Post in evidenza

ABSTULIT ATRA DIES ET FUNERE MERSIT ACERBO - #requiem

Siamo oggi listati a lutto nel giorno dei funerali di Arnaud, ragazzo diciannovenne, tragicamente coinvolto in un incidente stradale alcune ...

domenica 6 giugno 2021

Il latino dell’agricoltura e della medicina

Un altro bell'articolo sul tema del latino, la lingua della Chiesa.
Luigi

Europa Cristiana, Leone Inaudi, 25-4-21

Agricoltura

In una società come quella romana, ampiamente fondata sull’economia agricola, la lingua dell’agricoltura costituisce un aspetto fondamentale della civiltà linguistica, e con due aspetti tipologici differenti: il lessico innanzitutto, ma anche la pervasività di una certa mentalità “contadinesca” nella realtà linguistica comune, tale da portare tutta una serie di espressioni idiomatiche, proverbiali, usuali nel parlato (e nello scritto) quotidiano[1]. Pertanto una qualsivoglia indagine sulla lingua tecnica della coltivazione e dell’allevamento sarà costituita essenzialmente da due filoni: ciò che essa ha portato nella lingua comune in termini di vocabolario, anche se spesso il significato originariamente tecnico si è poi perduto, e la categoria dei termini specifici relativi al lavoro ed alla produzione agricola, cioè quelli designanti arnesi e lavori, terreni e paesaggio, fauna, sia selvatica che di allevamento, e flora, sia spontanea che coltivata[2].

Caratteristica della lingua agricola, a differenza di quelle sacrale e giuridica, caratterizzate entrambe da una notevole fissità, è la sua capacità (e diciamo pure necessità) di trasformazione, essendosi dovuta misurare – nel corso dei secoli dello sviluppo della civiltà romana (dall’VIII a. C. al V d. C.: sono ben 13 secoli) – con cambiamenti e novità talora anche epocali.

Tra le fonti principali per il linguaggio dell’agricoltura vi sono – ovviamente – i trattati tecnici De agri cultura (160 a.C.) di Catone il Censore (234 circa-149 a. C.), De re rustica (37 a.C.) di Varrone Reatino (116-27 a.C.), De re rustica di Columella (4-70 d.C.) e Opus agriculturae di Palladio (IV secolo d.C.), ma anche opere scientifiche non esclusivamente sulla coltivazione o l’allevamento, quali la Naturalis Historia (77-79 d.C.) di Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) o addirittura opere poetiche, tra le quali spiccano le Georgiche (31 a.C.), ma anche le Bucoliche (39 a.C.) di Virgilio (70-19 a.C.).

All’interno della lingua comune troviamo, come termini di ambito agricolo, l’aggettivo laetus, inizialmente «concimato, grasso», passato poi ad indicare per metonimia – sempre nel linguaggio agricolo – ciò che è «fertile, produttivo» (laeti campi sono le «pianure fertili»), sviluppando infine il senso traslato di «felice, gioioso» (e l’italiano «lieto» ne è lo sviluppo naturale). Da laetus nel suo valore originario viene laetamen (italiano «letame»), cioè il concime che rende «fertile» la terra. Ricordiamo ancora egregius, che era l’agnello più bello, quello che si distingue tra tutti gli altri del gregge (> e grege); rivalis, letteralmente colui che vive sullo stesso rivus (ruscello) di un altro, col quale si può trovare in lite per il possesso dell’acqua destinata all’irrigazione; peccare, dalla radice *pecco– (< pes, «piede»), che valeva «inciampare», e poi «sbagliare, peccare»; delirare (< lira, «solco») indicava l’«uscire dal solco», e poi «uscire di ragione»; agere (presumibilmente da ager, «campo») valeva «spingere, stando dietro, un gregge verso la campagna»[3]; pecunia («denaro»), da pecus («bestiame»), in ricordo di quando esso costituiva la principale fonte di guadagno (e di scambio); pagina, inizialmente «pergola», poi «colonna di scrittura, pagina»; sermo («discorso»), < serere («intrecciare»), poiché il discorso è un “intrecciare” parole con altri; robur («quercia»; cfr. italiano «rovere»), poi «forza» e quindi robustus; versus («verso», cioè l’elemento poetico) inizialmente era la «linea di aratura», in quanto l’aratro si volgeva (vertere) per tornare poi a tracciare un altro solco.

Altra categoria di parole nate in ambito agricolo-pastorale è costituita da una serie di nomi propri, come Ovidio (< ovis), Porcio, Taurio (< taurus), Equitio (< equus), Asinio. Sempre nell’ambito dei nomi propri, e più precisamente nella toponomastica, frequenti sono i nomi di luogo che terminano con il suffisso –(i)ano (Cassano, Avigliano, Marciano, Mercogliano, Bassano ecc.), derivati dai cosiddetti «toponimi prediali» romani, cioè i nomi con cui si indicavano i possedimenti di una persona (Marciano < Marcianus < Marcus «possesso di Marco»).

Infine ricordiamo come il lessico specificamente agricolo e pastorale sia uno dei più precisi, volendo esso rappresentare tutti i singoli elementi di uno strumento: o tutti gli esemplari di una specie, vegetale o animale. Come esempio possiamo ricordare come nell’aratro si riconoscevano la buris («fusto»), il vomer («vomere» o «lama»), il temo («timone»), i dentalia («denti», dove si attaccava il vomer), ma anche il dens, cioè l’insieme di vomer e dentalia, le aures («orecchiette»), la stiva («manico»), detto talora anche manicula. Sappiamo anche, per citare un altro esempio, che esistevano ben 12 denominazioni per altrettante diverse specie di pali per il sostegno della vite.

Medicina

Due le caratteristiche più evidenti della lingua della medicina e della farmacopea: mancando – almeno fino all’età imperiale – i trattati sistematici su questa materia, il lessico è essenzialmente legato all’oralità, esibendo anche nello stile formule brachilogiche (in genere uso di sostantivo più altro sostantivo in genitivo: atrae bilis morbus, «malattia della bile nera», per indicare una «malattia che è causata da…»); inoltre, essendo stata la medicina importata, a partire dal III a. C., in massima parte dalla cultura greco-ellenistica (anche se, in opere come il De agri cultura di Catone, non mancano formule originarie latine di tipo magico-curativo ed il ricorso alla medicina che noi chiameremmo «alternativa», cioè fondata sulle erbe e sui rimedi naturali), nel suo vocabolario predominano termini greci, usati spesso anche quando esista un loro correlativo latino, come nel caso di (precede la forma latina): verebrum/elleborum («elleboro»), collutio/diaclysma («sciacquo» > italiano collutorio), purgatorium/catharticum («farmaco per purificare» > «purga»).

Le fonti scritte sono essenzialmente trattati teorici, tra cui ricordiamo il De medicina di Celso (25 a.C.-45 d.C.), le opere di Scribonio Largo (nato nel 43/44 d.C.), per la farmacopea, di Cassio Felice (nato nel 447 d.C.), autore di un trattatello di medicina, ed ancora la succitata Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, che contiene una sezione sulla medicina da cui – nella tarda latinità – si trasse la cosiddetta Medicina Plinii (IV secolo d.C.), una pura e semplice raccolta di ricette. Non mancano tuttavia alcune, poche, testimonianze in autori non tecnici, quali le commedie di Plauto (255/250-184 a.C.) e, soprattutto, i testi (sia poetici che in prosa) di filosofi o studiosi di tale disciplina, come Lucrezio (98/94-55/50 a.C.), Persio (34-62 d.C.), Cicerone (106-43 a.C.) e Seneca(4 a.C.-65 d.C.): ciò è dovuto al fatto che era convinzione diffusa, in ambito filosofico, che tale scienza dovesse curare le “malattie” dell’anima così come la medicina curava quelle del corpo, utilizzando quindi anche gli stessi termini e le stesse immagini.

Termini di ambito medico sono valetudinarium (< valetudo, «stato di salute»), cioè l’ospedale, mentre l’aggettivo valetudinarius significava «malaticcio»[4]. Parecchi termini medici poi rivelano il loro antico fondo religioso, di quando cioè i mali fisici si credeva avessero sempre una causa divina o quantomeno soprannaturale. Abbiamo così larvatus («folle», < larva, «fantasma»), follia dunque dovuta ad una sorta di possessione da parte di fantasmi, e cerritus («pazzo» < Ceres), cioè per l’ira della dea Cerere.

Riscontriamo infine alcuni termini passati dal lessico medico a quello quotidiano: causarius (< causa [morbi]), «soldato riformato o congedato per malattia»; radére, che, inizialmente indicante il raschiare una piaga per purificarla, passò poi a significare radere («tagliare dei peli raschiandoli con una lama»), abstinére, originariamente «stare a digiuno» e poi «astenersi, trattenersi»; focillare («riscaldare» < foveo/focus), poi «rinfrancare» (da re-focillare deriva l’italiano «rifocillare»); fibula, che era lo strumento chirurgico usato per accostare i lembi di una ferita per suturarla, divenne poi la «fibbia», che unisce due parti di una stoffa. Concludiamo con due esempi ex contrario, cioè dal lessico quotidiano a quello specifico medico: siccus era usato per indicare un campo arido, ma poi significò «asciutto/magro», cioè persona in buona salute perché priva di umori malsani; e così anche ieiunus, dal significato di «campo sterile», privo di frutti, in medicina passò ad indicare «chi è vuoto, cioè a stomaco vuoto», e quindi «digiuno».


[1] Ciò accade anche per le lingue moderne. Se prendiamo in esame l’italiano, vediamo quante espressioni quotidiane di uso comune siano nate dalla realtà contadina, anche se ormai, nell’uso attuale, tale eredità è spesso o dimenticata o non più immediatamente percepibile. Pensiamo a formule metaforiche che, divenute modi di dire o addirittura proverbi, sono ormai di uso corrente quali: «Cercare un ago in un pagliaio», «Il più bello della covata», «Uscire dal seminato» (per intendere «uscire dall’argomento»), «Raccogliere buoni frutti» o «Fare un buon raccolto» (per «risultato»), «Una messe di…» (per «una gran quantità di…»), «Darsi la zappa sui piedi», «Mangiare la foglia», «L’erba cattiva non muore mai», «Chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati», «Col tempo e con la paglia maturano le nespole»…

[2] Tralasciamo, in questa sede, in quanto troppo tecnicistica, l’analisi delle differenze (fonetiche e sintattiche) tra la lingua della rusticitas, cioè contadina, e quella della urbanitas, cioè dei cittadini.

[3] Al contrario, ducere indicava invece «condurre stando davanti».

[4] Ricordiamo che il termine valetudo era vox media, che poteva quindi significare sia (buona) salute (bona/secunda valetudo) che malattia (mala valetudo). Inoltre si distingueva (e tale distinzione valeva anche, nel linguaggio traslato filosofico, per le malattie dell’anima; cfr. Cicerone nel IV libro delle Tusculanae disputationes) tra aegrotatio (“indisposizione, stato di malessere”) e morbus (“malattia”).