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venerdì 4 settembre 2020

Porfiri: l'organo e la musica sacra

Continuiamo la formazione di musica sacra del Maestro Porfiri, pubblicata da Stilum Curiae.
Luigi

PORFIRI. L’ORGANO È IL RE DELLA MUSICA SACRA, MA NON IL SOLO…

7 Agosto 2020 
[...]

L’Organista liturgico

“120. Nella Chiesa latina si abbia in grande onore l’organo a canne, strumento musicale tradizionale, il cui suono è in grado di aggiungere un notevole splendore alle cerimonie della Chiesa, e di elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose celesti.
Altri strumenti, poi, si possono ammettere nel culto divino, a giudizio e con il consenso della competente autorità ecclesiastica territoriale, a norma degli articoli 22 § 2, 37 e 40, purchè siano adatti all’uso sacro, o vi si possono adattare, convengano alla dignità del tempio e favoriscano veramente l’edificazione dei fedeli.”

Qui tocchiamo un altro dei punti dibattuti nel postconcilio tormentato dei musicisti di Chiesa: il problema dell’organo. Come si vede l’indicazione data dalla Sacrosanctum Concilium non sembra lasciare spazio ad interpretazioni contrastanti: si abbia in grande onore l’organo a canne! Certo, dobbiamo stare attenti nel pensare che un’affermazione in favore di qualcosa si deve trasformare automaticamente in una affermazione contro qualche altra cosa. Insomma, sì all’organo ma attenzione anche ad altre opzioni. Qui varrebbe la pensa riflettere se, da un punto di vista meramente pratico, l’organo è ancora uno strumento utile e pratico per le attuali liturgie, o se le stesse possono essere meglio sostenute da altri tipi di strumenti. Allora, per riflettere su questo, farò un piccolo percorso attraverso questo paragrafo (soffermandomi specialmente sulla prima parte e includendo riflessioni sulla seconda), per vagliarne l’aderenza a quanto è poi effettivamente accaduto negli ultimi 50 anni.

“Organum tubulatum in Ecclesia magno in honore habeatur”

Tenere in grande onore un qualcosa significa dargli un posto importante tra altre cose. Quindi, l’organo sia tenuto in grande onore tra altri possibili strumenti. Ricordiamo che per alcuni secoli la chiesa latina è andata avanti anche senza l’organo, nel primo millennio dell’era cristiana. Nondimeno, lo stesso strumento ha portato dei notevoli vantaggi alle celebrazioni liturgiche (e li vedremo dopo). Ė interessante confrontare questo passo con quanto diceva 100 anni fa il Motu proprio di San Pio X sulla musica sacra, il quale affermava che “la chiesa ha d’altronde il suo strumento musicale tradizionale: vogliamo dire l’organo, il quale, per la sua meravigliosa grandiosità e maestà fu stimato degno di risposarsi ai riti liturgici, sia accompagnando il canto, sia, durante i silenzi del coro, secondo le prescrizioni della Chiesa, diffondendo armonie soavissime….Tornino a risuonare nei templi solo quei concenti dell’organo che risentano della maestà del luogo e olezzino del santo profumo dei riti; solo a questo patto l’arte organaria e organistica ritroverà la sua via e il suo rinnovato splendore, a vero vantaggio della liturgia sacra.” In quel tempo, l’uso di altri strumenti diversi dall’organo (per il quale non c’è allora neanche l’esigenza di dover aggiungere “a canne”) non era visto favorevolmente, probabilmente per reagire all’uso che si era fatto di questi strumenti nell’esecrata, anche da comprendere con studi più mirati, musica chiesastica dell’ottocento. San Pio X infatti, condanna nello stesso paragrafo “l’immoderato uso degli strumenti”. Ora, questa condanna trova ragione nel rapporto vivo che si sentiva allora tra alcuni strumenti e la musica di derivazione operistica. Quindi, è una condanna di tipo temporale e storico ma non ha valore assoluto. Mi sembra di vedere un apertura diversa nella SC, quando si chiede giustamente per l’organo a canne un posto d’onore tra altri strumenti, ma senza escluderli. Certo, molti potranno fare qui un’opportuna considerazione sul rapporto che c’è tra alcuni strumenti e la contemporaneità culturale e sociale che viviamo. Per esempio la chitarra.

Nessuno può negare che sia uno strumento fortemente condizionato dall’uso che se ne fa in certa cultura giovanile. Ciò non toglie che non la si può condannare in sé, come strumento. Anzi, essa è uno strumento di grande tradizione e in sé nobilissimo e che si presterebbe ad un uso anche interessante nella liturgia, soprattutto qualora non fosse “grattato” malamente, come quasi sempre accade. E’ interessante quanto dice un noto esperto in materia, oltretutto già organista della Basilica di San Pietro fino ad una trentina di anni fa: “La porta della Chiesa è aperta a tutti gli strumenti musicali: qualunque strumento per sé è idoneo al culto. Esistono attualmente strumenti che per il loro particolare uso extraliturgico possono provocare associazioni psicologiche conturbanti (strumenti contaminati dall’uso profano e libertino). Ma è sempre possibile una redenzione degli stessi strumenti, attraverso il graduale mutamento del gusto e del costume. Lo stesso organo a canne, oggi tanto lodato come strumento liturgico, è un illustre “convertito”. Il giudizio, circa la possibilità di ammettere o meno in Chiesa nuovi strumenti musicali, non spetta ai singoli Vescovi, ma alla Conferenza Episcopale Nazionale.” (Emidio Papinutti, “La musica sacra dal Concilio Vaticano II° al nuovo “Ordo Missae””, Edizioni Francescane Roma 1971, pag. 199).

Io credo che dovremmo spostare le nostre considerazioni, più che sul “cosa”, sul “come” si affrontano certi strumenti nella liturgia. Suonarli tanto per dire di aver suonato una chitarra, un pianoforte o qualsiasi altro strumento, non significa nulla. Quando sento anche parroci difendere un torturatore di chitarra dicendo che tanto Dio è contento uguale (sono molto fortunato, ho conosciuto molti parroci che sanno sempre quando Dio è contento e quando no…) mi verrebbe da reagire male, ma poi mi domando: ma questo parroco ha avuto la formazione liturgica adeguata, che gli permette di discernere il bianco dal nero? E, mutatis mutandis, le nostre considerazioni sopra esposte possono benissimo adattarsi proprio al nostro organo.

Un’organista che magari mi suona splendidamente un preludio e fuga ma che agisce nella liturgia come un pesce fuor d’acqua ai miei occhi non è molto di più (liturgicamente) di un “grattatore” di chitarra (anche se ammetto che alle mie orecchie è molto più gradito l’organista, ma questa è una considerazione di tipo “estetico”, non liturgico). Non siamo ipocriti: un organista nella liturgia non è lì per fare un concerto ma per esercitare un ministero musicale importante e per cui deve essere preparato. Per esperienza personale so che sono molto pochi coloro che escono diplomati dal conservatorio e hanno poi le carte in regola per dirsi organisti liturgici. Pensiamo bene che c’è una fondamentale differenza tra un organista concertista e un organista liturgico, differenza anche di capacità diverse che vengono richieste (anche se alcune, ovviamente, possono coincidere). Si può non avere una tecnica sopraffina ma essere perfettamente in grado di “essere” nella celebrazione, si può non saper suonare brani di alto livello ma essere in grado di sostenere il canto dell’assemblea in modo più che professionale. Io se voglio un concerto vado a sentire il concertista, se voglio pregare desidero un organista liturgico. Se le due cose coincidono, meglio così. Ma non è indispensabile. E questo naturalmente non toglie che chi non ha potuto studiare la tecnica organistica in modo approfondito, dovrebbe almeno avere il desiderio di potersi migliorare per quello che è possibile. Ho domandato anni fa un opinione sull’argomento degli organisti tecnicamente non agguerriti a padre padre Theo Flury OSB, organista del monastero svizzero di Einsiedeln e docente al Pontificio Istituto di Musica Sacra a Roma: “Innanzitutto dobbiamo essere molto grati per il loro servizio! Spesso c’è da notare tanta buona volontà, un impegno lodevole. Questo peró non dispensa dalla necessità di uno stimolo costante a imparare e a voler andare oltre i limiti di un saper fare che si è acquisito. Vedo qui una seria responsabilità da parte delle diocesi nel trovare e offrire luoghi e momenti di continua formazione per organisti liturgici di questo tipo. Come succede spesso in altri campi, anche qui un ostacolo puó essere il denaro. Peró anche in questo settore se non si vuole investire c’è poco da sperare. Per ottenere buoni risultati ci vuole sempre un adeguato sacrificio.” (Vedi la mia rubrica “Annotando” sulla rivista “La vita in Cristo e nella chiesa” del gennaio 2004).

Si torna sempre lì, senza un impegno concreto della Chiesa, anche economico, non c’è molto margine di azione. Su questo si può vedere quanto da me detto nel mio libro Non ti pago!.

“Tanquam instrumentum musicum traditionale”

Non si può negare, neanche dai più strenui difensori delle chitarre nella liturgia, che l’organo è strumento che appartiene al patrimonio storico della Chiesa cattolica, e questo da vari secoli. Il suo uso, è stato vario ed è naturalmente anche coinciso con le evoluzioni tecnico-costruttive dello strumento. Pensiamo per esempio alla concezione di un organo ottocentesco italiano, che perfettamente si adattava a eseguire le composizioni di stile operistico dei musicisti più in voga di quel periodo. Insomma, lo strumento organo, si è spesso adattato alle esigenze (liturgicamente lecite o meno, non è qui il caso di dibattere) che la cultura del periodo e la conseguente liturgia gli presentava. Io insisterei più sul chiamare questo strumento, “strumento storico” della liturgia, preferendo questa accezione a quella di “strumento tradizionale”. Questo perché, almeno qui da noi, alla parola “tradizione” si dà a volte un senso di incatenamento, di irreformabilità, di irrigidimento. Ho già detto in precedenza, quale senso sarebbe meglio per me dare a questo termine bellissimo ma, anche negli ultimi tempi, ho constatato come questa “tara” sia difficile da debellare. Io continuo ad amare la Tradizione e a ritenerla vivente, non chiusa e finita in qualche epoca storica ma sempre gravida di avvenire. Da rispettare e da portare avanti, non da venerare come una reliquia ingiallita. In base a questo, non posso accettare che stili musicali o strumenti musicali, per quanto meravigliosi, possano essere considerati mitizzati, perché li condannerei irrevocabilmente alla sterilità (e, peggio ancora, mi condannerei all’idolatria). Quindi non mitizzare ne stili, ne strumenti, ne uomini (anche se grandi genii dell’arte musicale e per cui non vale la massima di Novalis: “Quando si vede un gigante, si ponga mente anzitutto alla posizione del sole e si badi se non sia l’ombra di un pigmeo”…).

Quindi, non mi nascondo l’utilità enorme di uno strumento come l’organo nella storia della Chiesa cattolica (anche nella storia attuale, naturalmente, anche nella contemporaneità) ma non intendo alzare barricate a quanto di buono e di utile può trovarsi nella cultura moderna (per meglio dire, nelle culture moderne), sempre che sia adatto alla celebrazione “o vi si possa adattare”. Visto in questa prospettiva non dovrebbe più porsi il problema di suonare questo o quello strumento (al di fuori dell’organo) ma si dovrebbe porre, in tutta la sua pesantezza, il problema di come usare quello strumento, in quale momento della celebrazione e perché. E non è questione da poco. Anche se c’è da dire con forza che ci sono alcuni strumenti che sono veramente inappropriati all’uso liturgico per la loro forte associazione con la musica commerciale. Certo, la chitarra è uno di questi, ma esiste anche l’uso classico della chitarra.

Di base c’è che qualunque strumento si suona, bisogna saperlo “usare”, almeno più che decentemente (non che si richiedano sempre dei virtuosi…). Se non si parte dalla formazione si continuerà per decenni a parlare delle stesse cose senza frutto. Ci sono degli strumenti che non si adattano alla celebrazione? Partiamo ancora dalla chitarra. In un CD per le edizioni San Paolo di mie composizioni per la liturgia, ho usato in due dei miei pezzi la chitarra classica in arpeggio, anche unita ad un quartetto d’archi o a una viola solista. Il risultato, anche a detta dei cantori (per niente avvezzi a queste strumentazioni) era veramente spirituale. Racconto questa esperienza personale per dire: la chitarra non è il male assoluto della liturgia (lo sono semmai certi liturgisti), lo è il suo cattivo uso. Grandissimi compositori hanno scritto per questo nobile strumento. Da qui, ad accettarla suonata come al campeggio ce ne corre. Perché lì siamo al campeggio davanti a noi stessi, in Chiesa siamo noi stessi davanti a Dio. Deve esserci nel simbolo sonoro che viene fuori quello che Giuseppe Sovernigo in un bel libro (Giuseppe Sovernigo, Rito e persona – Simbolismo e celebrazione liturgica: aspetti psicologici, Edizioni Messaggero Padova/ Abbazia Santa Giustina, Padova 1998, pag. 87) definisce lo “scarto simbolico”. I simboli, anche quelli sonori, non possono essere presi da un contesto e travasati in un altro completamente diverso senza temere una deriva del senso. Una delle massime del mondo della comunicazione più alla moda da decenni è: il mezzo è il messaggio (Mc Luhan, che, tra l’altro, è stato un convertito al cattolicesimo e ha scritto interessanti saggi proprio sulla liturgia dopo il Vaticano secondo che meriterebbero un’occhiata… ). Non voglio prenderla come oro colato ma non bisogna neanche passarci troppo sopra.

Detto questo, potrei dire che molti strumenti, se adattati con gusto e competenza alla liturgia, possono servirla degnamente. E non sono il solo a pensarla così: “Comunque è certo che, nel campo strumentale, la evoluzione della Musica Sacra è senza confini. Restando sempre fedeli alla disciplina e alle norme di una sana prudenza,oggi i musicisti possono tentare nuove forme musicali, con ampio uso di strumenti. Forse non è lontano il giorno nel quale sarà tradotto in pratica l’invito del salmista. “Laudate eum in sono tubae: laudate eum in psalterio et cithara; laudate eum in chordis et organo.”” (Emidio Papinutti, op.cit. pag. 200). Fino all’approssimarsi di quel giorno, i miei dubbi li continuerò a coltivare per quelli strumenti la cui natura sembra contrastare vivamente con quella del rito, come gli strumenti percussivi che hanno un’importanza segnatamente ritmica e che sento in contrasto con il ritmo che il rito di per sé impone ai codici utilizzati per “dichiararlo”. Il canto gregoriano veramente respira con il rito, la ritmicità pesante mi sembra una forzatura fuori posto. Naturalmente sono consapevole che sto proponendo un discorso culturalmente condizionato, in quanto in Africa il ritmo e la percussività hanno significato diverso e sono invece spesso legati ad atmosfere di contatto con il divino. Ma così facendo, mi attengo a quanto stabilito dall’istruzione sulla musica sacra nella liturgia del 5 marzo 1967, che al punto 63 dice: “Nel permettere l’uso degli strumenti musicali e nella loro utilizzazione si deve tener conto dell’indole e delle tradizioni dei singoli popoli. Tuttavia gli strumenti che, secondo il giudizio e l’uso comune, sono propri della musica profana, siano tenuti completamente al di fuori di ogni azione liturgica e dai pii e sacri esercizi.” Ma come detto, ci sono elementi spirituali forti in musiche di altre culture. Questo lo vediamo anche negli Spirituals, bellissime composizioni tipiche degli afro-americani in cui il ritmo stringente spesso è parte preponderante. Ma, non dimentichiamo, noi siamo di cultura diversa e, pur rispettando grandemente queste manifestazioni di culture non nostre, viviamo immersi in altre culture e altri mondi (anche se pieni di contaminazioni di vario genere…). Non ci si nasconde i rischi di queste operazioni; Baltasar Graciàn, gesuita del XVII secolo, diceva: “Non c’è nulla che non abbia il suo diritto e il suo rovescio, In ogni cosa ci sono inconvenienti e vantaggi. L’abilità consiste nel saper trovare il modo di volgerle al proprio comodo”. Molti chiamano questi problemi, altri potrebbero chiamarli opportunità…Oggi che abbiamo la libertà e i mezzi per poter fare le scelte più ardite, ci ritroviamo a girare con le catene che noi stessi ci siamo fabbricati: “Non è la libertà che manca; mancano gli uomini liberi” (Leo Longanesi). E bisogna farsi una ragione del fatto che bisogna “sporcarsi le mani”. Come dice Graham Greene: “Preferisco aver del sangue sulle mani piuttosto che dell’acqua come Ponzio Pilato.” Non c’è altra via…

“Cuius sonus Ecclesiae caeremoniis mirum addere valer splendorem, atque mentes ad Deum ac superna vehementer extollere

Lo “splendore del suono” che è in grado di elevare a Dio le anime dei fedeli. Questo concetto qui espresso mi sembra estremamente interessante e degno di essere considerato in tutta la sua ponderosità, chiarendoci per primo cosa intendiamo per “splendore” e cosa dovremmo intendere per “elevare”. Sembra chiaro ma bisogna un po’ rifletterci sopra. Un autore del recente passato, Fiorenzo Romita, commenta in questo modo il passo della SC in questione: “Ma in che cosa consiste allora cotesto “notevole splendore” del suono dell’organo, di cui parla la Costituzione? Non si tratta evidentemente della semplice materialità del suono dell’organo con tutte le possibilità di grande potenza fonica e di ricca tavolozza timbrica, nel più perfetto equilibrio dinamico e ritmico. Piuttosto è il clima di grandiosità e di mistero che il suono dell’organo sa creare, ciò che conferisce obbiettivamente alle stesse cerimonie della Chiesa un notevole splendore (…) “Per visibilia ad invisibilia”: come tutti gli elementi della Liturgia, così anche, in maniera eminente, il suono dell’organo che si traduce nell’essenza stessa della Liturgia, ossia nella preghiera, giacchè quel suono “è in grado di elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose celesti.” E qui entriamo in un fenomeno ascetico e mistico, che è difficile da descrivere compiutamente con le parole umane, ma che tuttavia già i Padri della Chiesa, gli Scrittori Ecclesiastici, i SS. Pontefici, i Concili, alcuni Santi e Mistici hanno chiaramente intuito; e che i moderni studiosi di estetica della musica potrebbero sviluppare soddisfacentemente, se tenessero conto anche della teologia, della S. Scrittura, dell’agiografia ecc.” (Fiorenzo Romita, “La Musica Sacra e la Costituzione Conciliare sulla Sacra Liturgia” Descleè e C. – Roma, pag. 117-118. Non è presente l’anno di edizione ma deve essere molto vicino a quello di promulgazione del documento conciliare, diciamo quindi intorno al 1963). Naturalmente l’insigne studioso si esprime con linguaggio e concetti che risentono dell’estetica ancora viva nel suo periodo (ma anche oggi…). Ma alla fine è interessante quel richiamo che fa agli studiosi di varie discipline (e molte altre se ne sarebbero aggiunte negli anni, ma lui non poteva saperlo) allo studio del modo in cui l’organo aggiunge questo splendore, che per il momento lui risolveva con la categoria del “fenomeno ascetico e mistico” di non facile descrizione a parole umane e quindi “misterioso”.

Lo splendore è una qualità che fa in modo che una data cosa sia ancora più visibile: se diciamo che è venuta una certa persona “in tutto il suo splendore”, intendiamo che essa era al meglio delle sue possibilità e che quindi (sottointendiamo) era al centro dell’attenzione. Lo splendore aggiunge qualcosa a qualcosa. L’organo quindi, aggiunge qualcosa in più al rito, lo fa “risplendere”. Il problema è che spesso su questi termini si sono giocate diatribe infinite fra chi intende lo splendore in un modo e chi in un altro, come del resto per cento altre diatribe tra oppose fazioni. Un giorno mi piacerebbe dire la verità su idee e persone in cui mi sono imbattuto durante il mio impegno in questo campo, sapendo di non offendere nessuno. Ma chissà che non sia vero quanto diceva Leo Longanesi: “Quando potremo dire tutta la verità, non la ricorderemo più.”

Lo splendore, dunque. Esso è certo collegato ad un valore artistico (riferendoci all’organo in questione, ma non solo) ma esso è mezzo e non fine. Lo splendore non è raggiunto con la proposizione di un’opera musicale solo in quanto essa è degna e artisticamente ben fatta; ma questo splendore è quando quell’opera esalta la natura intrinseca di quel dato rito (lo fa “risplendere”). Quindi il valore non è prima di tutto nell’opera in sé ma nella sua funzione. Sembra appropriato ricordare quanto citato sopra dal Motu proprio di San Pio X del 1903, in cui si diceva che doveva risuonare in chiesa quella musica che “risente della maestà del luogo”. Potremmo dire oggi, che “risente della natura del rito”. Ci è difficile oggi quantificare visivamente termini come “maestà” o “splendore”, proprio perché si corre il pericolo di darne interpretazioni fuorvianti e non adeguate, pur se essi hanno il loro senso importante. Nei tempi in cui venivano formulate, queste parole avevano una risonanza di un certo tipo: maestà e splendore erano collegate magari al fasto delle corti reali, alla sontuosità di certi palazzi o chiese; oggi queste cose sono molto di meno prese in considerazione, a vantaggio di altre immagini che potrebbero portarci completamente al di fuori del discorso che ci proponiamo. O sono ideologizzati.

Partecipare alla natura del rito per renderlo più splendido significa essere consapevole della natura di “ponte” che il rito svolge tra l’umano e il soprannaturale: “Ciò che si svolge nel cosmo, nel suo corpo o nella storia, in una certa misura fuori di se stesso, l’uomo cerca di padroneggiarlo, di addomesticarlo, di sottometterlo al suo dominio. Può fare questo sia riflessivamente, sia tecnicamente, sia “ritualmente”. In quest’ultimo caso lo vediamo costruire – parallelamente all’ordine cosmico, biologico e sociale – un altro ordine, detto rituale, che dà luogo a due ordini di realtà. Ciò che è angosciante (per il fatto di essere esteriore) è così integrato nell’ordine umano e come addomesticato.” (Giuseppe Sovernigo, op. cit. pag. 64-65). Per fare sì che questo “contatto” avvenga, il rito svolge una funzione multiforme che è di importanza fondamentale, perché canalizza le emozioni e le ordina o riordina ad un fine più alto. Il rito “controlla” il sacro. Mi piace moltissimo questa riflessione di Giorgio Bonaccorso, e vi invito ad ascoltarla e meditarla con me: “Il sacro non ammette costrizioni, restrizioni o definizioni; non ammette regole precostituite né leggi necessarie. Esso è dalla parte del caos. Il profano, anche da questo punto di vista, è il suo opposto. Nell’esistenza quotidiana, retta dalla profanità, vi sono leggi e regole, senza le quali non si potrebbe vivere. Il profano è dalla parte del cosmo. Ma anche il rito è fatto di regole senza le quali non potrebbe esistere. Il rito è cosmo e, in questo senso, appartiene al profano. Si tratta, però, di un cosmo che, per il modo delle sue regole, ossia delle sue azioni e dei suoi simboli, rimanda alle origini precosmiche, caotiche, e, per questo, appartiene al sacro. Il rito è tra il cosmo e il caos, tra il profano e il sacro. Non è possibile all’uomo un rapporto immediato col sacro, né sarebbe, per lui, sopportabile la caduta nel caos. Il rito appare, così, come la mediazione indispensabile grazie alla quale l’uomo può aprirsi all’origine ultima del suo essere, al sacro, senza essere divorato dal vortice di quell’origine. La liturgia, rito cristiano, è la grazia concessa all’umanità di accedere a Dio senza morire per averlo visto.” (Giorgio Bonaccorso, Il rito e l’altro, Libreria editrice Vaticana, pag. 38). Ma parlando il rito un linguaggio simbolico, bisogna che esso sia in grado di essere decodificato dai fruitori dello stesso. Quindi per avere questo splendore, bisogna che si metta in atto una simbolizzazione che la gente possa riconoscere. Pensiamo in questo alla grande saggezza degli antichi, che intessevano spesso le loro composizioni organistiche su temi di inni o corali che la gente poteva riconoscere e che magari avrebbe cantato 5 minuti dopo. Sia nella tradizione cattolica che in quella protestante quanta musica è stata concepita in questo modo! E questo vale anche per la polifonia. Si usavano anche temi “profani” nelle messe (ma attenti a non andare qui a conclusioni affrettate…) così che la gente potesse “connettersi” facilmente con quanto stava avvenendo. Ma qual è il trucco? Che anche la musica profana era composta dagli stessi compositori che componevano la musica sacra, quindi la musica profana era un sottoprodotto della musica sacra, e quindi ne condivideva il linguaggio. Non si può fare il paragone con la differenza abissale che esiste fra la musica sacra di un certo tipo e la musica profana di oggi.

L’organo è ancora in grado di fare questo (e quindi di “elevare a Dio potentemente gli animi”, per stare al linguaggio un po’ ampolloso della SC)? Io credo di sì. Basta prendere un esempio dal mondo della comunicazione, mondo in cui la gente è immersa fino al collo e che anche forma il retroterra simbolico di moltissimi di noi.

Se la pubblicità vuole evocare un’atmosfera sensuale quale strumento usa? Quasi sempre il sax, forse per il suo legame con i night club e con quel mondo lì. Se, al contrario, si vuole evocare un’atmosfera “di chiesa”, quale atmosfera sonora si usa per attivare (in solo pochi secondi, non dimentichiamo) in noi l’ambiente del religioso? O il canto gregoriano o l’organo, da qui non si scappa. Quindi anche il moderno mondo della comunicazione afferma questo legame psicologico che c’è ancora nella nostra cultura tra l’organo e la chiesa. E non dimentichiamo che il target della pubblicità non è solo quello delle persone adulte ma spesso (e qualche volta, soprattutto) quello delle persone giovani. Quindi, appurato che psicologicamente siamo ricettivi a riconoscere l’organo come strumento liturgico, vediamo come l’organo riconosce noi come soggetti liturgici.

L’organo rituale

Per partecipare al fine stesso del rito (e quindi aggiungersi come valore che chiamiamo “splendore”) l’organo deve partecipare alle caratteristiche del celebrare cristiano che un autore già citato in precedenza divide come segue: 1) Celebrare è un’azione comunitaria; 2) si vive qualcosa che ci tocca in profondità; 3) è azione espressa con gesti rituali; 4) trasforma l’esistenza (Giuseppe Sovernigo, op. cit. pag. 52). Non sono sforzi da poco…

Azione comunitaria significa che ciascuno è in comunione con gli altri e l’organista deve, con la sua arte e capacità, favorire quell’unione. Come? Sostenendo il canto unisono dell’assemblea con proprietà e forza, in modo che la gente si senta spinta a cantare con un cuore solo ed un’anima sola. Mi ha sempre enormemente colpito ascoltare, specie nelle chiese protestanti, quando l’organista attacca con il ripieno l’introduzione di qualche inno e tutta l’assemblea, come un fiume di voci (di ambrosiana memoria) si unisce alla voce dell’organo per lodare Dio. Trovo bella ed appropriata questa espressione di Giovanni XXIII, pronunciata il 26 settembre 1962 in occasione della benedizione del nuovo organo della Basilica di San Pietro in Vaticano: “Durante lo svolgimento dei sacri riti (l’organo) diventa l’interprete dei comuni sentimenti, dei più nobili e santi trasporti.” (“Discorsi Messaggi Colloqui del S.Padre Giovanni XXIII.” Poliglotta Vaticana 1963, vol. IV, pp. 548-551 in Fiorenzo Romita, op. cit. pag. 116). L’organo si fa voce di tutti. Questo mi sembra ritualmente più splendente di cento preludi e fughe (che hanno comunque il loro posto). Favorire l’unione significa anche agire propriamente nel rito (come viene qui espressamente richiesto al terzo punto) per non disunirlo, essere pronti a coprire qualche buco rituale, magari con una piccola improvvisazione sul canto appena concluso che permetta al sacerdote di ritrovare la giusta pagina del Messale…Questa capacità è per me connaturata all’organista liturgico. Anche il nome di “organo” è in questo caso estremamente felice: da l’idea di una parte stessa del nostro corpo, un prolungamento di noi stessi con cui agiamo ritualmente, respiriamo nella celebrazione, interagiamo in essa.

Per essere toccati in profondità bisogna che l’organista conosca il suo strumento e sappia che linguaggio musicale è più utile parlare a quella data assemblea. Interessarsi di quale è la capacità ricettiva di una data e particolare assemblea, vuol dire poterla prendere e guidare anche verso un percorso artistico più affascinante. Ma non si può pretendere di bombardare la gente anche con musiche bellissime ma che la stessa non capisce. Ci vuole pazienza e gradualità ed educazione. Bisogna darsi degli obiettivi immediatamente raggiungibili e poi darsene sempre più in alto, ma gradualmente. Un mio direttore spirituale usava un esempio calzante: se noi dovessimo vedere tutto insieme il cibo che abbiamo consumato fino ad oggi, diremmo “ma come è possibile, io non ho mai mangiato questa montagna enorme di roba!” Eppure, giorno dopo giorno, l’abbiamo mangiata…

Per agire ritualmente bisogna essere nel rito. Essere non è inteso solo come presenza fisica, ma come respirare in uno con l’andamento del rito. Assecondarne la struttura (come detto sopra) aiuta chi suona e chi ascolta (e si partecipa anche ascoltando) ad inserirsi sempre più in pienezza e profondità nell’azione che si sta compiendo.

Solo così saremo trasformati, saremo veramente quello “splendore vivente” che testimonia le meraviglie che Dio ha compiuto e sta compiendo in noi.

Aurelio Porfiri