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martedì 21 settembre 2021

Traditionis custodes: le ultime cartucce conciliari?

Da Res Novae del 01.09.2021.

Un intervento decisamente interessante e approfondito dell'abbé Claude Barthe, noto saggista e cappellano del Pellegrinaggio Internazionale Summorum Pontificum.
AZ

 

Traditionis custodes: le ultime cartucce conciliari?
abbé Claude Barthe 

La non-accoglienza del Concilio Vaticano II si è concentrata concretamente nel rifiuto della riforma liturgica, benché un certo numero di fedeli praticanti della messa antica affermi la propria adesione alle intuizioni conciliari «ben interpretate». In ogni caso, l’esistenza della liturgia tradizionale è un fenomeno persistente ed anzi crescente di mancata accettazione. Marginale? Papa Bergoglio, che vuole essere il papa della piena realizzazione del Vaticano II, alla fine si è convinto che il fenomeno fosse sufficientemente importante da doversi adoperare per sradicarlo. Con questa conseguenza, che ciò ch’era potenzialmente marginale è divenuto sicuramente centrale: la messa tridentina viene consacrata come il male da abbattere; i seminari, che formano i preti per dirla, come dei cancri da eliminare. E ciò, senza alcun indugio.



Un ritorno alla violenza originaria della riforma liturgica

Essa viene quindi di nuovo proscritta, come ai tempi di Paolo VI. La Lettera che accompagna Traditionis custodes spiega senza ambiguità il fine ultimo del testo pontificio: fare in modo «che si giunga ad una forma di celebrazione unitaria», la nuova liturgia. La decisione è brutale e perentoria: il papa decide tanto la fine della messa tradizionale quanto quella del mondo tradizionale, ch’egli accusa – ed esso solo! – d’attentare all’unità della Chiesa.

Il Vaticano II, il cui grande disegno – un’apertura al mondo moderno proprio nella sua modernità per esser meglio inteso dagli uomini di questo tempo – è una sorta di via di mezzo tra l’ortodossia tradizionale e l’eterodossia (nello specifico, un relativismo neo-modernista). L’adozione di qualche proposizione ambigua permette, ad esempio, d’affermare che un cristiano separato può in quanto tale, ovvero in quanto separato, essere ciò nonostante in una certa comunione con la Chiesa; secondo Unitatis redintegratio, Lutero, che pensava d’aver provocato una frattura con la Chiesa del papa, è rimasto in realtà un cattolico «imperfetto» (UR 3).

Papa Francesco, dopo l’elezione, avanza lungo quest’apparente linea spartiacque, spingendosi anzi oltre il più possibile: tramuta la collegialità in sinodalità, va oltre Nostra ætate e la Giornata d’Assisi con la dichiarazione di Abu Dhabi, ma si guarda bene dal varcare la soglia oltre la quale si cadrebbe – o si cadrebbe più velocemente – in questo vuoto in cui già precipitano i più audaci tra i teologi progressisti. Come Paolo VI, egli resta fedele al celibato ecclesiastico ed al sacerdozio maschile, ma aggirando la disciplina tradizionale attraverso la via dei ministeri laici, aperta da papa Montini (istituzione di ministri, che rivestano dei ruoli clericali senza essere chierici, per giungere probabilmente al ministero di diaconessa o addirittura di presidente non formale dell’eucaristia), ed affidando a laici, uomini e donne, responsabilità quasi-giurisdizionali (posizioni sempre più elevate nei dicasteri romani).

In altre parole, Francesco conserva abbastanza dell’istituzione, continuando però a svuotarla della sua sostanza dottrinale. Secondo la sua espressione, egli abbatte i muri:
Humanæ vitæ ed una serie di testi successivi a questa enciclica avevano preservato la morale coniugale dalla liberalizzazione che il Concilio aveva fatto subire all’ecclesiologia. Amoris lætitia ha abbattuto questa diga: coloro che vivono in stato di pubblico adulterio possono permanere nella loro condizione senza commettere peccato grave (AL 301).
Summorum Pontificum aveva riconosciuto un diritto al fatto di custodire la Chiesa precedente, ciò ch’è la liturgia antica con la catechesi ed il clero, ad essa legati. Traditionis custodes ha spazzato via questo tentativo di «ritorno»: i nuovi libri liturgici sono la sola espressione della lex orandi del rito romano (TC, art. 1).

Resta il fatto che il papa ed i suoi consiglieri si sono fatti carico di grossi rischi, assumendo tali disposizioni, redatte in modo tanto violento e frettoloso. I commentatori sbalorditi parlano di cattiva conoscenza del terreno ecclesiale occidentale da parte del papa latino-americano; evidenziano la bruciante sconfessione dell’opera maggiore di Benedetto XVI; puntano il dito verso le contraddizioni d’un governo caotico, che schiaccia le presenze legate alla tradizione «dall’interno», mentre concede facoltà paragonabili ad un semi-riconoscimento a quanti siano legati alla tradizione «dall’esterno», come quelli della FSSPX; si stupiscono, infine, del fatto che, mentre in Germania dilaga il fuoco dello scisma ed ovunque una spensierata eresia, ci si accanisca contro una pratica liturgica, che non ha colpe né dell’una, né dell’altra.

Ma ci si immagina che il papa ed il suo entouragefacciano spallucce di fronte a queste critiche. La giustificazione dell’assalto repressivo, ch’essi hanno scatenato, è per loro determinante: la messa tridentina cristallizza l’esistenza di una Chiesa nella Chiesa, poiché essa rappresenta una lex orandi ante e quindi anti-conciliare. Si può transigere sulle derive della Chiesa tedesca, che sono al massimo troppo conciliari, ma non si potrebbe tollerare la liturgia antica, ch’è anti-conciliare.

Il Vaticano II con ciò che ne discende non si discute! In modo alquanto caratteristico, la Lettera che accompagna Traditionis custodes rende infallibile il Concilio: la riforma liturgica deriva dal Vaticano II; ora, questo concilio è stato un «esercizio di potere collegiale in forma solenne»; dubitare che il Concilio sia inserito nel dinamismo della Tradizione vuol dire quindi «dubitare dello stesso Spirito Santo, che guida la Chiesa».

Una repressione che giunge troppo tardi

Solo che nel 2021 non si è più nel 1969, all’epoca della promulgazione fresca e gioiosa del nuovo messale, né nel 1985, all’epoca del Rapporto sulla fede e dell’assemblea sinodale, che tracciava un bilancio già inquieto circa i frutti del Vaticano II, e nemmeno si è nel 2005, quando l’apparire dell’espressione «ermeneutica della riforma nella continuità» somigliava alquanto ad un tentativo di ricomposizione laboriosa d’una realtà, che sfuggiva sempre più. Oggi è troppo tardi.

L’istituzione ecclesiale è come infiacchita, la missione spenta ed, almeno in Occidente, la visibilità di preti e fedeli svanisce. Andrea Riccardi, figura di spicco della Comunità di Sant’Egidio, l’esatto opposto di un conservatore, nel suo ultimo libro, La Chiesa brucia. Crisi e futuro del Cristianesimo, L’Église brûle. Crise et futur du Christianisme[1], considera l’incendio di Notre-Dame a Parigi come una parabola della situazione del Cattolicesimo ed analizza, Paese per Paese, in Europa, il suo crollo. Il suo discorso è tipicamente quello dei bergogliani delusi, che divengono conciliari delusi.

Come stupirsi del fatto che autori, ben più liberi di lui dall’apparato ecclesiastico, lancino grida d’allarme e non esitino a dire da dove venga il male. Così l’accademico Jean-Marie Rouart in Ce pays des hommes sans Dieu[2] (Questo Paese di uomini senza Dio), secondo cui la battaglia della società occidentale contro l’islam è perduta in partenza, mentre solo un «sussulto cristiano» potrebbe salvarci, vale a dire una radicale marcia indietro: la Chiesa, scrive, «deve procedere allo stesso modo di una Controriforma, ritornare a questa riforma cristiana, che le ha permesso nel XVII secolo di affrontare vittoriosamente un protestantesimo, che l’ha messa in discussione»[3]. O ancora Patrick Buisson in La fin d’un monde[4] (La fine di un mondo), che dedica due parti della sua grossa opera alla situazione del cattolicesimo: «Le krach de la foi» («Il crack della fede») e «Le sacré massacré» («Il sacro massacrato»). «In una modalità, ch’è al tempo stesso sconcertante e brutale – scrive – il rito tridentino, che è stato il rito ufficiale della Chiesa latina per quattro secoli, è stato, dall’oggi al domani, dichiarato indesiderabile, la sua celebrazione proscritta ed i suoi fedeli cacciati[5]». Si è usciti dal cattolicesimo per andare «verso la religione conciliare».

Per di più, nel 2021, il rapporto di forze è molto diverso da quello degli Anni Settanta tra coloro che avevano «fatto il Concilio» e coloro che lo subivano. Andrea Riccardi fa, come tutti gli altri, questa realistica constatazione: «Il tradizionalismo è una realtà di una certa importanza nella Chiesa, tanto per organizzazione quanto per mezzi». Il mondo tradizionale, pur essendo minoritario (in Francia, dall’8 al 10% dei praticanti), è ovunque in crescita, soprattutto negli Stati Uniti. È giovane, fecondo in termini di vocazioni – almeno in rapporto alla fecondità del cattolicesimo delle parrocchie -, capace d’assicurare la trasmissione catechetica, attraente per il clero giovane e per i seminaristi diocesani.

Questo è ciò che papa Bergoglio, arrivando dall’Argentina, ha impiegato del tempo a capire, finché i vescovi italiani ed i prelati di Curia gli hanno messo davanti agli occhi la crescita insopportabile del mondo tradizionale, tanto più evidente poiché sbocciata in mezzo al crollo generale. Il che rendeva dunque necessario applicare i «rimedi» adeguati, gli stessi che sono stati somministrati al fiorente seminario di San Rafael, in Argentina, della congregazione dei Francescani dell’Immacolata, nella diocesi di Albenga in Italia, nella diocesi di San Luis in Argentina, ecc.

Per un’uscita «in avanti» dalla crisi

Per tutto questo, la Chiesa conciliare non è stata rivitalizzata e la missione non ha smesso d’indebolirsi. Una batteria di documenti ha trattato della missione: Ad Gentes, il decreto conciliare del 1965, l’esortazione Evangelii nuntiandi del 1975, l’enciclica Redemptoris missio del 1990, il documento Dialogo e Annuncio del 1991, le esortazioni apostoliche, che riprendono instancabilmente il tema della nuova evangelizzazione, Ecclesia in Africa 1995, Ecclesia in America 1999, Ecclesia in Asia 1999, Ecclesia in Oceania 2001, Ecclesia in Europa 2003. È stato creato un Consiglio Pontificio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione. Si sono moltiplicati i convegni, che parlano della missione da articolarsi in dialogo, dell’evangelizzazione che non deve essere proselitismo, ecc. Non si è mai parlato tanto di missione. Mai però si è così poco convertito.

François Mitterrand diceva, a proposito del riassorbimento della disoccupazione, «abbiamo provato di tutto». Lo stesso per salvare la Chiesa dopo il Vaticano II: il tentativo rappresentato dall’elezione di papa Bergoglio, quello di una massimalizzazione del Concilio, ha fatto cilecca; così com’era alla fin fine fallito, bisogna riconoscerlo, il tentativo rappresentato dall’elezione di papa Ratzinger, quello relativo ad un’attenuazione del Concilio. Dunque, un ritorno indietro? Sì, ma alla maniera di un’uscita «in avanti».

Numerosi sono coloro, anche tra i sostenitori di ieri di papa Bergoglio, che ritengono indifendibile la repressione brutale del mondo tradizionale per la sola ragione, in definitiva, ch’esso è troppo vivo. È immaginabile, col prossimo pontificato, una messa tra parentesi di Traditionis custodes? Sicuramente ed anche meglio, ci sembra: una libertà data a ciò che si è stabilito di chiamare le «forze vive» nella Chiesa. Circa tale forza essenziale, poiché rappresenta la tradizione multisecolare, si può ragionevolmente valutare la negoziazione di un compromesso, che sarebbe per la Chiesa più favorevole del compromesso rappresentato dal Summorum Pontificum. Si deve ormai mirare alla revoca di ogni restrizione, in altre parole ad una completa libertà per la liturgia antica e per tutto ciò che l’accompagna. E questo, in nome del buon senso. Come un certo numero di vescovi nel mondo ha lasciato che nelle proprie diocesi si sviluppassero tutte queste «forze vive», le comunità, le fondazioni, le opere, che portano frutti missionari, allo stesso modo, a livello di Chiesa universale, deve giungere il tempo di una libertà concessa a tutto «ciò che funzioni».

Summorum Pontificum può essere analizzato come un tentativo di coesistenza tra i cattolici, che non accolgono la liturgia del Vaticano II, ed un mondo conciliare moderato. Un nuovo tentativo potrebbe essere stabilito con un mondo conciliare apparentemente più «liberal» di quello di Benedetto XVI, ma che prenda ormai coscienza del fallimento irrimediabile dell’utopia abbracciata cinquant’anni fa.


Don Claude Barthe



[1] Tempi nuovi, 2021.

[2] Bouquins, 2021.

[3] Op. cit., p. 64.

[4] Albin Michel, 2021.

[5] Op. cit., « La trivialiation du sacré » («La banalizzazione del sacro»), p. 124.



2 commenti:

  1. Un articolo stimolante, lucidamente sintetico. Ma in molti punti discutibile.

    Un “modus vivendi”, una pace o mezza pace fondata solo sulla costatazione del fatto (innegabile, per fortuna) che il mondo tradizionalista, nelle sue varie componenti, è vivo e vitale e ha una certa forza, ma seguitando a guardarsi in cagnesco, convinti da una parte e dall’altra che l’altro partito sia sostanzialmente fuori della Chiesa? No: codesto non sarebbe ragionare da cattolici, ma da prammatisti.

    Sicché?

    Sicché, l’unica via è quella tracciata da Benedetto XVI: l’ermeneutica della continuità è, semplicemente, il criterio cattolico, l’unico. La Chiesa cattolica non è nata coll’ultimo concilio; la Chiesa cattolica non è morta coll’ultimo concilio. La Chiesa cattolica ha duemila anni.

    Quando, negli anni ottanta, uscì il “Rapporto sulla fede” (l’intervista di Vittorio Messori), si notò che l’allora cardinal Giuseppe Ratzinger vi parlava (se la memoria non m’inganna) di “restaurazione”. Il termine provocò polemiche, com’era prevedibile, ma il Ratzinger lo spiegò così (cito a memoria epperò a senso): il ricupero di tutta la tradizione, di tutta la storia della Chiesa, all’interno d’una totalità nuova. Questa formula mi fece impressione, allora.

    Nel séguito della sua vita di uomo di Chiesa eppoi di papa, il Ratzinger è sempre rimasto fedele a questa linea: lo storico discorso sull’ermeneutica della continuità, e il non meno storico motuproprio “Summorum pontificum”, sono due facce della stessa medaglia. “Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del ‘Missale Romanum’. Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso”: queste parole dicono tutto, e non si riferiscono solo alla liturgia, ma anche alla teologia e a tutti gli aspetti della vita della Chiesa.

    Non c’è altra strada, dunque.

    All’ermeneutica della continuità è stato obiettato che non basta affermare la continuità, bisogna provarla. È vero. E è vero che non è facile. Ci vorrà un lavorìo teologico immenso: preghiamo che il Signore ci susciti un dottore capace di farlo, un altro Tommaso d’Aquino che si metta sulla scia del primo.

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  2. Ovviamente l'abbé Barthe ha pienamente ragione. la 'religione conciliare' vaticansecondesca ha praticamente i giorni contati, a differenza di quella Cattolica e Romana rappresentata dalla Tradizione. Bisogna solo avere la pazienza di attendere i prossimi Sommi Pontificati, e il Signore provvederà a tutto. Nel frattempo bisogna RESISTERE e COMBATTERE, con la preghiera e con l'azione, per la Santa Fede che ci è stata tramandata nei secoli passati. Coraggio, i neomodernisti sono alle loro ultime battute. Saranno poi esecrati nei secoli futuri (se Dio ce ne darà il tempo) come hanno meritato, papa Francesco incluso ovviamente.
    don Andrea Mancinella, eremita della Diocesi di Albano

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