Un racconto natalizio dell'amico Paolo Gulisano,
Luigi
Paolo Gulisano
24-12-20
Il paese era già sprofondato nel silenzio, mentre il buio scendeva rapidamente tra le case.
“Non riesco ancora ad abituarmi a quanto rapidamente tramonta il sole, qui in oriente” disse il giovane legionario.
“Perché non sei nato a meridione quanto me, ragazzo” rispose il legionario più anziano, stringendosi nel mantello, “in Sicilia, la mia terra, perfino d’estate i tramonti sono molto rapidi. Piuttosto, io non capisco perché faccia così freddo tra queste colline…”
“Sì, stasera fa molto freddo. Sarei rimasto volentieri accanto al fuoco” disse il giovane legionario.
“Già– aggiunse il veterano- a festeggiare il Dies Natalis Solis Invictus. Siamo nell’ora più buia dell’anno, ma il sole ora comincerà il suo cammino per tornare a splendere caldo e lucente.”
“Smettetela di blaterare!” gridò con rabbia feroce il centurione. “Non siete qui per chiacchierare del tempo e del sole”.
Il centurione Catto Cornelio Severo guardò i due soldati con uno sguardo che lasciava trapelare il suo forte nervosismo. Le sue mani stringevano in una morsa robusta le redini del cavallo, come se da un momento all’altro dovesse dare di sprone.
Aulo Valerio, il legionario più anziano, fissò il suo comandante con una certa preoccupazione. Lo conosceva da anni, ma negli ultimi giorni gli sembrava cambiato. Era sempre stato un ufficiale violento, crudele, che provava piacere a infliggere dolore, ma negli ultimi giorni pareva decisamente peggiorato. Disdegnava anche la compagnia delle prostitute, che pure aveva sempre frequentato. Aulo si stava chiedendo se non fosse malato, ma di una strana malattia, una malattia che gli aveva ottenebrato la mente.
“Il comandante sembra molto agitato” sussurrò il giovane Quinto Cassio, giunto da poco tempo in quella remota provincia orientale.
“Taci” gli ingiunse il compagno d’arme. “Siamo in una missione molto particolare, credo, e il Centurione è molto teso. Vedi di non farlo inquietare, o quando rientreremo a Geusalemme te la farà pagare cara. Ancora non lo conosci bene, ma è l’ufficiale più spietato della X Legio Fretensis”.
La legione aveva una storia lunga e gloriosa. I suoi uomini erano reclutati prevalentemente in Calabria e in Sicilia, da cui il suo nome, Fretensis, la Legione dello Stretto. Erano uomini coraggiosi, decisi, ritenuti adatti per tenere a bada quegli ostinati ribelli Giudei.
Quinto Cassio si tacque, obbediente. Nella legione aveva imparato che bisognava fare poche domande. Lui, tuttavia, aveva un animo curioso e un po’ inquieto, e aveva un certo spirito di avventura. Fin da bambino aveva sognato di compiere grandi imprese, di impugnare una lancia.
Per un attimo incrociò lo sguardo terribile del Centurione. L’ufficiale sembrava avesse dentro una rabbia pronta ad esplodere. Non aveva detto ai due soldati che cosa erano venuti a fare in questo villaggio a sud di Gerusalemme, ma Quinto immaginava che si trattasse di un’operazione segreta. Aveva tutta l’aria di essere un agguato. Si erano fermati infatti nella parte più elevata del villaggio, in modo di avere una vista delle strade di accesso. Il Centurione, evidentemente, stava aspettando l’arrivo di qualcuno.
La “casa del pane”: questo era il significato del nome del villaggio, che Quinto Cassio sapeva avere una grande importanza nella storia del popolo di Israele. Qui era nato uno dei loro più importanti sovrani, un certo Davide.
“Ci siamo!” sibilò sottovoce, come un serpente, il centurione. Finalmente li aveva scorti. Evidentemente erano già arrivati in paese prima del suo arrivo. Quegli idioti degli informatori di Re Erode se li erano fatti sfuggire, ma una delle poche spie efficienti aveva informato il palazzo. Secondo gli accordi, il re aveva immediatamente comunicato la notizia al Centurione, che si era affrettato a partire portando con sé quei due idioti. Mentre cavalcava verso Betlemme, una voce dentro di lui- quella voce che sentiva ogni notte da diverso tempo- gli ripeteva di sbrigarsi, di fare in fretta. “É l’ultima occasione” gli diceva la voce.
Li aveva avvistati uscire da una capanna. L’uomo sembrava stanco, affranto, preoccupato. La donna aveva sul viso un’espressione che per un attimo gli fermò il respiro: una dolcezza straordinaria che colpì perfino lui.
“Non li hanno presi nella locanda “ sibilò. “Non c’è più posto. Siete arrivati tardi, ed ora ci penso io a voi”.
Vide la coppia allontanarsi. L’uomo aiutò la donna a salire in groppa ad un asino. La donna faceva fatica a muoversi, impedita dal suo addome prominente. Era quello l’obiettivo. “Le aprirai il ventre con la spada e le tirerai fuori il bambino. Poi gli taglierai la gola” questo gli ripeteva la voce. Il Centurione strinse l’elsa della spada tra le mani gelide.
“Muoviamoci” disse ai suoi due uomini. “Seguiamo a distanza quella coppia. Credo di sapere dove stanno andando”.
La coppia si era fermata a parlare con alcuni abitanti del paese, che gli avevano indicato un sentiero che portava al di là del nucleo abitato, verso i campi dei pastori, dove sul fianco della collina c’erano delle grotte. La loro intenzione era evidentemente di passare lì la notte. .
“Il lavoro deve essere fatto lì” disse Catto.
Quinto Cassio intuì quello che stava per succedere. Era davvero un agguato quello che dovevano compiere, un omicidio a sangue freddo. Una missione per Roma? Ne dubitava, ma l’obbedienza gli impose di seguire il suo comandante. I tre romani attraversarono lentamente il villaggio. Gli abitanti li guardarono impauriti, quei pochi che erano ancora in casa. Temevano e odiavano i soldati della Fretensis, il cui simbolo era un cinghiale, un animale impuro per la loro religione.
Era già buio quando la donna incinta e il suo uomo raggiunsero la grotta.
Il centurione sembrava un animale feroce eccitato dalla caccia. Il buio avrebbe favorito l’azione. Un lavoro di pochi minuti. Prima avrebbe ucciso l’uomo, poi avrebbe sventrato la donna, e finalmente la voce si sarebbe placata. Anzi: avrebbe esultato. La voce ormai urlava infoiata dentro di lui: Uccidilo! Uccidilo!
Improvvisamente la figura emerse dal buio, e si stagliò di fronte ai tre romani, avvolta in un mantello che scendeva fino ai piedi. Una figura alta, imponente. Aulo pensò immediatamente- con l’istinto del vecchio soldato- che non poteva essere un semplice pastore. Sguainò la spada e si mise a protezione del suo comandante.
“Chi sei? Ti intimo di fermarti e farti riconoscere” esclamò il soldato.
Dalla figura incappucciata non venne alcuna risposta. Continuò ad avvicinarsi, fino a quando non fu a pochi metri, di fronte al centurione.
“Testa dura di un giudeo, che te ne vai in giro di notte, adesso vediamo se non abbassi le arie!” gridò Aulo.
Lo sconosciuto volse lo sguardo verso di lui, e il legionario rimase impietrito, con la bocca ancora aperta, in una espressione che Quinto Cassio trovò ridicola e grottesca.
Quindi abbassò il cappuccio, e fissò il centurione.
Il giovane soldato lo guardò con stupore. Non aveva mai visto un volto così. Splendeva in esso una bellezza, una perfezione, una luce che non aveva mai visto.
Il centurione tremava di rabbia. Il suo volto si era trasfigurato: era l’immagine stessa dell’odio. I suoi lineamenti erano contorti, spaventosi. Le sue dita stringevano l’elsa della spada in modo convulso. “Non mi fermerai! ” urlò con una voce che non era più quella che Quinto conosceva bene. “Lo ucciderò!” fu il grido roco e rabbioso che uscì dalla sua bocca.
Lo sconosciuto lo fissò, e il suo viso prima dolcissimo diventò duro come pietra. I suoi occhi colore dello smeraldo fissarono il centurione intensamente.
“Chi come Dio?”
Quelle parole, pronunciate con voce calma, profonda, ferma, risuonarono nel silenzio del campo.
Lo sconosciuto le ripetè una seconda volta, con voce più alta.
Il corpo del Centurione era squassato da una rabbia furiosa. Si girò verso Aulo, ma il vecchio soldato era come una statua, pietrificato. Poi guardò il soldato più giovane.
“Attaccalo!” gli urlò “impegnalo mentre io vado a compiere la missione”.
Quinto Cassio guardò lo sconosciuto, poi di nuovo volse lo sguardo al suo comandante.
“Non posso” sussurrò, e depose la spada, chinando il capo di fronte allo sconosciuto.
Il centurione Catto Cornelio Severo si morse le labbra, poi esplose in un grido animalesco di furore, e si scagliò contro lo sconosciuto.
Quello che Casio Quinto vide in quel momento, non potè mai dimenticarlo: lo sconosciuto affrontò l’assalto dell’ufficiale a mani nude: gli afferrò le braccia, e al centurione cadde la spada. Poi lo sollevò sopra la propria testa, e lo scagliò a metri di distanza. L’ufficiale giacque a terra, immobile.
Il silenzio era tornato sul campo dei pastori. Lo sconosciuto volse lo sguardo verso la grotta. La donna, che sembrava conoscerlo, gli volse uno sguardo di gratitudine ,e alzò una mano i segno di saluto.
Lo sconosciuto la ricambiò, e finalmente Quinto Cassio vide sul suo volto un sorriso.
Il soldato di Roma lo guardò con sempre maggiore stupore.
“Chi siete?” gli chiese
“Un Principe. Un Principe guerriero. E tra poco potò adorare il mio Re.”
“Un Re, qui? E dove?”
Il Principe indicò col braccio la grotta.
“Il Re sta per venire. Qui. Nell’ora più buia. Tutto sta per compiersi”.
“Il Re sta per nascere da quella donna, è così?”
“Esattamente. Tu hai occhi che sanno vedere, Quinto Cassio Longino”.
“Tu conosci il mio nome?”
Il principe fece un cenno di assenso col capo.
“Posso assistere al parto? Posso vedere il Re bambino?”
“No, Longino. Non puoi. Ma incontrerai un giorno il Re. Nel momento del suo sacrificio. Nel momento del suo trionfo”.
Longino fissò la grotta. La donna si era sdraiata, con il suo uomo premurosamente accanto.
“Ora è tempo che tu vada, Longino. Il tuo compagno d’arme si sta risvegliando. Tornate a Gerusalemme. Direte che il centurione ha avuto un brutto incidente cadendo da cavallo”.
“Andate ora. A Oriente sta sorgendo una stella.”