Riportiamo, nella nostra traduzione, questo interessante articolo del giornalista Walter Sánchez Silva, pubblicato dall’agenzia di notizie cattoliche ACI Prensa, in cui riporta per estratto le autorevoli e schiette riflessioni di mons. Héctor Aguer, Arcivescovo emerito di La Plata (Argentina) in merito alla lettera apostolica in forma di motu «proprio» «Traditionis custodes».
L.V.
L’arcivescovo emerito di La Plata (Argentina), Mons. Héctor Aguer, ha spiegato che le restrizioni alla Messa tradizionale o tridentina in latino contenute nel motu proprio Traditionis custodes, non sono un progresso ma un «deplorevole passo indietro».
«L’attuale Pontefice dichiara di voler perseguire ancora di più la costante ricerca della comunione ecclesiale (prologo della Traditionis custodes) e per rendere effettivo questo proposito, elimina l’opera dei suoi predecessori ponendo limiti e ostacoli arbitrari a quanto essi hanno stabilito con intenzione ecumenica intraecclesiale e nel rispetto della libertà dei sacerdoti e dei fedeli! Promuove la comunione ecclesiale al contrario. Le nuove misure sono un deplorevole passo indietro», scrive il prelato in un articolo inviato ad ACI Prensa il 23 agosto.
Mons. Aguer sottolinea che con questo nuovo testo pontificio «rimane nelle mani dei vescovi diocesani concedere l’autorizzazione per l’uso» del Messale del 1962 e, in questo senso, «tutto comincia di nuovo».
«C’è da temere che i vescovi siano avidi nel concedere il permesso. Molti vescovi non sono Traditionis custodes, ma traditionis ignari (ignoranti), obliviosi (smemorati), e peggio ancora traditionis evertores (distruttori)», continua.
Il Prelato si domanda se «per coloro che già usavano la forma straordinaria del Rito Romano», cioè che usavano il Messale del 1962, «non era sufficiente la vigilanza ordinaria dei vescovi e l’eventuale correzione dei trasgressori? La carità e la pazienza dovrebbero essere usate con i ribelli».
Per l’arcivescovo emerito, «la limitazione dei luoghi e dei giorni di celebrazione secondo il Messale del 1962 (art. 3 § 2 e § 3) sono restrizioni ingiuste e indesiderabili». Inoltre, «il § 6 dell’articolo 3 è una restrizione ingiusta e dolorosa impedendo ad altri gruppi di fedeli di godere della partecipazione alla Messa celebrata secondo il Messale del 1962».
Tra le disposizioni del documento pontificio pubblicato il 16 luglio sulla messa tradizionale in latino, Papa Francesco afferma che sarà il vescovo ad autorizzare i sacerdoti che desiderano celebrare la messa in questo modo, cioè con il Messale del 1962; così come dove e quando queste celebrazioni possono avvenire; e che i gruppi di fedeli che vi partecipano avranno un sacerdote delegato che li accompagnerà pastoralmente.
Il testo pontificio afferma anche al paragrafo 6 dell’articolo 3 che il vescovo diocesano non autorizzerà la creazione di nuovi gruppi che desiderano celebrare la messa tradizionale in latino.
Abusi liturgici
«So che molti giovani delle nostre parrocchie sono stufi degli abusi liturgici che la gerarchia permette senza correggerli; vogliono una celebrazione eucaristica che garantisca una partecipazione seria e profondamente religiosa. Non c’è nulla di ideologico in questa aspirazione», scrive Mons. Aguer.
«Trovo anche sgradevole che un sacerdote che ha già il permesso e l’ha esercitato correttamente debba richiederlo di nuovo (art. 5). Non è una manovra per toglierlo? Mi viene in mente che forse ci sono più di alcuni vescovi (quelli nuovi, per esempio) che sono riluttanti a concederlo», continua.
L’articolo 5 della Traditionis custodes afferma che «i sacerdoti che già celebrano secondo il Missale Romanum del 1962 chiederanno al vescovo diocesano l’autorizzazione a continuare a mantenere questa facoltà».
Mons. Aguer afferma che «tutte le disposizioni della Traditionis custodes sarebbero volentieri accettabili se la Santa Sede prestasse attenzione a quella che io chiamo la devastazione della liturgia, che si verifica in molti casi».
Come esempio, spiega cosa «succede in Argentina. In generale, è abbastanza comune che la celebrazione eucaristica assuma un tono di banalità, come se fosse una conversazione che il sacerdote ha con i fedeli, e in cui la simpatia del prete è fondamentale; in certi luoghi diventa una specie di spettacolo presieduto dall’“intrattenitore” che è il celebrante, e la messa dei bambini diventa una piccola festa come una festa di compleanno».
«In virtù di questo criterio, i canti latini che la gente semplice cantava nelle parrocchie, come il Tantum ergo alla benedizione eucaristica, sono scomparsi dall’uso. La mancanza di correzione degli abusi porta alla persuasione che “la liturgia è così adesso”», lamenta.
L’arcivescovo sottolinea che per correggere gli abusi basterebbe «semplicemente far rispettare ciò che il Concilio ha stabilito, con saggezza profetica: “che nessuno, nemmeno un sacerdote, aggiunga, tolga o cambi qualcosa nella liturgia di propria iniziativa”».
«Non si può negare che la celebrazione dell’Eucaristia abbia perso precisione, solennità e bellezza. E il silenzio è scomparso in molti casi. La musica sacra merita un capitolo a parte», aggiunge.
Latino
Mons. Aguer ricorda che «il latino è stato per secoli il legame di unità e comunicazione nella Chiesa d’Occidente. Oggi non solo è abbandonato, ma anche odiato. Nei seminari il suo studio è trascurato, proprio perché non è utile».
«Non ci si rende conto che questo chiude l’accesso diretto ai Padri della Chiesa occidentale, molto importanti per gli studi teologici: penso, per esempio, a Sant’Agostino e a San Leone Magno, e ad autori medievali come Sant’Anselmo e San Bernardo. Questa situazione mi sembra un segno di povertà culturale e di ignoranza volontaria».
Il prelato sottolinea che ha sempre «celebrato con la massima devozione possibile il rito in vigore nella Chiesa universale». «Quando ero Arcivescovo di La Plata, ogni sabato, nel Seminario Maggiore “San José”, cantavo la preghiera eucaristica in latino, utilizzando il prezioso Messale pubblicato dalla Santa Sede».
«Avevamo formato, secondo la raccomandazione del Concilio Vaticano II nella Costituzione Sacrosanctum Concilium n. 114, una schola cantorum, che è stata eliminata al mio ritiro», aggiunge.
L’arcivescovo sottolinea che il Concilio Vaticano II incoraggia l’uso della lingua latina nei riti latini, «tranne che per legge speciale». «Purtroppo», avverte, «il “diritto particolare” sembra essere quello di proibire il latino, come in effetti si fa. Se qualcuno osa proporre di celebrarla in latino, viene guardato come un troglodita incauto e imperdonabile».
Nella parte finale del suo articolo, Mons. Aguer confronta il tono della Traditionis custodes con il discorso del Papa alla Comunità dei sacerdoti di San Luigi dei Francesi a Roma il 7 giugno.
«Il paragone non mi sembra arbitrario; in entrambi i casi sarebbe auspicabile notare quell’atteggiamento misericordioso che è tanto celebrato nell’attuale Pontefice», sottolinea.
«Sembra che il giudizio che la Chiesa dà, nella sua massima istanza, sul corso della vita ecclesiale proceda secondo due pesi e due misure: la tolleranza, e persino l’apprezzamento e l’identificazione con posizioni eterogenee rispetto alla grande Tradizione (“progressisti”, come sono stati chiamati) e la distanza o l’antipatia rispetto a persone o gruppi che coltivano una posizione “tradizionale”».
In conclusione, l’arcivescovo emerito di La Plata ricorda «la risoluzione che un famoso politico argentino ha brutalmente enunciato: “per gli amici, tutto; al nemico, nessuna giustizia”. Lo dico con il massimo rispetto e amore, ma con immenso dolore».
Vuolsi così colà dove si puote .....
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