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domenica 23 gennaio 2022

#traditioniscustodes potrebbe superare un esame di storia della liturgia?

Un'interessantissima traduzione, di Alcuin Reid, da parte di Chiesa e post concilio.
Luigi

13-1-21
Nella nostra traduzione da Catholic Word Report un fondamentale articolo di Dom Alcuin Reid recentemente citato da Peter Kwasniewski qui, a dimostrazione che è falso, e altamente fuorviante, parlare di “riforma [liturgica] del Concilio Vaticano II”.
Di fatto, mentre la Sacrosanctum Concilium annunciò una revisione dei riti e articolò alcuni principi e linee guida per essa, di fatto il Concilio non intraprese quella riforma né pubblicò alcun libro liturgico proprio. Piuttosto il testo che segue, partendo dal fatto che Paolo VI affidò il lavoro a uno speciale super-comitato ad hoc, il Consilium, i cui progetti raggiunsero il completamento e furono da lui approvati diversi anni dopo la conclusione del Concilio, oltre ad essere illuminante sull’importante distinzione tra il Concilium e il Consilium, ci offre ulteriori chiavi di lettura del controverso documento curiale e dei successivi Responsa. 
[...]
La legislazione non può cambiare i fatti storici e nessun atto di positivismo giuridico può determinare cos’è parte della lex orandi della Chiesa e cosa non lo è.
Nota dell’editore: questo saggio è stato originariamente pubblicato il 6 agosto 2021; lo ripubblichiamo alla luce della notizia che il Vaticano ha emanato “ulteriori, rigorose linee guida sulla celebrazione della Messa tradizionale in latino, in risposta alle domande sul motu proprio Traditionis custodes.”———

Nel turbinio di opinioni che ha seguito la promulgazione del Motu Proprio Traditionis custodes del 16 luglio abbiamo assistito a un torrente di commenti dei vincitori che spesso tradisce una distorsione della storia liturgica, tale da essere paragonabile a quella dei giornalisti laici più spregiudicati che cantano i loro commenti revisionisti la mattina dopo che il “loro” candidato prende il potere dopo un’elezione. Ora, per quanto ciò possa essere inquietante, non facciamo finta che non si tratti di una guerra politico-ecclesiale — tanto più che fino a tre settimane fa aveva messo radici, se non la pace, una tolleranza liturgica, crescendo e fruttificando in molte se non nella maggior parte delle diocesi.

Papa Francesco è tornato “fortemente su ciò che il Vaticano II ha detto e sostenuto”, ci è stato detto. “Alcuni atti di Papa Benedetto erano contrari al Concilio Vaticano II”, si dice. “Tutta la chiesa” “ritornerà alla messa del 1970”, viene strombazzato. “Il messale del 1970” viene definito allegramente “in un certo senso superiore, più fedele alla volontà del Signore così come intesa dal Concilio Vaticano II”. La “partecipazione attiva” alla liturgia e la liturgia del Vaticano II “sono sinonimi”, si afferma. Dobbiamo sentirci confortati dal fatto che gli elementi corrotti “medievali” della liturgia siano stati scartati una volta per tutte.

Così, anche lo stesso primo articolo del Motu Proprio, che cerca di erigere i libri liturgici moderni a “espressione unica della lex orandi del rito Romano”, tradisce una concezione fondamentalmente carente della storia della liturgia, del rapporto tra la lex orandi e la lex credendi e del potere di coloro il cui ministero nella Chiesa è proprio quello di custodire la sua viva Tradizione.

Corruzione della liturgia?

È quindi d'obbligo una ricapitolazione di alcuni fondamenti della storia liturgica.1 Cominciamo con la presunta “corruzione” medievale della liturgia, una teoria abbastanza in voga tra i liturgisti della metà del XX secolo e ampiamente diffusa dal loro decano, Joseph A. Jungmann, SJ. Secondo questa teoria la liturgia “pura” della Chiesa primitiva sarebbe stata corrotta in epoca medievale e ricoperta di elementi inappropriati. Sulla base di questo presupposto, i riformatori del XX secolo hanno cercato avidamente di rimuovere le sovrapposizioni illegittime e di tornare alla liturgia anteriore a quella corrotta, che avrebbero reso nuovamente disponibile attraverso la riforma liturgica di San Paolo VI.

Questa teoria, a volte chiamata “archeologite” [l'archeologismo liturgico condannato da Pio XII nella Mediator Dei -ndT], denigra tutte le forme liturgiche maturate nella vita della Chiesa dalla caduta dell'Impero Romano fino al Rinascimento — ossia in circa mille anni di storia —, negando la possibilità che lo Spirito Santo abbia potuto ispirare sviluppi legittimi nella liturgia in questo periodo. È sbalorditiva nella sua arroganza, ma realmente utile come strumento politico. Alla fine anche Paolo VI resistette alle sue implicazioni più dure, rifiutando le richieste dei liturgisti di abolire il Canone Romano, il Confiteor, l’Orate Fratres, etc. (Che però in pratica, si potrebbe sostenere, sono stati aboliti divenendo semplici opzioni, o per il fatto di essere stati mal tradotti, ma questo è un altro problema).

Se la teoria della corruzione di Jungmann è stata l'errore fondamentale alla base dell’opera dei riformatori della metà del Novecento, i “vestiti nuovi” degli imperatori liturgici dei nostri tempi sono cuciti insieme dal presupposto che la partecipazione attiva alla liturgia e la liturgia del Vaticano II (leggi i libri liturgici promulgati da Paolo VI) coincidono. Ebbene, no, non coincidono.

In primo luogo, il fatto che la liturgia è “la fonte primaria e indispensabile da cui i fedeli devono trarre il vero spirito cristiano” e che la vera partecipazione ad essa è essenziale per tutti è stato affermato da San Pio X nel 1903 e ribadito dai suoi successori fino al Concilio. Inoltre, l’affermazione di Pio X del 1903 diede origine a quello che divenne noto come movimento liturgico del XX secolo, dedicato alla promozione della partecipazione attiva alla liturgia [vedi] come era allora (cioè quella che oggi è vista come la forma più antica del rito romano — l’“usus antiquior”). Sono seguiti decenni di lavoro durante i quali pastori e studiosi hanno guidato diligentemente le persone a scoprire e ad abbeverarsi profondamente a quella fonte primaria e indispensabile dello spirito cristiano come base della loro vita quotidiana.

È vero che così facendo alcuni giunsero a credere che questa vera partecipazione potesse essere facilitata da una riforma liturgica — una modesta introduzione del volgare, per esempio. Di conseguenza, a partire dagli anni Cinquanta furono emanate alcune riforme. È in questo contesto che il Concilio Vaticano II — che è indiscutibilmente un legittimo Concilio ecumenico della Chiesa — ha ritenuto autorevolmente opportuno invocare uno sviluppo organico del rito romano, una modesta riforma per realizzare i nobili fini pastorali che la Costituzione sulla Sacra Liturgia enuncia nel suo primo paragrafo.

È anche vero che alcune voci dell’epoca, e negli anni Cinquanta, hanno dimostrato di aver frainteso la natura della liturgia, cercando di adattarla quasi completamente all’immagine, alla somiglianza e alle presunte esigenze dell’“uomo moderno”, svuotandola così del suo stesso contenuto e trasformandola in qualcosa di più simile al culto protestante. Alcuni liturgisti, numerosi giovani ecclesiastici, religiosi e laici troppo entusiasti e persino uno o due Padri conciliari hanno cavalcato questa ondata di “creatività” liturgica. Tali teorie e “abusi” pratici sono oggi meno frequenti, ma hanno già fatto danni incalcolabili.

Il Vaticano II e l’attuazione della riforma

In questo contesto, il gruppo ufficiale incaricato dell’attuazione della riforma del Concilio (il “Consilium”), vuoi per entusiasmo, vuoi per pura opportunità o per sincera convinzione che ciò fosse per il bene della Chiesa (o una combinazione di questi fattori), andò ben oltre la riforma prevista dal Concilio e produsse riti che corrispondevano più ai desideri degli attori chiave del Consilium che ai principi della stessa Costituzione conciliare sulla Sacra Liturgia. Dove ha richiesto il Concilio nuove Preghiere eucaristiche? Dove ha autorizzato la vernacolarizzazione totale dei riti liturgici? Si potrebbero enumerare ulteriori esempi. Il segretario del Consilium, lo stesso padre Bugnini, si vanta nelle sue memorie di aver superato il mandato conciliare.

Il punto cruciale, in questo caso, è che si possa operare una legittima distinzione tra il Concilio e la riforma attuata in suo nome. Mettere in discussione la continuità dei libri liturgici moderni con la tradizione liturgica e con i sani principi stabiliti dal Concilio non è negare il Concilio o la sua autorità. Si tratta, piuttosto, di cercare di difendere il Concilio da coloro che ne hanno distorto le intenzioni dichiarate [anche se non possiamo ignorare che i "ma anche" disseminati nei principi e linee guida della Sacrosanctum concilium sono gli spiragli aperti sulle future innovazioni in discontinuità con la tradizione liturgica -ndT]

Tuttavia, come emerge chiaramente dai suoi discorsi pubblici dell’epoca, nel 1969-70 lo stesso Paolo VI era convinto che per compiere questi ulteriori passi nella produzione dei riti riformati da lui promulgati — tutti da lui personalmente e autorevolmente approvati nei loro specifici dettagli — valesse la pena operare il sacrificio dei venerabili riti liturgici. Credeva sinceramente che avrebbero portato una nuova primavera nella vita della Chiesa dei suoi giorni. I libri liturgici da lui promulgati sono indiscutibilmente autorevoli. Sono validi i sacramenti da loro celebrati. Ma, dato che sono andati oltre il mandato conciliare, è storicamente e liturgicamente vero dire che sono i libri liturgici di Paolo VI, non del Concilio Vaticano II. E su questa base è legittimo mettere in discussione la loro continuità con la tradizione liturgica.

Il nuovo, più recente uso del rito romano (l’“usus recentior”) è un’innovazione giudicata opportuna dall’autorità suprema. Se competesse ad essa o no farlo è un’altra questione, in particolare alla luce dell'insegnamento del Catechismo della Chiesa Cattolica:
“Per questo motivo nessun rito sacramentale può essere modificato o manipolato dal ministro o dalla comunità a loro piacimento. Neppure l’autorità suprema nella Chiesa può cambiare la liturgia a sua discrezione, ma unicamente nell’obbedienza della fede e nel religioso rispetto del mistero della liturgia” (par. 1125).
In un’epoca successiva del suo pontificato Paolo VI ebbe delle perplessità. Il suo licenziamento sommario, nel 1975, dell’architetto chiave della riforma, l’allora arcivescovo Bugnini, e il suo trattare in modo severo coloro che si opponevano alla riforma possono essere visti come sintomi di questo fatto. L’attesa nuova primavera nella vita della Chiesa non si era concretizzata, come dimostrano fin troppo bene le statistiche. Certo, molti fattori sociologici hanno contribuito alla gravità della crisi, ma resta il fatto che la tanto acclamata “nuova” liturgia non ha prodotto i risultati promessi dai suoi architetti. La partecipazione ai riti liturgici è diminuita rapidamente per il semplicissimo motivo che la prima e più necessaria partecipazione è la presenza fisica. Sempre più spesso, la gente non andava più a messa.
Le riforme sotto i pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI

L’elezione di San Giovanni Paolo II nel 1978 inaugurò un’adozione più rigorosa dei libri liturgici riformati — gli abusi furono fortemente denunciati — e nel 1984 fu concesso un permesso limitato per l’usus antiquior come mezzo per sanare le divisioni che si erano indurite sotto Paolo VI. Questo permesso è stato ampliato nel 1988 in risposta alla consacrazione illegale di vescovi da parte di Mons. Lefebvre: significativamente, perché in questo modo il Papa ha riconosciuto le “legittime aspirazioni” di coloro che erano attaccati alle precedenti riforme liturgiche. Questo riconoscimento ha facilitato la formazione di istituti e parrocchie personali e di altre comunità di cui l’usus antiquior era (ed è) la linfa vitale. La partecipazione piena, consapevole e concreta ai riti liturgici testimoniata fino ad oggi in queste comunità — di cui i Padri conciliari sarebbero orgogliosi — ha da allora dato frutti significativi, specialmente attraendo i giovani e generando vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa.

Riconoscendo questa realtà e comprendendo la questione più ampia della necessità di affrontare la rottura nella tradizione liturgica della Chiesa, il cardinale Joseph Ratzinger, braccio destro di Giovanni Paolo II per due decenni, ha intrapreso due iniziative. Da cardinale e in qualità di teologo privato scriveva e parlava spesso della necessità di un nuovo movimento liturgico per recuperare il vero spirito della liturgia. E ha parlato dell’opportunità di una “riforma della riforma liturgica”, per correggere, per così dire, i libri liturgici di Paolo VI.

Questo concetto era sufficientemente generico per non destare preoccupazione tra i partigiani del messale di Paolo VI, ma la proposta concreta di ritoccare e migliorare l’usus recentior era troppo per loro. Anche dopo l’elezione di Benedetto XVI al soglio pontificio, tra le mura della sua stessa Congregazione per il Culto Divino era vietato parlare di una possibile “riforma della riforma”, di cui è stato bloccato di fatto il progresso. L’occasione persa da quanti continuavano rigidamente a sostenere che i libri liturgici di Paolo VI fossero irreformabili potrà non essere ben giudicata dalla storia.

Come papa, Benedetto XVI ha agito secondo le sue convinzioni e nel 2007 ha esortato la Chiesa a una più degna celebrazione dell’usus recentior, in continuità con la tradizione liturgica (Sacramentum caritatis). Alcuni mesi dopo stabilì che l’usus antiquior aveva il suo posto legittimo nella vita liturgica della Chiesa e lo liberò dalla stretta morsa dei vescovi che, in troppi luoghi, avevano cercato di strangolarlo (Summorum pontificum).

Di conseguenza, la crescita stimolata da Giovanni Paolo II accelerò. La pacifica convivenza liturgica accrebbe molte diocesi. Iniziò a svilupparsi un certo arricchimento reciproco tra i due usi. I vescovi che si recavano in visita incontravano comunità giovani, vivaci e apostoliche, a volte in netto contrasto con altre della loro stessa diocesi.

Questi atti di Benedetto XVI erano contrari al Concilio? Per quanti di noi sono troppo giovani per essere stati presenti, è difficile dirlo. Non abbiamo lavorato tutti i giorni con i suoi Padri, né abbiamo aiutato a redigerne i documenti. Benedetto XVI l’ha fatto. E ha dedicato il suo ministero teologico ed episcopale alla sua interpretazione in un’ermeneutica di continuità, non di rottura [nota 2] — che è sicuramente l’unico modo valido per interpretarne le riforme. Quindi anche i discorsi e i documenti di Benedetto XVI fanno costante riferimento al Concilio, molto più di quelli del suo successore. Con ciò non vogliamo criticare il Santo Padre, che ha un suo approccio, ma semplicemente osservare che l’insegnamento di Papa Benedetto è stato del tutto conciliare, anche se non è affatto distorto dalla convinzione ideologica che la Chiesa (o una nuova Chiesa) sia iniziata con il Vaticano II. Se gli atti di Benedetto XVI sono visti come contrari al Concilio, è perché hanno sfidato e corretto questo “Concilio” ideologico — e la sua progenie — con la realtà storica e teologica.

La cosa più significativa — e questo ha sorpreso molti — è il fatto che il pontificato di Benedetto XVI ha rivelato la sua natura di professore gentile e paterno, abbastanza generoso con chi è di diversa opinione: infatti, non ha mai sanzionato duramente coloro con cui non era d'accordo; piuttosto, ha cercato di insegnare loro, spesso con l’esempio. Da un punto di vista liturgico, pur celebrando egli stesso degnamente l’usus recentior, ha riconosciuto e rispettato l'importanza dell’usus antiquior nella vita della Chiesa del XXI secolo, e in particolare la sua capacità di attrarre i giovani. Le ricchezze della diversità nell’unità erano una realtà in molte diocesi ed erano apprezzate.

Nel momento delle dimissioni di papa Benedetto era inimmaginabile che un suo successore potesse mai revocare il Summorum Pontificum. Eppure ora è successo. Perché?

Realtà virtuale contro realtà sul campo

La motivazione addotta è la necessità urgente di proteggere l’unità della Chiesa, che sarebbe minacciata dagli atteggiamenti e dalle espressioni di tradizionalisti che negano il Concilio. È vero che ci sono “combriccole” chiassose formatesi spontaneamente, il cui pontificare su ogni aspetto della fede, e sulla sacra liturgia in particolare, toglie a volte il respiro mettendo a nudo la loro sua presunzione, la loro arroganza o la loro ignoranza. E sì, ci sono anche i tradizionalisti professionisti che non hanno mai perso occasione per far pubblicare il loro pensiero, monetizzando, e che pretendono di poter dettare il discorso mediatico, o addirittura di sorvolare il diritto liturgico, sulla base del loro giudizio privato. E ci sono infine i liturgisti col portatile, che dovrebbero essere nei seminari o nei monasteri ma che, per colpa propria o altrui, si trovano a poter parlare solo di liturgia piuttosto che a viverla, e che finiscono per vivere in un mondo liturgico proprio basato sulle loro preferenze personali, spesso peraltro piuttosto eccentriche.

Se è vero che queste persone fomentano la divisione o la negazione, ciò è solo in ambito virtuale — il che non vuol dire che ciò non sia grave, soprattutto vista la capacità della realtà virtuale di influenzare il pensiero della gente [attendibilmente di riferisce a quanti pongono in discussione la celebrazione "una cum" che di fatto, sono realtà molto circoscritte -ndT]. Ma, come hanno attestato nelle ultime settimane molti vescovi nel mondo, quest’ultima non è la realtà sul campo, quella delle comunità che vivono una vita liturgica tangibile e apostolica incentrata sulla fruttuosa partecipazione alle ricchezze dell’usus antiquior. Non c’è bisogno di un editto che ordini lo sterminio di questa gente, bensì di provvedere centri di vita liturgica integrale che possano ricondurre queste persone dai margini al cuore della comunione con la Chiesa, con misericordia, carità e, sì, quando necessario, con la correzione. Reagire in modo eccessivo a questo problema dimostra semplicemente la propria insicurezza di fronte ad esso e finisce col dare ragione a queste persone e col convalidare la loro versione dei fatti.

Molti vescovi, ivi compresi alcuni che non sono realmente amici dell’usus antiquior, sono stati rapidi ad assumere una posizione pastorale sulle misure emanate da Traditionis custodes. Ciò può semplicemente essere dovuto al fatto che, a giudizio dei vescovi diocesani che hanno problemi seri da affrontare, le sue disposizioni sono insostenibili, o impraticabili; o, spesso, al fatto che essi sanno che il problema che motiva questa legislazione non esiste nelle loro diocesi. La diffusa “non ricezione” di questo Motu Proprio da parte dell’episcopato può rivelarsi essa stessa un evento storico importante nella storia liturgica e pontificia.

Apparentemente, però, nella Curia romana si crede sinceramente che la Traditionis custodes comporterà la scomparsa dell’usus antiquior dalla Chiesa. Con tutto il rispetto, va detto che tutte le loro Eminenze, i Reverendi e i Reverendissimi sono ben lontani tanto dalla realtà quanto dai fatti storici. L’obbedienza suicida cieca è una cosa del passato. Possono riaccendere le guerre liturgiche e spingere le persone nella clandestinità o al di fuori delle strutture ecclesiastiche ordinarie; possono frustrare e persino distruggere vite e vocazioni cristiane; possono aumentare la divisione nella Chiesa in nome della pretesa protezione della sua unità (e per tutto ciò dovranno rispondere a Dio Onnipotente), ma ciò servirà solo a sottolineare l’importanza e il valore cruciale dell’usus antiquior nella vita della Chiesa di oggi e di domani. Allo stesso modo, il fatto che si ritenga necessario ricorrere a misure così drastiche per “proteggere” l’usus recentior circa cinquant’anni dopo la sua promulgazione è, forse, il suo più grande atto d’accusa.

Alcuni prelati potrebbero trovare conforto nel ripetere il mantra secondo cui il Messale di Paolo VI sarebbe “testimone di una fede immutabile e di una tradizione ininterrotta”, come articolo di fede. Ma in realtà ciò non è vero. La necessità di utilizzare tale linguaggio per affermare la continuità laddove è così palesemente assente tradisce il fatto che tale affermazione è in realtà propaganda. Che il Messale di Paolo VI contenga differenze teologiche e liturgiche sostanziali e intenzionali rispetto a quello di San Giovanni XXIII è un dato su cui sono tutti d’accordo, tanto gli stessi riformatori postconciliari, onesti e intelligenti protagonisti odierni dell’usus recentior, quanto i suoi critici. Lo afferma implicitamente la stessa Traditionis custodes, laddove pretende che l’usus antiquior non abbia posto nella Chiesa postconciliare.

Se è vero che il nuovo Prefetto della Congregazione per il Culto Divino è stato un protagonista (o una pedina?) nella stesura di questo Motu Proprio, e se è vero che egli si è vantato del fatto che la sua cricca sarebbe riuscita ad annientare il Summorum Pontificum, allora è chiaro che tutto ciò fa parte di una campagna orchestrata. Il Santo Padre è forse stato tratto in inganno o addirittura colpito alle spalle da alcuni fanatici? O lavora alla risoluzione di queste questioni condizionato da un profondo malinteso storico? Dobbiamo raddoppiare le nostre preghiere per lui e per la Chiesa. Non va trascurata in questi giorni la Messa votiva per l'Unità della Chiesa.

Conclusione

Come ho detto molte volte, non sono un tradizionalista. Sono cattolico. E come cattolico ritengo che l’amarezza, la paura, l’alienazione e la crescente divisione direttamente provocate da Traditionis custodes siano una situazione di estrema e grave preoccupazione. È una fonte di scandalo ben più pericolosa di coloro che ha preso di mira e, pastoralmente parlando, è già un disastro, in particolar modo tra i giovani.
Di fronte a ciò, come storico liturgico, non posso tacere. La legislazione non può cambiare i fatti storici e nessun atto di positivismo giuridico può determinare cos’è parte della lex orandi della Chiesa e cosa non lo è, poiché, come insegna il Catechismo, “la legge della preghiera è la legge della fede, la Chiesa crede come prega. La liturgia è un elemento costitutivo della santa e vivente Tradizione” (par. 1124) — di cui i Vescovi, e primo fra loro il Vescovo di Roma, sono custodi, non proprietari. Poiché, come insegnò un umile Papa quando prese possesso della sua cattedrale a Roma:
“Il Papa non è un monarca assoluto i cui pensieri e desideri sono legge. Al contrario: il ministero del Papa è garanzia di obbedienza a Cristo e alla Sua Parola. Non deve proclamare le proprie idee, ma vincolare costantemente se stesso e la Chiesa all’obbedienza alla Parola di Dio, di fronte a ogni tentativo di adattarla o annacquarla, e ad ogni forma di opportunismo”.
Quello stesso papa fu studioso diligente di teologia e di storia liturgica. Ciò lo portò a concludere che: “Ciò che le generazioni precedenti ritenevano sacro, rimane sacro e grande anche per noi, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o addirittura considerato dannoso”. Egli ha insistito sul fatto che “è dovere di tutti noi preservare le ricchezze che si sono sviluppate nella fede e nella preghiera della Chiesa e assegnare loro il posto giusto”.

Ogni altra conclusione diversa da questa non supererebbe un esame di storia liturgica, e nemmeno i corsi di teologia o di pastorale.

*Nota finale:
1 Per analisi più dettagliate su queste questioni e per i riferimenti bibliografici rilevanti rimando alle mie opere The Organic Development of the Liturgy (Ignatius, 2005) e T&T Clark Companion to Liturgy (Bloomsbury, 2015).
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