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lunedì 23 maggio 2022

Mons. Aguer. Fatti e misfatti delle Conferenze episcopali. Libertà per i vescovi!


Sante parole. Grazie ad Aldo Maria Valli per la pubblicazione e la traduzione.
"Le autorità della Conferenza possono manifestare una psicologia di tipo stalinista, un’inclinazione dittatoriale. Un atteggiamento che lede e danneggia la necessaria libertà dei vescovi nel governo delle rispettive diocesi, poiché le autorità cercano di imporre un certo modo di agire che in qualche modo è riuscito a diventare ufficiale".
Luigi

30-4-22
di monsignor Héctor Aguer*

In altre occasioni ho criticato l’attuale centralizzazione dell’organizzazione ecclesiastica, il cui tassello fondamentale è la dirigenza locale delle Conferenze episcopali, le quali hanno assunto un ruolo politico a imitazione dei parlamenti secolari. Vi sono, in generale, una presidenza e due vicepresidenze, elette a maggioranza dei membri della Conferenza. Non ci sono partiti episcopali formalmente costituiti, ma non mancano gruppi che riuniscono coloro che condividono una certa ecclesiologia e la stessa opinione, sulle questioni intraecclesiali così come su quelle sociali e politiche del Paese legate alla morale cattolica e alla Dottrina sociale della Chiesa.
Questi parlamenti episcopali funzionano in modo analogo a quelli dell’ordine secolare: ci sono voci e voti (l’emerito può parlare ma non decide nulla), si chiede la parola, la si concede o meno a seconda dei casi, ci sono anche maggioranze e minoranze, eccetera. Siamo abituati a questa organizzazione.

Non solo i fedeli cattolici, ma tutti i cittadini – almeno quelli interessati all’eventuale potere e influenza della Chiesa – si informano, o meglio “disinformano”, grazie ad alcuni giornalisti che si dicono “specializzati in questioni religiose”. L’organizzazione favorisce al suo interno un certo tipo di esercizio dell’autorità. L’esperienza insegna che ci sono, ad esempio, funzionari (sappiamo tutti cosa significhi questo termine: tendenza a sostenere il governo) e non mancano vescovi a proposito dei quali si può pensare – lo dico con tutto il rispetto e la stima – che, per la loro semplicità e mancanza di un proprio pensiero chiaro e ampio, si inchinano all’ufficialità regnante. Voglio credere che ci siano anche quelli che apprezzano la loro libertà e cercano di conservarla ed esercitarla, pur senza stonare rispetto all’insieme, in cui si insiste solitamente sulla necessità dell’unità. L’accento sull’unità, tipico della narrazione episcopale, può essere messo con retta intenzione, senza pregiudizi, ma spesso l’idea di unità è usata per “correre nel sacco” e condizionare coloro che sono riluttanti a sostenere una certa posizione. Noi ecclesiastici – penso ai vescovi – siamo uomini, e ciascuno è un mondo in cui accanto ad autentiche virtù si intrecciano opinioni legittime, difetti (più o meno gravi), posizioni chiuse e ingiustificate. Ritengo che sia così che accade “ut in pluribus”; sicuramente tra i membri ci saranno dei santi e immagino quanto soffriranno! Possiamo essere tutti più o meno buoni, ma non è lo stesso che essere santi.

Uno degli scopi attribuiti all’azione delle Conferenze episcopali è garantire la pastoralità nella vita della Chiesa. In effetti, sono i problemi pastorali quelli solitamente discussi nelle assemblee plenarie.

Alla panoramica che ho presentato, posso aggiungere altre osservazioni critiche che provengono dalla mia riflessione sull’esperienza vissuta. Innanzitutto che cosa penso circa documenti e dichiarazioni. In generale, da ogni riunione plenaria della Conferenza episcopale sono attesi pronunciamenti; questo è ciò su cui speculano i giornalisti, a volte avvicinandosi a questo o quel prelato per ottenere dichiarazioni per la stampa, la radio o la televisione. L’elaborazione dei testi implica un processo piuttosto complesso. Pur senza affrontare il tema in dettaglio, dirò che alcuni di questi documenti sono considerati “sostanziali”, concepiti come un’eco del magistero universale o destinati a guidare la vita della Chiesa locale per un periodo di tempo considerevole. Normalmente, una commissione ad hoc prepara una bozza, ma non è facile modificare, se non si è d’accordo, la linea di argomentazione esposta dalla commissione. Le discussioni in aula hanno un valore relativo in ordine al risultato finale. Non desidero in alcun modo esprimere un parere negativo; le situazioni e le problematiche affrontate sono molto diverse.

Ora, mi scuso, devo affrontare una questione spiacevole. Le autorità della Conferenza possono manifestare una psicologia di tipo stalinista, un’inclinazione dittatoriale. Un atteggiamento che lede e danneggia la necessaria libertà dei vescovi nel governo delle rispettive diocesi, poiché le autorità cercano di imporre un certo modo di agire che in qualche modo è riuscito a diventare ufficiale. Un fenomeno collaterale, che ritengo della massima gravità, è il mormorio, tipico vizio clericale, che si esercita soprattutto nei “piccoli mondi”, in cui una persona piuttosto vigliacca può parlare tra i denti, e anche straparlare in modo sleale.

Alcune questioni dottrinali e pastorali sono della massima importanza e attualità nella Chiesa e fanno parte della responsabilità personale di ogni successore degli apostoli. Penso, ad esempio, alle norme liturgiche e alla formazione di nuovi sacerdoti. Su questo secondo punto sento di poter parlare con totale chiarezza e indipendenza: tanti anni fa ho avuto il compito di organizzare un seminario diocesano e poi di esserne il rettore per un decennio. Come arcivescovo, mi sono dedicato espressamente al mio seminario e a trattare con una cinquantina di giovani che in seguito ho ordinato sacerdoti. In questa materia, di capitale importanza per il futuro della Chiesa cattolica, l’”ufficialismo stalinista”, per quanto cerchi di mascherarsi, mi sembra assolutamente inaccettabile.

Il problema posto alla Chiesa da un organismo incentrato sulla Conferenza episcopale è reso più grave dal fatto che oltre alle Conferenze episcopali nazionali esistono anche le Conferenze episcopali regionali e continentali, tutte strutture politiche che moltiplicano le difficoltà già citate. Ricordiamo l’influenza esercitata da Medellin e Puebla.

Un esempio che, a mio avviso, dimostra quanto in là può spingersi una Conferenza episcopale è la deviazione dall’ortodossia dogmatica, morale e disciplinare della Conferenza episcopale tedesca. Molti di noi, sbalorditi, non capiamo perché Roma, la Santa Sede, non intervenga e continui a permettere una deplorevole confusione. Il mio pensiero va a tutti i sacerdoti e laici tedeschi che non sono d’accordo con il percorso aperto dai loro vertici e che sta precipitando verso lo scisma; infatti, a questo stadio delle cose si può parlare di una specie di scisma immanente, che non può che produrre frutti amari e perdizione.

Situazioni che una volta erano semplicemente inconcepibili si stanno ora moltiplicando in tutto il mondo. Le Conferenze episcopali – esagero un po’ perché si percepisca la gravità della questione – spesso reagiscono in ritardo e contrariamente a quanto sarebbe opportuno. Il caso di monsignor Daniel Fernández Torres, vescovo di Arecibo, è particolarmente triste; è stato rimosso, “cancellato”, perché è un eccellente vescovo e non ha voluto piegarsi a progetti insensati. Dov’è la Conferenza episcopale di Porto Rico, composta da sei o sette membri? Dov’è finita la fraternità episcopale? Peggio ancora, mi permetto di sospettare: non potrebbero essere stati proprio loro a recarsi dal delegato apostolico o direttamente a Roma? Avrebbero dovuto difendere e accompagnare il fratello, chiarendo in un dialogo fiducioso con lui se c’erano punti da discutere, e fungere da efficaci mediatori. I vescovi portoricani avrebbero dovuto chiedere al delegato apostolico perché era in corso la rimozione del vescovo Daniel e se avesse commesso qualche delitto. Invece, hanno solo emesso un comunicato in cui, dopo aver annunciato il suo licenziamento, hanno affermato che “per deferenza e rispetto dei processi canonici interni alla Chiesa, queste saranno le uniche espressioni ufficiali in merito”. In altre parole, non hanno detto nulla. Ma come? Quale processo canonico è stato seguito? Roma non dice nulla. Ma io protesto, e chiedo e suggerisco al clero e al popolo di Arecibo di andare dal delegato apostolico, per chiedere di restituire il vescovo alla comunità. Sebbene possa sembrare un po’ eccessiva, è la cosa giusta da fare. Perché chi tace acconsente. Il silenzio è consenso. Bisogna chiedere loro di dire la verità e di non ingannare il popolo cristiano.

Conosco molto bene monsignor Fernández Torres, il quale, tre anni fa, è stato così gentile di invitarmi a predicare gli esercizi spirituali per il suo clero, che i sacerdoti seguirono con grande attenzione e pietà. E ho potuto verificare che si tratta di una magnifica diocesi, con grande attività pastorale e fioritura di vocazioni. Il vescovo dimesso è un esempio della “cancellazione” che sta avvenendo nella Chiesa. Dopo la pubblicazione del mio articolo denuncia, A los sacerdotes “cancelados”, poco più di un mese fa, ho ricevuto numerose lettere, e-mail e messaggi di sacerdoti, da diverse parti del mondo, che soffrono la stessa situazione. Perché sono stati privati dei loro incarichi? Semplice: perché seguono la retta dottrina, perché sono buoni cattolici. E perché il progressismo regnante, l’ufficialismo progressista, è implacabile, e non tollera vescovi e sacerdoti che si lasciano guidare dalla grande Tradizione della Chiesa, come l’ha definita papa Benedetto XVI. Questo è il problema della “cancellazione”. Ti licenziano, senza troppi complimenti, e poi sono fatti tuoi. È commovente ascoltare e leggere le testimonianze di questi sacerdoti che devono andare a vivere con i loro genitori per avere un piatto di cibo e quelle cure e il sostegno che la gerarchia nega loro.

Un’altra vicenda che ho già affrontato più volte è la devastazione universale della sacra liturgia, contrariamente a quanto stabilito dal Concilio Vaticano II con lo scopo di un prudente aggiornamento [in italiano nell’originale, NdT]. In Argentina ci sono alcuni casi notevoli: qualche anno fa un vescovo celebrò Messa sulla spiaggia usando una tazza di mate come calice, e ho appena appreso di un altro fatto scandaloso: un sacerdote – del clero di una diocesi del centro del Paese – ha celebrato la Santa Messa vestito da pagliaccio. Quali altre sciocchezze possono essere consentite? Se il diocesano, che ne è il diretto responsabile, non ha reagito, la Conferenza episcopale, che ha una Commissione liturgia, sarebbe dovuta intervenire per rimproverare quel sacrilegio. Non è dignitoso tacere su un simile oltraggio.

Non mi è possibile prolungare questo scritto con un elenco di calamità ecclesiali che lasciano perplessi i fedeli e costituiscono un segno terribile per i giovani. Il santo padre ha recentemente affermato che noi vescovi dobbiamo condividere il nostro carisma con i laici. Ebbene, questi non devono soffrire nel silenzio e nell’immobilità oltraggi come quelli che ho descritto.

Le mie critiche all’organizzazione esistente richiedono che io proponga un’alternativa, che trovo nella grande Tradizione ecclesiale. Ho accennato alla necessaria libertà dei vescovi diocesani. Una posizione che non equivale all’anarchia e a un individualismo solipsistico in un Corpo la cui essenza è la comunione. La figura tradizionale è la Provincia ecclesiastica, presieduta dal metropolita (il pallio non è un mero ornamento); in essa si realizza e si può vivere un’autentica sinodalità, non metaforica o a parole, ma reale. Lo Spirito Santo e Gesù stesso – il quale ha assicurato di accompagnare gli apostoli ogni giorno, fino alla fine dei secoli, pasas tas hēme, (Mt 28,20) – governano sovranamente la Chiesa e quindi, nel proporre l’organizzazione tradizionale, siamo consci del fatto che essa costituisce ciò che Aristotele riconosceva e chiamava cause secondarie. Spetta agli uomini di Chiesa, a cominciare dal sommo pontefice, successore di Pietro, curare che queste cause secondarie siano disposte in un’organizzazione adeguata. L’ordinamento delle Province ecclesiastiche, coronato dall’assemblea dei metropoliti, è una possibilità concreta che ha a suo favore la Tradizione ed evita l’intrusione di schemi politici laici incapaci di assicurare una vera democrazia.

Mi è chiaro che quanto ho appena scritto può turbare molti colleghi. Desidero assicurare a tutti la mia retta intenzione, il mio rispetto e il mio affetto collegiale. Non perderemmo nulla se discutessimo con obiettività e pazienza questi temi della massima importanza per l’oggi e per il domani della nostra amata Chiesa.

*arcivescovo emerito di La Plata


Traduzione di Valentina Lazzari