Ringraziamo il lettore che ce l'ha gentilmente segnalato questo articolo uscito ieri 19.10.2020 (qui il sito)
Roberto
LIBERARE L’ECONOMIA DALLE IDEOLOGIE:
UN PRESSANTE INVITO DELLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA
S.E. Mons. Giampaolo Crepaldi
Lectio magistralis tenuta alla III Giornata Nazione della Dottrina sociale della Chiesa, svoltasi a Lonigo (Vicenza) presso il Convento francescano di San Daniele, sabato 17 ottobre 2020
Il titolo di questo mio intervento pone in relazione la Dottrina sociale della Chiesa con le ideologie in campo economico. Credo sia utile notare subito che la Dottrina sociale della Chiesa si contrappone, per sua intima natura, all’ideologia perché è realista mentre l’ideologia è sempre un occultamento strumentale della realtà. Anche Karl Marx la definiva così, ma dentro un sistema di pensiero che era a sua volta ideologico. Pensare infatti – come egli faceva – che la verità si faccia tramite la prassi è pura ideologia. Questa osservazione ci dice una cosa importante: non è sufficiente denunciare e criticare le ideologie, bisogna anche farlo in modo non ideologico. Le ideologie si accusano spesso tra loro di essere ideologiche, ma rimanendo sempre dentro il gioco dell’ideologia. La Dottrina sociale della Chiesa, invece, lo fa dall’esterno, senza partecipare al gioco dell’ideologia. Il motivo ce lo ha detto la Caritas in veritate di Benedetto XVI, ricordandoci che la verità si fa dono di sé senza essere nostra produzione. L’ideologia è una nostra produzione con la quale vogliamo coprire la realtà e la verità, considerate come una grande ideologia. La Dottrina sociale della Chiesa è invece realista, pensa che la verità non sia ideologica, anzi che ci liberi dalle ideologie proprio perché è ricevuta e non prodotta da noi. La verità rende liberi. L’ideologia è sempre un artificio, la Dottrina sociale della Chiesa non lo è mai. Anzi, essa educa l’intelligenza e il cuore degli uomini alla realtà, al retto ragionamento, ad una fede consapevole e ragionevole, al vero sviluppo, alla fiducia nelle risorse umane e nell’uomo come risorsa. L’ideologia è pessimista perché non vede nella realtà se non una falsificazione, la Dottrina sociale della Chiesa è invece ottimista perché rifiuta di coprire la realtà con una coltre favorevole a degli interessi di parte. La Dottrina sociale è “della Chiesa” e la Chiesa è la Sposa del Logos, della Sapienza e della Verità. Le ideologie sono delle maschere, la Dottrina sociale guarda il Volto di Cristo in cui il Padre si è rivelato e che rivela anche il volto dell’uomo.
Vorrei fare subito un esempio preso dall’attualità per far meglio comprendere questa contrapposizione tra ideologia e Dottrina sociale della Chiesa. Non c’è dubbio che l’attuale pandemia da Covid/19 abbia avuto e avrà importanti ripercussioni sull’economia. Credo che, nel marasma delle informazioni che ci arrivano a questo proposito, due elementi possano essere ritenuti certi. Il primo è che l’impatto sull’economia reale delle imprese e delle famiglie sarà molto pesante. Attualmente gli effetti sono tenuti a freno da misure artificiali, ma ciò non può durare a lungo. Il secondo è che ci sono molti centri di potere politico e finanziario che intendono usufruire della pandemia per riorganizzare, in un senso che non può lasciarci tranquilli, l’economia mondiale. L’economia in questo momento è quindi preda di ideologie e la stessa pandemia viene gestita ideologicamente. Tutti ci accorgiamo che i dati non ci giungono in versione corretta, o che la scienza e gli scienziati sono gestiti con criteri non scientifici. Intellettuali laici, come per esempio Giorgio Agamben, lo evidenziano. Una coltre ideologica è oggi stata posta sulla realtà dell’economia, anche con la collaborazione degli economisti. La parola economia indica sia la realtà delle relazioni economiche sia la scienza economica. Talvolta gli economisti non servono le reali necessità dell’economia, ma si prestano alle sue deviazioni ideologiche. Questo accade quando “l’intero sistema morale” della società non tiene ma presenta fessure, o addirittura veri e propri cedimenti o crolli. Non dimentichiamo che la scienza economica non si caratterizza per un rigore assoluto. Certo, esiste una razionalità economica, una economia contrapposta ad una diseconomia, ma si sa che le scienze umane sono al più basso livello nella scala del rigore scientifico e che non è vero quanto sosteneva Popper, ossia che prevedere un’eclissi di sole sia lo stesso che prevedere un crollo della borsa. L’economia dipende dal sistema morale di riferimento. Giovanni Paolo II ci ha insegnato che un crollo economico non ha mai solo delle cause economiche. C’è una imprenditorialità umana che precede l’imprenditorialità economica, come ci ricorda la Caritas in veritate. L’economia dipende dalle ideologie quando dimentica questo; la Dottrina sociale della Chiesa la salva dalle ideologie quando le ricorda questo.
Ho fatto riferimento ad alcuni aspetti della situazione odierna perché, come vescovo, non sono direttamente interessato alle vicende spicciole del governo della pandemia, ma ho sentito il dovere di fare una riflessione dal punto di vista della Dottrina sociale della Chiesa. Credo di poter dire che in questo frangente essa non sia stata granché adoperata e proposta. La salvezza è stata spesso ridotta alla salute e il bene comune è stato fatto coincidere con l’applicazione delle restrizioni disposte dal governo. In questo modo l’economia è stata abbandonata alle ideologie. La Dottrina sociale ha delle esigenze che essa pone all’economia, non nel tentativo di farla diventare fede religiosa o etica sociale, ma per renderla meglio economica, nella consapevolezza che non può esserlo separandosi dall’etica sociale e dalla fede religiosa. La più grande ideologia economica è che l’economia sia in grado di fare da sé e che per essere vera economia abbia bisogno solo di se stessa. A partire dalla correzione di questa macro-ideologia, la Dottrina sociale della Chiesa interviene per correggere una serie di possibili ideologie economiche. Vorrei indicarne a titolo d’esempio alcune, cercando anche di mantenere lo sguardo sull’attualità, soprattutto italiana ed europea.
Tra i principi fondamentali della Dottrina sociale della Chiesa c’è il diritto naturale alla proprietà privata, da sempre presente nel Magistero sociale da Leone XIII fino a Papa Francesco. Prevedendo sue possibili deformazioni, Leone XIII aveva suggerito di considerare i beni come propri per quanto riguarda il possesso, ma come comuni per quanto riguarda il loro uso. Questa distinzione è di ordine morale ed è propria della persona e della sua creatività. Inoltre deve essere attuata nel rispetto dell’ordine sociale, per esempio passando prima di tutto dalla famiglia e dai corpi intermedi. Quando invece l’uso sociale della proprietà viene imposto dall’alto di un sistema politico centralistico, quando si pensa di attuarlo mediante un sistema fiscale ingiusto o perfino di rapina, quando per farlo si costruisce un sistema burocratico il cui scopo è a propria conservazione e magari a proprio ampliamento, allora il principio del diritto alla proprietà privata viene coperto dall’ideologia. Capita così anche quando esso viene contrapposto al principio della destinazione universale dei beni, oppure quando viene inteso come uno strumento nei suoi confronti, privo di una propria dignità se non come semplice mezzo per realizzare la destinazione universale. I due principi della proprietà privata e della destinazione universale dei beni vanno intesi come sullo stesso piano, oserei dire come due facce di uno stesso principio. È vero che la proprietà privata è la principale via per realizzare la destinazione universale dei beni, ma ciò non significa che debba essere intesa solo come uno strumento dalla dignità non originaria ma derivata. Esso, infatti, è presente perfino nel Decalogo, è un elemento di diritto naturale e rivelato.
Faccio queste osservazioni non per celebrare l’esasperazione individualistica della proprietà privata, ma perché ho l’impressione che l’attuale gestione ideologica della pandemia miri a ridimensionare questo principio attraverso due strade apparentemente contrapposte ma oggi combinate insieme. La prima è la ripresa del centralismo statalistico. La debolezza della popolazione, l’allarme sociale spesso indotto e l’isolamento alimentano un bisogno di protezione che offre allo statalismo uno spazio inatteso. Lo Stato centrale non sta dando grandi risposte alle problematiche sanitarie e a quelle sociali che ne conseguono, eppure casi come l’Italia, oltre a tanti altri, testimoniano questi processi di riaccentramento. L’altro percorso, apparentemente diverso, è l’impulso che la pandemia ha dato alla cosiddetta “società aperta”. Con ciò si intende una maggiore unificazione globale, la creazione di forti poteri sovranazionali, un meticciato culturale post-religioso, una “obbedienza” universale nei nostri stili di vita, l’accettazione di una gerarchia di valori artificialmente prodotta. Si dice che la pandemia ci obbliga a lavorare insieme, che richiede il cambiamento dei nostri stili di vita, che dobbiamo eliminare i confini. Si tratta, evidentemente, di forzature ideologiche che si appoggiano su alcuni elementi di verità per poi deformare il quadro complessivo. Per esempio, è vero che la pandemia ci impegna a lavorare insieme, ma questo richiede anche di tracciare dei confini e di non trascurare l’apporto dei soggetti della società civile, locali e nazionali. Ai tempi dell’emergenza acuta della primavera scorsa il volontariato non istituzionalizzato ha dato un grande contributo. È vero che dobbiamo cambiare stili di vita, ma non assumendo quelli imposti da un supposto nuovo ordine mondiale, bensì quelli collegati con la natura dell’uomo, la famiglia, la vita. Come mai – possiamo chiederci – tra i cambiamenti di vita proposti non c’è mai la riscoperta della famiglia, del matrimonio, della procreazione secondo modalità umane, dell’importanza anche economica ed ecologica della natalità? L’economia viene così colonizzata da un lato da un nuovo statalismo e dall’altro da un nuovo mondialismo, due coltri ideologiche che la trasformano in diseconomia. Sembrano lontane tra loro ma convergono nel criterio del controllo centralistico che la Dottrina sociale della Chiesa ha sempre rifiutato.
Ho toccato il tema del nuovo mondialismo. La Dottrina sociale della Chiesa ha sempre insegnato il principio dell’unità del genere umano. Una unità di origine e di destino. Questo principio però non deve essere confuso con le principali proposte mondialiste in scena oggi. Non dovremmo tollerare equivoci su questo tema. Se inseguiamo le ideologie oggi prevalenti, finiremo per dare il nostro contributo a soluzioni sbagliate e dolorose. Né possiamo accontentarci di sintonie nominalistiche con le proposte culturali di oggi. La parola fratellanza oggi assume molti significati alla cui diversità dobbiamo prestare molta attenzione. Per la Dottrina sociale della Chiesa la fraternità o fratellanza umana si fonda su due livelli. Il primo è di ordine naturale: siamo fratelli perché siamo tutti uomini, siamo uguali in dignità, calpestiamo lo stesso suolo, viviamo insieme non per motivi di fatto ma per vocazione. Questo piano naturale ci dà anche le regole della nostra fraternità, ossia il diritto naturale e la legge morale naturale, che permettono alla fratellanza ontologica di diventare anche fratellanza morale. Il Decalogo è una legge di fraternità e di fratellanza. Esso, infatti, è valido a tutte le latitudini. L’altro piano è quello soprannaturale: siamo fratelli perché figli di Dio, figli di un unico Padre. Quello naturale è il piano di una fratellanza civica ed etica, quello sopra-naturale è il piano di una fratellanza religiosa e salvifica. I due piani sono in continuità tra loro, perché la natura rimanda al Creatore e la sopra-natura al Salvatore, che sono lo stesso Dio. Non mi sembra che ci siano altri tipi di fratellanza degni di questo nome oltre a questi due. Parlo di una fratellanza fondante e originaria (Cf a questo riguardo l’enciclica Fratelli tutti di Papa Francesco). Ce ne possono essere di secondarie e derivate, che però sono fratellanze non in senso sostanziale ma accidentale o metaforico. Dopo questa premessa veniamo al punto che ci interessa. L’economia non genera di per sé fratellanza, ma la può aiutare se si fa guidare dalla fratellanza vera nei due ordini richiamati sopra. Quando invece si deforma il concetto di fratellanza per ragioni riconducibili all’economia, allora si deforma anche l’economia. Mi sembra essere questa, a ben considerare le cose, la situazione dell’Unione Europea, dove si aveva una certa idea di fratellanza che avrebbe dovuto animare l’economia, ma alla fine è stata la nuova economia a chiedere e ottenere un nuovo concetto (sbagliato) di fratellanza. Dal quadro culturale dell’Unione Europea sono spariti infatti sia il fondamento naturale della fratellanza, dato che al diritto naturale le Corti europee e il Parlamento europeo non accennano più, sia il vero fondamento trascendente, che non è rimpiazzabile con un generico rifermento alle religioni, qualsiasi esse siano.
Un dato che abbiamo oggi sotto gli occhi sembrerebbe confutare questa mia ultima osservazione. Infatti in Europa sembrerebbe nata una nuova religione e, quindi, non sarebbe vero che l’Unione abbia abbandonato la trascendenza. Questa nuova religione è la religione ecologista. So che il dodicesimo Rapporto dell’Osservatorio Cardinale Van Thuân, di prossima uscita, riguarderà proprio questo problema: l’ecologismo, o naturalismo o ambientalismo. Bisogna riconoscere che da lì arrivano oggi molte suggestioni ideologiche che riguardano anche l’economia. Ci dicono che le fonti non rinnovabili di energia sarebbero lì per finire; ma ne siamo proprio sicuri? Ci dicono che le emissioni umane, soprattutto di anidride carbonica, sono la principale causa del riscaldamento globale. Ma ne siamo proprio sicuri? Ci dicono che gli impianti delle energie rinnovabili sono ecologici. Ma ne siamo sicuri? Ci dicono che la green economy sarà un’economia leggera, equa, sostenibile. Ma ne siamo proprio sicuri? Non entro nel dettaglio di questi argomenti. Io sono vescovo e non un ingegnere dell’ambiente. Però anche i vescovi leggono e si informano. Ho così appreso che i Paesi europei hanno una dotazione permessa di una certa quantità di emissioni. Un Paese può vendere ad un altro Paese quote delle proprie emissioni. Ciò ha permesso di costruire una vera e propria borsa della compravendita dei diritti alle emissioni, con la creazione anche qui di “derivati” e l’acquisizione di ingenti fortune mediante la speculazione finanziaria. Ma allora la nuova green economy ha molte caratteristiche della vecchia economia finanziaria. Mi ricordo che negli anni a cavallo del passaggio di millennio si parlava molto di una e-economy, di una economia elettronica via web, come fosse la liberazione. Poi però ho letto alcuni libri sull’organizzazione del lavoro nei gradi centri di e-commerce e ho capito che i problemi dell’economia erano ancora tutti lì e che nessuna vera salvezza era arrivata. Del resto è piuttosto ingenuo pensare che dietro a proposte economiche non si celino degli interessi e che l’ecologismo oggi molto spinto sia gratuito e unicamente fondato su ideali. L’ecologismo odierno, se applicato secondo le ideologie che sembrano dominarlo, produce ingiustizie e colpisce i poveri. Si spendono più risorse per i cani che per i bambini; per le ricerche sulla salubrità dell’aria che per difendere la vita; per insegnare alle nuove generazioni a rispettare l’ambiente piuttosto che ad avere figli. Benedetto XVI nella Caritas in veritate ha messo in evidenza con grande chiarezza questa stortura di fondo della nostra cultura, che disorienta l’economia dai suoi veri obiettivi. Si spendono somme enormi per difendere la natura più che per difendere l’uomo. Opera qui l’ideologia di una natura disumanizzata, che però a questo punto è solo un mucchio di pietre. Si pensi per esempio alle ricorrenti previsioni sull’esaurimento delle risorse energetiche. Esse prescindono dalla risorsa uomo, come se tutto fosse in mano alla materia e niente in mano all’intelligenza umana.
Il principale danno economico prodotto dall’ideologia ambientalista consiste nell’indurre a ridurre la natalità. Se impostiamo l’economia sui consumi individuali e prevalentemente voluttuari, una società senza figli, senza famiglia, fatta di individui asessuati o dalla sessualità polivalente che lavorano per consumare e consumano per lavorare è senz’altro attraente per gli operatori economici senza scrupoli. Ma se guardiano all’economia vera, vediamo che se non c’è la famiglia e se non si mettono al mondo figli il sistema in generale non regge. L’ideologia antifamilista e antinatalista è oggi tra le più perniciose. Giovanni Paolo II aveva ben messo in evidenza la fondamentale importanza economica della famiglia che è scuola di lavoro, motivo di risparmio, ammortizzatore sociale nelle crisi, capitale sociale, educazione alle virtù civiche, trasmissione delle conoscenze e delle competenze tra le generazioni. La carenza di nuovi nati provoca mancanza di visione del futuro da parte di una società anziana, costi improduttivi, dipendenza dalle istituzioni politiche, stagnazione della creatività nel lavoro. L’ideologia antifamilista ed antinatalista vuole cambiare l’economia ma lo scopo è quello di creare una società antifamilista e antinatalista nei valori diffusi. Il suo scopo è negare la famiglia e la vita. E, si badi bene, non solo per negare la famiglia e la via naturali, ma per negare la Sacra Famiglia e la vita soprannaturale. Se nella società diminuiscono i negozi di indumenti per neonati e aumentano i centri di toelettatura per cani è evidente che dietro l’economia c’è l’ideologia, che sovverte i valori in gioco. Ma teniamo presente che sovvertire i valori in gioco necessariamente deve spingersi al fondamento ultimo dei valori in gioco. Penso seriamente che quando parliamo di economia o di ecologia non abbiamo sempre la consapevolezza adeguata di quanto tutte le ideologie che su di esse insistono abbiano anche un valore religioso o antireligioso. Pensiamo che la questione di Dio non c’entri e invece è proprio quella centrale. Del resto è per questo che la Dottrina sociale della Chiesa se ne interessa. Se la questione di Dio fosse accessoria e marginale e se le cose potessero andar bene anche senza di lui, la Dottrina sociale della Chiesa sarebbe utile ma non indispensabile, come invece noi pensiamo che sia. Uno sguardo ideologico sulla vita, sulla famiglia, sulla natura, sull’economia non è neutro da conseguenze di tipo religioso. Vorrei ricordare qui la quarta glossa di Marx a Feuerbach che leggo nella traduzione italiana di Palmiro Togliatti: “dopo che si è scoperto che la famiglia terrena è il segreto della sacra famiglia, è la prima che deve essere criticata”. Si demolisce la famiglia naturale ma lo scopo è demolire la Sacra Famiglia. L’ideologia ecologista è collegata con l’ideologia antinatalista, dato che avere più di un figlio è considerato oggi una minaccia per l’ambiente. La politica del figlio unico è presente anche nelle nostre società occidentali.
Tutto questo sta alla base di un’altra ideologia oggi diffusa, l’ideologia della decrescita economica. Benedetto XVI nella Caritas in veritate liquida tale prospettiva dicendo che essa manca di fiducia nell’uomo. Possiamo qui riprendere quanto già detto in precedenza: la natura non va mai considerata solo in se stessa ma sempre in rapporto all’uomo e al suo dovere di dominarla, organizzarla, farla produrre per l’umanità, secondo giustizia certamente e non in modo scriteriato, ma anche senza rinunciare alla propria posizione centrale: la natura è per l’uomo e non l’uomo per la natura. Sul concetto di decrescita pesa ormai una pesantezza ideologica molto evidente. Essa non significa la semplice prudenza economica, ma indica un blocco del progresso e della produzione di ricchezza, come se l’essere tutti più poveri fosse di per sé garanzia di giustizia e pace. Intesa in questo senso, la decrescita ha tutte le caratteristiche dell’utopia, oltre che quelle dell’ideologia. I vari millenarismi e pauperismi eretici che abbiamo conosciuto nel corso della storia esprimevano lo stesso concetto. La Chiesa però li ha sempre contestati e l’operosità dei monaci ha sempre pensato di umanizzare la natura più che di naturalizzare l’uomo. A fare ciò essi sono stati spinti non solo dall’amore per la natura, non solo dall’amore per l’uomo, ma soprattutto dall’amore per Dio.
Le utopie hanno sempre procurato grandi dolori all’umanità. L’utopia della decrescita fa propria l’utopia egualitarista, che intende la comune dignità degli uomini come una identità esistenziale. Che tutti gli uomini siano uguali per dignità essenziale è vero. Ciò però non significa che siano uguali per dignità morale, né che siano uguali per condizioni di vita. Quando le diversità non sono causate da ingiustizie, rappresentano un valore per la società intera perché non tutti gli uomini hanno gli stessi talenti e non tutti sono capaci dello stesso impegno. Quando prevale il centralismo sia politico che economico si corre il rischio di intendere l’uguaglianza come appiattimento garantito dal sistema. Più o meno tutte le forme di welfare statalistico che abbiamo vissuto negli ultimi decenni hanno fatto questo errore. L’ideologia egualitarista fa poi un altro errore di impostazione: pensa che le disuguaglianze sociali provochino le disuguaglianze morali, mentre è vero il contrario. Non è la povertà a produrre immoralità ma l’immoralità a produrre povertà.
Mi avvio ora alla conclusione di questo intervento. Nei confronti delle nuove ideologie economiche, di queste che ho brevemente richiamato e anche di altre, ritengo che dobbiamo fare una cosa sola: tenere presente tutto il bagaglio della Dottrina sociale della Chiesa. I suoi principi del bene comune, della solidarietà, della sussidiarietà, della destinazione universale dei beni e del diritto alla proprietà privata, come pure i suoi riferimenti al diritto naturale e al diritto rivelato, le sue visioni della persona, della famiglia, della procreazione, dell’autorità e della libertà, della funzione delle società naturali e dei corpi intermedi, la sua visione dell’unità del genere umano non come una somma universalistica di individui ma articolato nei popoli e nelle nazioni sono alcuni elementi di questo bagaglio organico. Non credo sia sufficiente correggere la singola visione ideologica, penso piuttosto che dobbiamo riproporre il corretto quadro d’insieme. Questa è la Giornata della Dottrina sociale della Chiesa e quindi il nostro comune impegno deve essere per essa, assunta nella completezza della sua tradizione.
Dicevo all’inizio che la Dottrina sociale della Chiesa è realista dato che si riferisce ad un ordine finalistico della società degli uomini secondo il progetto di Dio attuato nella creazione e perfezionato nella redenzione. Penso allora che anche l’economia debba essere guidata da questo realismo, rispettando essa l’ordine naturale e sussidiario delle competenze. Oggi la famiglia è privata delle sue funzioni economiche fisiologiche ed è appesantita da funzioni economiche artificiose. La vita è strumentalizzata e colpita da un’economia impostata contro di essa. L’orrendo commercio dei feti abortiti o il mercato dell’utero in affitto drammaticamente lo dimostrano. Il mercato della procreazione artificiale o quello del suicidio assistito nelle cliniche della morte produce lauti profitti ma distrugge il senso della vita. L’economia dell’istruzione e della formazione corre il rischio di diseducare più che educare. Il commercio e la tratta delle persone dentro i flussi migratori fortemente denunciati da Papa Francesco, che non tengono conto né delle persone né del diritto ad una patria, destabilizzano le società sia di partenza che di arrivo. Allora l’economia deve ricominciare da queste piccole / grandi cose: la vita, la famiglia, la responsabilità educativa, il popolo, la nazione. Sono tutti elementi naturali, che appartengono all’ordine finalistico della società. Essi sono la via per liberare l’economia dalle ideologie che la corrompono.
S.E. Mons. Giampaolo Crepaldi
l'intervento di Monsignore è condivisibile e di buon senso
RispondiEliminama un punto mi sembra un po' trattato male
la natura non va mai considerata solo in se stessa ma sempre in rapporto all’uomo e al suo dovere di dominarla, organizzarla, farla produrre per l’umanità, secondo giustizia certamente e non in modo scriteriato, ma anche senza rinunciare alla propria posizione centrale: la natura è per l’uomo e non l’uomo per la natura.
mi sembra butti un po' in vacca il discorso e, nel tentativo giusto di fermare i sostenitori della descrescita, vada anche contro quelli che pur ritenendo necessario lo sviluppo dell'economia e della qualità di vita sono comunque per la conservazione del Creato e della biodiversità.
Sarebbe il caso di liberare soprattutto la Chiesa dalle ideologie, che galoppano senza freni da settant'anni. Prima di pensare all'economia, guardino cosa succede in casa loro, soprattutto alla luce delle ultime boutade di El Papa.
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