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martedì 1 novembre 2022

Giovanni Formicola "Cristo Re"

A ridosso della festa di Cristo Re, riceviamo e pubblichiamo da Giovanni Formicola una  riflessione sulla Regalità sociale di Cristo.
Viva Cristo Re!
Luigi

«Dixit itaque ei Pilatus: “Ergo rex es tu?”. Respondit Iesus: “Tu dicis quia rex sum”». «Allora Pilato gli disse: “Dunque tu sei re?”. Rispose Gesù: “Tu lo dici: io sono re”» (Gv. 18, 37). Gesù non rifiuta la regalità, non si schermisce, non teme il peso delle parole, non si sottrae all’«investitura», non insegna quella «falsa modestia», quella contraffazione dell’umiltà con le quali si evitano gli onori per non portarne gli oneri, o si professa un egualitarismo tanto infondato quanto solo ostentato.

Egli si dichiara, come uomo e come Dio, come uomo-Dio, «Re dell’universo». «Bestemmia», per il Sinedrio, perché si fa Dio; ma «bestemmia» anche per noi uomini d’oggi, così idolatri di libertà ed uguaglianza, perché si costituisce in autorità, perché pretende di «comandare». La sua regalità non può, infatti, essere quella di un moderno «re costituzionale», che regna ma non governa. Essa o è effettiva o non è. Può essere solo un’autentica sovranità: Gesù dichiara di essere il Signore. L’unico ed il solo: risponde al rappresentante del più potente sovrano, in quei luoghi ed in quei tempi, e mite, ma fermo, si proclama Re, dicendogli «tu stesso mi riconosci come Re», cioè «anche quel potere temporale che tu rappresenti mi è soggetto». Egli è davvero Dominus Iesus, il Signore Gesù.

E non si accontenta di dirsi re. Spiega anche che il suo Regno non è un banale regno temporale – in questo senso, Gesù non si dichiara monarchico, la Sua è la regalità di assoluta eminenza, ed usa per descriverla il termine all’epoca più comprensibile –, destinato a sorgere ed a tramontare, ad avere un inizio ed una fine, un regno per alcuni, ma non per tutti. Subito dopo essersi dichiarato Re, dice: «Ego in hoc natus sum et ad hoc veni in mundum, ut testimonium perhibeam veritati», «Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità» (Gv. 18, 37). Gesù è Re per la Verità e di Verità, è egli stesso la Verità che in Lui si rivela. E poiché la Verità è una, è di sempre, ed è per tutti, Gesù è unico come Re, è per sempre Re, è per tutti Re.

Credo che nulla scandalizzi l’uomo moderno quanto questa affermazione, senza la quale però la fede cristiana è svuotata della sua essenza. Perché essa è la fede in quella persona che si è detta Re di verità e per la verità, e non prendere sul serio Gesù su questo punto significa semplicemente non prenderlo sul serio. Tutto quel che ha detto e che ha fatto è fondato sulla dichiarazione di essere il Signore, non uno dei tanti. E l’uomo d’oggi – tanto «modesto» da dirsi non all’altezza della verità – tutto può sopportare, tranne l’affermazione che la verità esiste, e che in qualche modo è conoscibile; di più, che c’è chi la può insegnare con autorità e che ne ha istituito la Cattedra. E purtroppo sembra che di questa pretesa di verità, anche molti che dovrebbero professarla, si vergognino.

Ma forse v’è un’altra affermazione, implicita in questo dirsi Re da parte di Gesù, che suona ancora più scandalosa. L’enciclica di Papa Pio XI Quas primas[1], che istituì la solennità liturgica di Cristo Re[2], insegna chiaramente che Gesù non può essere Re soltanto dei singoli, non può regnare solo sui cuori degli uomini, ma che regna anche sulla società, in quanto non «v’è differenza fra gli individui e il consorzio domestico e civile, poiché gli uomini, uniti in società, non sono meno sotto la potestà di Cristo di quello che lo siano gli uomini singoli. […] Non rifiutino, dunque, i capi delle nazioni di prestare pubblica testimonianza di riverenza e di obbedienza all’impero di Cristo coi loro popoli». E perciò condanna «la peste dell’età nostra […] il così detto “laicismo”», che «negò alla Chiesa il diritto – che scaturisce dal diritto di Gesù Cristo – di ammaestrare […] le genti, di dar leggi, di governare i popoli per condurli alla eterna felicità»[3].

Ecco, questo aspetto della regalità – che, repetita iuvant, è naturalmente intesa come titolo di «eccellenza», nulla ha a che vedere con l’istituto monarchico storicamente determinato, per quanto esso sia altamente rispettabile – che il Signore Gesù rivendica sul mondo è probabilmente ancora più scandaloso: la sua dimensione pubblica, la regalità sociale, appare inaccettabile a chi pensa che la fede sia, tutt’al più, un affare privato. Ma piaccia o non, il Regno del Signore non può avere limiti; ed è un Regno esigente.

Forse perciò lo coronarono di spine. Questa risposta derisoria alla dichiarazione d’essere Re da parte di Gesù è monito perenne per ogni cristiano. Se è vero che molti lo hanno seguito, lo seguono e lo seguiranno, è anche vero che nella storia agirono, agiscono ed agiranno quelli che il papa santo, Giovanni Paolo II, ha definito il «fronte anti-evangelizzatore»[4] costituito dai nemici di Dio, che nella storia incessantemente ripetono «Nolumus hunc regnare super nos», «Non vogliamo che costui venga a regnare su di noi» (Lc. 19, 14).

La regalità di Cristo, perciò, oltre che una consolante realtà, è anche una missione: va promossa e difesa, nei nostri cuori, ma anche nella società, perché sia riconosciuta. Ed in una società in cui domina il rifiuto di essa, purtroppo anche tra tanti buoni fedeli[5], chi se ne fa volontariamente suddito ha un compito preciso[6]. Oggi si chiama Nuova Evangelizzazione, cioè non un «nuovo» annuncio, ma «di nuovo» l’annuncio del Vangelo di sempre. Perché siano ri-evangelizzati non solo i cuori, ma anche i popoli, le nazioni, le culture, l’intera civiltà, e sia restaurato dal basso il Regno sociale di Gesù Cristo.

A tale missione non è dato di obiettare che ad un re detronizzato non è dovuta obbedienza più di quanto se ne debba ad una legge abrogata. Neppure essa può essere ridotta ad operazione nostalgica, sorta di legittimismo anti-storico, che si proponga di restituire il trono ad una dinastia che ne sia stata ingiustamente privata. La cristianità non può essere dichiarata definitivamente perduta, e la rinuncia al Regno sociale di Cristo, seppure provenga da ecclesiastici altolocati, talvolta molto altolocati, è nulla per definizione.

Infatti, la regalità sociale di Cristo non è un fatto del passato, per quanto sia vero che oggidì ad essa non già è negata l’obbedienza dovuta, ma persino l’esistenza stessa e la sua necessità per la città dell’uomo, che attraversa l’intera storia e che talvolta neanche i credenti riconoscono.

La regalità anche sociale di Cristo è una realtà sempre attuale, è un fatto, sottratto alle mutevoli vicende della storia. Essa è. Ma agli uomini è data la tragica scelta di negarla, di sfuggirle, di non rispettarla, anziché sottomettersi docilmente ad essa, tanto quanto possibile post peccatum, possibilità cui tuttavia mai manca il sostegno della grazia, che non viene negata a nessuno, persino a chi non la chieda. Scelta tragica, perché non priva di conseguenze, sebbene «rispettata» dal Re, che attende la fine del tempo per separare la zizzania dal grano (cfr. Mt., 13, 24-30 e 37-42).

Ma intanto, il mondo che si allontana progressivamente[7] da quella storica incarnazione della regalità sociale di Cristo che è stata la civiltà cristiana, la cristianità detta medievale, il mondo «moderno», cioè teofobico e integralmente secolarizzato, diventa sempre più inabitabile, e non solo per i buoni perseguitati.

«Il mondo moderno non sarà castigato. È il castigo»[8].

Chi costruisce la città senza Dio, la costruisce contro l’uomo[9], e realizza un inferno storico. È difficile definire diversamente i regimi totalitari del secolo del male[10], così com’è impossibile dire altro del tempo nostro, che con Dio e la regalità di Cristo nega di conseguenza la stessa natura umana, la realtà sessuata dell’uomo e quindi il matrimonio la famiglia e la procreazione, legittimando – anzi nobilitando – le peggiori turpitudini e nefandezze, fino a farle matrici di coppia titolata persino alla filiazione a pagamento o per adozione, nega il diritto della vita, e ne fa materiale da laboratorio, merce in compravendita, come se ne fosse il padrone, si ottunde di droghe vegetali, chimiche, acustiche e psicologiche, nega le più elementari libertà e il diritto di proprietà.   

Dunque, come insegna il giurista catalano Àlvaro d’Ors – uno dei tanti maestri senza discepoli nel saeculum –, «poiché […] Gesù Cristo è il “Re”, non esiste nella storia altro potere originario, altra sovranità, se non quella di Cristo. Tutti coloro che sono chiamati “sovrani”, nonostante la loro apparente maestà, siano essi re autocratici o costituzionali, governi oligarchici o democratici, non sono altro che delegati che devono comandare nel nome di Gesù Cristo e ai quali bisogna obbedire per il seguente motivo: per la potestà che hanno ricevuto da Lui»[11].

È il solo criterio di legittimità d’ogni potere sovrano, d’ogni legge, d’ogni autorità, d’ogni ordine civile. Se non c’è potestà che non sia delegata – il comando è per definizione un mandato –, non c’è alcuna delega che in ultima analisi non provenga da Dio (Rm., 13, 1), da Cristo Re: a Lui, perciò, ogni sovranità deve rendere conto. Qui e ora, e di là.

«Non si può avere, dopo la Redenzione, una potestà legittima che non si riconosca come delegazione divina, di Cristo Re, a cui compete l’unica sovranità di questo mondo. […]

«In ogni caso, gli atti concreti della potestà non obbligano moralmente quando contraddicono quei precetti morali», costitutivi dell’ethos sociale, e che derivano dal diritto naturale.

«La Chiesa deve essere universalmente riconosciuta come interprete autentica del diritto naturale. Dalla sua autorità dipende l’obbligazione morale di obbedire al potere costituito»[12].

È questo il senso proprio della Dottrina Sociale della Chiesa – da non confondere con la pretesa d’una «dottrina socialista della Chiesa», il cui centro sarebbero le questioni socio-economiche –, che è il «programma» del Regno sociale di Cristo. Essa, perciò, non ha e non può avere un orizzonte minore dell’instaurazione cristiana delle realtà temporali[13] – cioè del rispetto sociale nel tempo storico del primo comandamento –, non imposta, ma riconosciuta anche come via storica di salvezza, e pertanto, ancora una volta, non calata dall’alto con la forza, ma scaturente organicamente dal basso.

E torniamo così alla missione, e alla Nuova Evangelizzazione.

Giovanni Formicola



[1] Cfr., Pio XI (1922-1939), Lettera Enciclica Quas primas sulla regalità di Cristo, 11 dicembre 1925.

[2] «La celebrazione di questa festa, che si rinnova ogni anno, sarà anche d’ammonimento per le nazioni che il dovere di venerare pubblicamente Cristo e di prestargli obbedienza riguarda non solo i privati, ma anche i magistrati e i governanti: […] richiedendo la sua regale dignità che la società intera si uniformi ai divini comandamenti e ai principî cristiani, sia nello stabilire le leggi, sia nell’amministrare la giustizia, sia finalmente nell’informare l’animo dei giovani alla santa dottrina e alla santità dei costumi» (Ibidem).

 [3] Ibidem.

[4] «Non sarà forse esagerato, se diremo che su questo terreno [vita, matrimonio e famiglia, ndr] si concentra, in modo particolare, il fronte “anti-evangelizzatore”, il quale dispone di una specifica argomentazione e, inoltre, di molteplici “mezzi”» (San Giovanni Paolo II [1978-2005], Discorso ai partecipanti alla IX Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per la Famiglia, 4 ottobre 1991).

[5] «Tale stato di cose va forse attribuito all’apatia o alla timidezza dei buoni, i quali si astengono dalla lotta o resistono fiaccamente; da ciò i nemici della Chiesa traggono maggiore temerità e audacia» (Pio XI, Lett. Enc. Quas primas, cit.).

[6] «Ma quando i fedeli tutti comprendano che debbono militare con coraggio e sempre sotto le insegne di Cristo Re, con ardore apostolico si studieranno di ricondurre a Dio i ribelli e gl’ignoranti, e si sforzeranno di mantenere inviolati i diritti di Dio stesso» (Ibidem).

[7] «Cristo sì, Chiesa no. Poi: Dio sì, Cristo no. Finalmente il grido empio: Dio è morto; anzi: Dio non è mai stato. Ed ecco il tentativo di edificare la struttura del mondo sopra fondamenti che Noi non esitiamo ad additare come principali responsabili della minaccia che incombe sulla umanità: un’economia senza Dio, un diritto senza Dio, una politica senza Dio. Il “nemico” si è adoperato e si adopera perché Cristo sia un estraneo nelle Università, nella scuola, nella famiglia, nell’amministrazione della giustizia, nell’attività legislativa, nel consesso delle nazioni, là ove si determina la pace o la guerra» (Pio XII [1939-1958], Discorso agli Uomini di Azione Cattolica, 12 ottobre 1952).

[8] Nicolás Gómez Dávila (1913-1994), Escolios a un texto implícito, vol. II, Instituto Colombiano de Cultura, Santa Fe de Bogotá 1977, p. 344.

[9] «Un mondo senza Dio si costruisce, presto o tardi, contro l’uomo» (San Giovanni Paolo II, Messaggio ai giovani di Francia, Parigi, 1 giugno 1980). Cfr. anche: «Il tentativo di plasmare le cose umane facendo completamente a meno di Dio ci conduce sempre più sull’ orlo dell’abisso, verso l’accantonamento totale dell’uomo» (Joseph Ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, Cantagalli, Siena 2005, p. 62). La tesi viene successivamente così articolata e argomentata, questa volta con l’autorità pontificia: «Chi esclude Dio dal suo orizzonte falsifica il concetto di “realtà” e, in conseguenza, può finire solo in strade sbagliate e con ricette distruttive. La prima affermazione fondamentale è, dunque, la seguente: Solo chi riconosce Dio, conosce la realtà e può rispondere ad essa in modo adeguato e realmente umano. La verità di questa tesi risulta evidente davanti al fallimento di tutti i sistemi che mettono Dio tra parentesi» (Benedetto XVI [2005-2013], Discorso all’inaugurazione della V Conferenza generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi, Aparecida 13 maggio 2007, in Supplemento a “L’Osservatore Romano” del 2 giugno 2007, p. 9). In questi pronunciamenti si sente l’eco di De Lubac (1896-1991): «Non è poi vero, come pare si voglia dire qualche volta, che l’uomo sia incapace di organizzare la terra senza Dio. Ma ciò che è vero è che, senza Dio, egli non può, alla fine dei conti, che organizzarla contro l’uomo». (Henry De Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo [Prima edizione Paris 1945], Morcelliana, Brescia 1988, p. 9).

[10] Cfr., Alain Besançon, Novecento. Il secolo del male. Nazismo, comunismo, Shoah, trad. it., Lindau, Torino 2008.

[11] Álvaro d’Ors y Peréz-Peix (1915-2004), La violenza e l’ordine, Marco, Lungro di Cosenza [CS] 2003, p. 62.

[12] Ibid., pp. 142-143.

[13] Cfr., Concilio Ecumenico Vaticano II, Decreto sull’apostolato dei laici Apostolicam actuositatem, 18 novembre 1965.