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giovedì 8 aprile 2021

Processo dell'Unione Europea alla legge polacca contro l’aborto

Dagli amici di IFN.
Luigi


Al Parlamento europeo la legittima normativa polacca diventa un «attacco» alle donne

Ciò che ha colpito l’attenzione di “iFamNews” è stato, anzitutto, un termine usato nel post di Facebook che promuoveva il debate previsto al Parlamento europeo nel primo pomeriggio di mercoledì 24 febbraio: «attacks», attacchi. Contro le donne, contro la loro salute sessuale e riproduttiva, contro i loro diritti.
Tema dell’audizione e del dibattimento fra i numerosi parlamentari intervenuti è stata la risoluzione della Corte Costituzionale polacca del 22 ottobre, con cui Varsavia ha decretato il divieto di aborto anche nel caso di malattie o gravi malformazioni del feto. Resta in vigore in Polonia la possibilità di interrompere la gestazione per le altre due casistiche contemplate in precedenza, vale a dire in caso di pericolo di vita per la madre o se la gravidanza è frutto di un reato: stupro, incesto, pedofilia.

La sentenza della Corte è stata pubblicata sulla Gazzetta ufficiale il 27 novembre e la legge è entrata in vigore il 27 gennaio, in tutti e tre i casi generando nel Paese mobilitazioni degli antagonisti della legge e contromanifestazioni dei suoi sostenitori. Le prime, in tutta onestà, affatto pacifiche.

Le commissioni coinvolte nella discussione sono state la LIBE (Commitee on Civil Liberties, Justice and Home Affairs) e la FEMM (Commitee on Women’s Rights and Gender Equality) e fra i presenti vi era naturalmente l’ambasciatore Andrzej Sadoś, rappresentante permanente della Polonia all’Unione europea.

Non è interessante in questo momento la “cronaca” degli interventi, ancorché in linea generale il succedersi del dibattimento lo sia stato, e sia stato assolutamente e altamente istruttivo specie per quanto riguarda l’uso ampio dell’artificio retorico che consente al vittimismo (non alle vittime si badi bene) di ergersi a censore nel tribunale della politica.

Ciò che preme, piuttosto, è di fornire un ritratto breve ma efficace degli attori sul palcoscenico.

Da un lato, vi è stato chi ha sostenuto un’accusa di gravità estrema: lo stato di diritto, in Polonia, non esisterebbe più e addirittura in base all’articolo 7 del Trattato sull’Unione europea ciò potrebbe comportare la sanzione di Varsavia da parte dell’Unione medesima. Il Tribunale costituzionale sarebbe stato «catturato dalla politica», l’indipendenza e l’autonomia del potere giudiziario sciolte come neve al sole.

Già a novembre, del resto, il Parlamento europeo aveva contestato la nuova normativa polacca, paventando l’aumento di aborti illegali e pertanto «meno sicuri»: come sempre in questi casi, ci si chiede “più sicuri” per chi.

È la posizione per esempio di Wojciech Hermeliński, ex giudice di quell’assise, che per altro sostiene vi siano nella sentenza alcuni vizi di forma e riporta invece proprio malgrado un dato interessante: gli aborti per malattie o gravi malformazioni del feto sarebbero il 97% del totale degli aborti praticati in Polonia. Vietarli equivarrebbe perciò, sostanzialmente, a vietare quasi del tutto l’aborto: un già buon risultato, secondo “iFamNews”, per quanto perfettibile. Il giudice Hermeliński propone un’altra affermazione piena di significato: «L’articolo 38 della Costituzione polacca difende il diritto alla vita, ma i giudici hanno reso valido questo diritto in maniera molto estensiva dal momento del concepimento». Il giudice pare non essere d’accordo, ma i bambini che in futuro saranno salvati per questo motivo probabilmente faranno spallucce.

Numerosi degli europarlamentari hanno sostenuto la posizione di Marta Lempart, una delle animatrici della protesta contro la legge e una delle leader del movimento delle donne che hanno partecipato alle manifestazioni di piazza. La Lempart e chi l’ha appoggiata hanno denunciato come d’abitudine la violazione dei diritti sessuali e riproduttivi delle donne polacche, buttando in un unico calderone delle streghe abusi fisici e psicologici, autodeterminazione, violenza domestica, aborto e contraccezione, educazione sessuale nelle scuole e istanze LGBT, religione cattolica e dittatura statale. Come se il più “interessante” dei diritti fosse comunque, in ultima analisi, quello di uccidere la creatura nel proprio grembo.

L’ambasciatore Sadoś ha risposto alle accuse rispedendo al mittente i sospetti di tipo giuridico e istituzionale e affermando piuttosto che «nel 2003, già prima dell’adesione all’UE era stata adottata una dichiarazione governativa sulla morale pubblica e dal canto suo il tribunale costituzionale ha ripreso una sentenza del 1997, secondo la quale il diritto alla vita deve essere tutelato dal legislatore. La Polonia si è sempre battuta per il diritto alla vita e non desidera interferenze da parte delle altre istituzioni europee».

Anche Dorota Bojemska, presidente del Consiglio per la Famiglia polacco, ha difeso appassionatamente la vita e il culto per la vita promosso nel proprio Paese, e ha riassunto i grandi risultati ottenuti dalle donne e per le donne grazie alle politiche di sostegno alla famiglia, attuate da Varsavia specialmente nell’ultimo quinquennio. La Bojemska, inoltre, ha ricordato che la sentenza della Corte Costituzionale ha ricevuto il favore della popolazione, scesa in piazza a manifestare per la sua entrata in vigore.

Due note, ancora: la prima è relativa all’intervento nel secondo panel di Neil Datta, segretario del Forum per i diritti sessuali e riproduttivi (EPF), che ha impiegato ben sei slide per denunciare come pericolosi retrogradi, dediti a minacciare la democrazia e la libertà, i legali che appartengono a Ordo Iuris, un’associazione di avvocati accreditati fra gli altri anche al Parlamento europeo, che difendono la Carta della famiglia sostenuta dal governo polacco.

La seconda, infine, riguarda invece le parole dell’europarlamentare danese Karen Melchior, la quale, parlando di diritto all’aborto «rubato» alle donne polacche, le “invita” a recarsi in Danimarca per abortire. “iFamNews” ha già raccontato di questo turismo di morte proposto dalla Svezia e dall’Islanda. Pare sia ora il turno di Copenaghen.

L’attenzione ritorna al termine «attacks», attacchi, contro le donne e la loro salute fisica e psicologica, riferito alla pur legittima normativa polacca. Non vi è alcuna accezione neutra per questa parola, neppure sforzandosi di cercarla, come si è tentato di fare: la condanna europea al Tribunale polacco era stata emessa prima ancora di incominciare a dibattere il caso.

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