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giovedì 29 settembre 2022

Grazia Deledda e i sacri riti del Giovedì Santo. Echi tridentini raccontati da un premio Nobel

Per la nostra rubrica di riproposizione di echi tridentini, quest'oggi ricordiamo un'opera di Grazia Deledda, premo Nobel (si legge Nobèl) per la letteratura nel 1926.
Lo facciamo oggi, perchè Grazia Maria Cosima Damiana Deledda nacque il 28 settembre (1871): quindi pochi giorni fa ne ricorreva l'anniversario di nascita).
(NB: Eco tridentina nell'eco tridentina: i nomi Cosima e Damiana imposti alla scrittrice forse furono scelti perchè nel calendario tradizionale i santi medici cadevano il 27 settembre e probabilemtente "Vinceslaa" non piaceva ai genitori - il 28 settembre è S. Vinceslao).

L'opera che proponiamo e in cui riecheggiano riferimenti alla liturgia tridentina è La chiesa della solitudine (1936) ultimo suo romanzo. 
In particolare la scrittrice ci racconta il rito struggente del Giovedì Santo dell’antica tradizione del Triduo pasquale. 

Al termine della Messa del giovedì santo “In coena Domini”, il Santissimo Sacramento veniva traslato dal tabernacolo dell’altare maggiore a un altare laterale, nel buio completo animato solo dalla scarsa luce di torce e candele, al canto commosso dell’inno “Pange lingua gloriosi Corporis mysterium”. Poi il celebrante e i ministranti tornavano in sacrestia e deponevano i paramenti bianchi; celebrante e diacono indossavano una stola violacea e rientrati in chiesa procedevano alla spogliazione di tutti gli altari, escluso quello in cui era stato traslato il Santissimo. 
La cerimonia era sobria e rapida, tutte le suppellettili sacre venivano asportate (croci, reliquie, candelieri, tovaglie), le immagini e gli oggetti che non era possibile spostare venivano ricoperti da appositi drappi violacei. 
Intanto veniva recitato (non cantato) il terribile salmo 21: “Deus meus, Deus meus, quare me dereliquisti?”, preceduto e seguito dall’antifona “Dìvidunt sibi indumenta mea, et de veste mea mittunt sortem” [Dio mio, perché mi hai abbandonato? – Si dividono le mie vesti, e sulla mia tunica gettano la sorte]. 
Davanti all’altare del Santissimo, illuminato da candele grandi e piccole, i fedeli giungevano e in silenzio s’inginocchiavano nell’adorazione. 
Questo rito, che si protraeva fino a tarda notte, coi fedeli che si spostavano di chiesa in chiesa, era conosciuto come “visita ai Sepolcri”. 
Ai piedi dell’altare venivano deposti tutto intorno vasi, bacinelle, pentole con i fiori pallidi del grano o del granturco lasciati germogliare al buio, negli armadi, nei ripostigli di ogni casa, già da qualche mese, e ora portati a far compagnia, come uno spettrale, malinconico corteo, a Gesù agonizzante nell’orto del Getsemani, abbandonato anche dagli amici più cari, orante e supplicante nel sudore insanguinato.

Nella "chiesetta della solitudine", naturalmente, non c’è il Santissimo, né un celebrante fisso; ma la protagonista la prepara ugualmente, come può e come sa.  Qui per leggerlo. 

Roberto

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