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mercoledì 23 dicembre 2020

Porfiri: "Puer natus in Betlehem"

Un'altra bella riflessione per l'Avvento del Maestro Aurelio Porfiri, pubblicato da Stilum Curiae.
In fondo il video del brano
Luigi

PUER NATUS IN BETLEHEM. COMMENTO DEL MAESTRO PORFIRI.
25 Novembre 2020 

[...]

Durante il periodo natalizio, al di fuori dei “classici” come Adeste Fideles, Silent Night, In notte placida e via dicendo, c’è un altro canto che presso molti cori è un classico a suo modo: Puer natus in Betlehem. Questo inno ci racconta la storia della Natività con accenti semplici ma sinceri, con una affettività e calore veramente “popolari”. Si può pensare che il testo, di origine tardo medioevale, prenda ispirazione dall’introito liturgico Puer natus est nobis, sul quale San Giovanni Paolo II nel suo messaggio Urbi et Orbi per il Natale 1979 ci offre questa meditazione: “Ecco, ci incontriamo nel giorno della Nascita. Nasce il Bambino. Nasce il Figlio. Nasce dalla Madre. Durante nove mesi, come ogni neonato, è stato legato al suo seno. Nasce dalla Madre nel tempo e secondo le leggi del tempo umano della nascita. Dal Padre è nato eternamente. È Figlio di Dio. È il Verbo. Egli porta con sé nel mondo tutto l’amore del Padre per l’uomo. È rivelazione della divina “Filantropia”. In lui il Padre dà se stesso ad ogni uomo, in lui viene confermata l’eterna eredità dell’uomo in Dio. In lui viene rivelato, fino alla fine, l’avvenire dell’uomo. Egli parla del significato e del senso della vita umana, indipendentemente dalla sofferenza o dall’handicap che potrebbero gravare su questa vita, nelle sue dimensioni terrestri. Tutto ciò egli annuncerà col suo Vangelo. E alla fine con la sua Croce e la sua Risurrezione. Tutto ciò annuncia già adesso con la sua Nascita”. Ecco nella sua nascita già prefigurato il suo destino divino, la Madre che ride diverrà la Madre che piange, i doni dei Magi diverranno gli unguenti funerari, il legno della culla diverrà il legno della croce. Fulvio Rampi, commentando l’introito gregoriano di cui sopra osservava: “È sempre Isaia 9 che offre il testo a questo introito, là dove il profeta annuncia la nascita di un “bambino”: traduzione corretta, questa, del termine “puer”, che risuona da subito in tutta la sua forza, ma che esige di essere arricchita di senso. L’impronta messianica di quel “puer” invita infatti a dilatarne la comprensione verso una prospettiva ben più ampia di un’atmosfera da presepio. Lo stesso “bambino” è da subito inteso come “servo”, chiamato a compiere il piano salvifico del Padre e sulle cui spalle – come avverte la seconda frase dello stesso introito – è stato posto tutto il potere”. Nel Natale prefiguriamo già la Pasqua.


In fondo il nostro inno con ritornello già dalla prima strofa ci immette in questa storia sacra: un bambino è nato in Betlemme e ne gioisce Gerusalemme. Ciò che accade nel piccolo ha risonanza nel grande, ciò che inizia in Betlemme risuonerà in grande nella Gerusalemme dell’apparente compimento terreno.

Il numero delle strofe del testo, probabilmente nato in area germanica, varia a seconda delle versioni. Il ritornello ci predispone al mistero dell’Incarnazione e alla novità cristiana: con la gioia nel cuore adoriamo Cristo nato con un cantico nuovo. Questa gioia che ci viene chiesta non è la gioia superficiale che si tenta di imporre in molti “canterelli” liturgici in cui si sfruttano gli effetti dionisiaci di certe armonie, ma in caso quella che deriva dalla compostezza apollinea della musica liturgica, una compostezza di cui ci occuperemo a breve parlando del canto in oggetto.

Nelle strofe ci viene richiamato questo vincolo con il carnale: assumpsit, concepit, processit, iacet…come ben dice Vittorio Messori nel suo “Ipotesi su Maria”: “senza la radice di carne che è il corpo di quella Donna, tutto il mistero dell’Incarnazione finisce col perdere l’indispensabile materialità per farsi evanescente spiritualismo, moralismo sermoneggiante o, peggio, pericolosa ideologia”. È interessante questa osservazione, in quanto la “tota pulchra, sine macula” Maria è proprio Colei che ci lega al nostro destino di carne. Il rischio dell'”evanescente spiritualismo”, proprio nel nostro tempo in cui trionfa il materialismo, sembra una reazione impazzita, una patologia non assente all’interno della Chiesa Cattolica. Ma in realtà il nostro canto invita tutta la creazione a farsi presente al mistero dell’Incarnazione: cognovit bos et asinus quod Puer erat Dominus. Anche il bue e l’asinello, gli animali che secondo una pia tradizione riscaldarono il neonato nella grotta, anche loro si arresero di fronte alla divinità del bambinello. Cioè, seguendo il ragionamento dell’anonimo estensore dell’inno, anche l’istinto cattura i bagliori della divinità.

Egli diviene simile a noi nella carne, ma dissimile nel peccato, prosegue il canto in questione, ma con la sua Incarnazione ci ha reso simili a Dio. Ci soccorre nella comprensione di questo passaggio San Josemaría Escrivá de Balaguer: “La vita d’orazione e di penitenza e la consapevolezza della nostra filiazione divina, ci trasformano in cristiani di profonda pietà, simili a bambini davanti a Dio. La pietà è la virtù dei figli, e perché il figlio possa abbandonarsi nelle braccia di suo padre, deve essere e sentirsi piccolo, bisognoso di tutto. Ho meditato frequentemente sulla vita di infanzia spirituale: essa non è in contrasto con la fortezza; anzi, richiede una volontà forte, una maturità ben temprata, un carattere fermo e aperto. Pietà di bambini, dunque; ma non ignoranti, perché ognuno deve impegnarsi, nella misura delle sue possibilità, nello studio serio e scientifico della fede: la teologia non è altro che questo. Pietà di bambini — ripeto — e dottrina sicura di teologi. Il desiderio di acquistare la scienza teologica — la buona e sicura dottrina cristiana — è mosso, in primo luogo, dal bisogno di conoscere e amare Dio. Nello stesso tempo, è anche conseguenza della preoccupazione di un’anima fedele di scoprire il significato profondo di questo mondo, opera del Creatore. Con ricorrente monotonia, alcuni cercano di far rivivere una presunta incompatibilità tra fede e scienza, tra intelligenza umana e Rivelazione divina. Questa incompatibilità si manifesta, ma soltanto apparentemente, quando non si comprendono i termini reali del problema”. Ecco, questa filiazione ci salva dalla protervia dell’umano che vuole farsi divino senza Dio.

La melodia si muove nell’ambito del primo modo gregoriano, che appunto noi chiamiamo Protus. Interessante osservare come nelle strofe, di genere sillabico come il ritornello, predominano il Re e il Fa, due gradi importanti della scala ma che fanno pendere il quadro modale più sul secondo che sul primo modo, una tendenza all’abbassamento che forse ci riporta alla mente proprio quell’abbassamento che fu quello di Dio che si fece uomo. Il Protus che a noi suona come modo minore, in realtà non è triste ma austero. Questo è il senso della gioia cristiana, non scomposta e scapestrata ma virile ed austera. Ma questa austerità conosce gli impeti della gioia, infatti nel ritornello alle parole “in cordis iubilo” la melodia sale e sale come se questa gioia non trovasse un momento di riposo. Momento di riposo che troverà sul Do, grado più alto toccato in questa melodia, dando un senso ora pieno di primo modo dopo le tendenze al secondo delle strofe e affermando con un bell’intervallo di quinta, consonanza perfetta, “Christum natum adoremus cum novo cantico!”.

Insomma un bel canto per meditare in profondità il mistero del Natale.

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