nazioni che il dovere di venerare pubblicamente Cristo e
di prestargli obbedienza riguarda non solo i privati, ma anche i magistrati e i
governanti: […] richiedendo la sua regale dignità che la società intera si uniformi ai
divini comandamenti e ai principî cristiani, sia nello stabilire le leggi, sia
nell’amministrare la giustizia, sia finalmente nell’informare l’animo dei
giovani alla santa dottrina e alla santità dei costumi» (Ibidem).
[5] «Tale stato di cose va forse attribuito
all’apatia o alla timidezza dei buoni, i quali si astengono dalla lotta o
resistono fiaccamente; da ciò i nemici della Chiesa traggono maggiore temerità e
audacia» (Pio XI, Lett. Enc. Quas
primas, cit.).
[6] «Ma quando i fedeli tutti comprendano che
debbono militare con coraggio e sempre sotto le insegne di Cristo Re, con
ardore apostolico si studieranno di ricondurre a Dio i ribelli e gl’ignoranti,
e si sforzeranno di mantenere inviolati i diritti di Dio stesso» (Ibidem).
[8] Nicolás Gómez Dávila (1913-1994), Escolios a un texto implícito,
vol. II, Instituto Colombiano de Cultura, Santa Fe de Bogotá 1977, p. 344.
[9] «Un
mondo senza Dio si costruisce, presto o tardi, contro l’uomo» (San Giovanni Paolo II, Messaggio ai giovani di Francia, Parigi, 1 giugno 1980). Cfr.
anche: «Il
tentativo di plasmare le cose umane facendo completamente a meno di Dio ci conduce
sempre più sull’ orlo dell’abisso, verso l’accantonamento totale dell’uomo» (Joseph Ratzinger,
L’Europa di Benedetto nella crisi delle
culture, Cantagalli, Siena 2005, p. 62). La tesi viene successivamente così
articolata e argomentata, questa volta con l’autorità pontificia: «Chi esclude Dio dal suo orizzonte falsifica
il concetto di “realtà” e, in conseguenza, può finire solo in strade sbagliate
e con ricette distruttive. La prima affermazione fondamentale è, dunque, la
seguente: Solo chi riconosce Dio, conosce la realtà e può rispondere ad essa in
modo adeguato e realmente umano. La verità di questa tesi risulta evidente
davanti al fallimento di tutti i sistemi che mettono Dio tra parentesi» (Benedetto XVI [2005-2013], Discorso all’inaugurazione della V Conferenza
generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi, Aparecida 13 maggio
[10]
Cfr., Alain Besançon, Novecento. Il
secolo del male. Nazismo, comunismo, Shoah, trad. it., Lindau, Torino 2008.
[11] Álvaro d’Ors y Peréz-Peix (1915-2004), La violenza e l’ordine, Marco, Lungro di Cosenza [CS] 2003, p. 62.
[12] Ibid., pp. 142-143.
[13]
Cfr., Concilio Ecumenico Vaticano II, Decreto sull’apostolato dei laici Apostolicam actuositatem, 18 novembre
1965.