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domenica 13 settembre 2020

Porfiri: cantori e "animatori liturgici"


Un ultimo articolo, del Mastro Porfiri, pubblicato da Tosatti, sulla musica sacra e liturgica.
Luigi


13 Agosto 2020 

Carissimi Stilumcuriali, con questa puntata si conclude il viaggio che il Maestro Aurelio Porfiri ha compiuto sulle pagine del nostro blog per esplorare e illustrare l’universo della musica sacra e liturgica. [...]

Una delle figure più importanti ma anche, purtroppo, più enigmatiche con cui abbiamo avuto a che fare in questo cinquantennio della riforma liturgica, è quella del cosiddetto “animatore liturgico”. Già questo termine è scorretto, in quanto non siamo noi a dare anima alla liturgia ma semmai il contrario. Cosa sia questa figura e come si deve comportare durante una celebrazione questo “strano personaggio”, rimane uno dei tanti nodi irrisolti di questo cambiamento liturgico, giustamente descritto da molti come epocale. Per molti questo nome forse evoca qualche stramberia inventata per complicare ancora più la vita ai poveri preti e musicisti (quei pochi sopravvissuti) che tentano ogni domenica di approntare una celebrazione della liturgia che sia dignitosa sotto tutti i punti di vista. A tutti dobbiamo dire che sono molto lontani dalla realtà! La figura del cantore, come meglio potremmo definirla, affonda le sue radici nei primi secoli del cristianesimo, e anzi lo precede, trovandosi già nel mondo ebraico.

Le radici nell’Antico Testamento

Per trovare un primo antenato del nostro cantore, possiamo, come dicevamo sopra, volgere il nostro sguardo al mondo ebraico.

Già nelle testimonianze più antiche dell’Antico Testamento, troviamo degli antenati importanti per il nostro. Pensiamo per esempio al celeberrimo momento narrato in Esodo in cui il mare copre gli oppressori egiziani; in quel momento, ripieni della visione della potenza di Dio, gli israeliti non possono che dare sfogo alla loro gioia nel canto. Ecco il racconto: “Allora Maria, la profetessa, sorella di Aronne, prese in mano un timpano: dietro a lei uscirono le donne con i timpani, formando cori di danze. Maria fece cantare loro il ritornello: “Cantate al Signore perché ha mirabilmente trionfato: ha gettato in mare cavallo e cavaliere!”” (Esodo 15, 20-21). La profetessa Maria quindi insegna il ritornello del cantico della vittoria, si pone come “songleader” (come direbbero gli americani), come colei che guida il canto. Lo stesso Mosè, proprio il grande condottiero del popolo ebraico, lo possiamo spesso trovare impegnato in questo ruolo. E lo stesso Signore glielo aveva ordinato: “Ora scrivete per voi questo cantico e insegnatelo agli Israeliti; mettetelo loro in bocca perché questo cantico mi sia di testimonio contro gli israeliti.” (Deuteronomio 31, 19). Dopo l’ordine del Signore Mosè scrive il canto e lo insegna lui stesso agli Israeliti (Deuteronomio 31, 22). E dopo aver pronunciato questo canto solenne, ci dice ancora il Deuteronomio, “Mosè venne con Giosuè, figlio di Nun, e pronunziò agli orecchi del popolo tutte le parole di questo canto.” (Deuteronomio 32, 44). Un particolare interessante che ci viene segnalato nella Bibbia di Gerusalemme, è che in questo punto la traduzione detta dei settanta, inserisce il versetto 31, 22 (“Mosè scrisse quel giorno questo canto e lo insegnò agli Israeliti”) e al posto di canto viene sostituita la parola legge. E’ interessante sapere che la parola ebraica usata per il passaggio in 31, 22, è Shiyr, il cui significato è proprio “canto” o “cantare”. Tutte le traduzioni riportano questo tipo di interpretazione, dalla latina “Canticum”, all’italiana “canto”, alle anglosassoni “song” (da tenere presente che questa interpretazione nelle traduzioni inglesi è presente dalla King James Version fino alle attuali). Andando avanti nel tempo, non possiamo non constatare come l’attenzione per il servizio musicale presso gli Israeliti fosse sempre attenta e costante, e come ci si preoccupava che chi doveva servire come cantore, non fosse uno qualunque ma che rispondesse a precisi requisiti. Sappiamo che dopo che fu sistemata l’arca dell’alleanza nel tempio, lo stesso re Davide volle scegliere a chi affidare il servizio musicale nel tempio stesso (1 Cronache 6, 16). E viene detto con chiarezza che nel loro servizio i cantori “si attenevano alla regola fissata per loro”; non si improvvisava niente (cosa vi fa pensare questo?). Tutti questi cantori, agli ordini diretti spesso del re, erano anche definiti “esperti nel canto” (1 Cronache 25), ed erano tenuti in grande considerazione per il compito che svolgevano. È probabile che, dopo l’organizzazione del servizio musicale nel tempio, il ruolo dell’animatore liturgico (uso la parola a noi familiare solo per intenderci meglio, anche se impropria) sia andato affievolendosi in favore dei “diritti” del coro e che il canto si sia distinto per la sfarzosità dovuta a un gran numero di esecutori. Però non intendo formulare ipotesi sulla musica che si eseguiva nel tempio in quanto gli stessi studiosi di religione ebraica ci dicono che poco si può dire su questo argomento, e che i passi presenti nelle Sacre Scritture sono spesso di interpretazione incerta.

Dopo la caduta del tempio di Gerusalemme, nel 70 d.C., il culto ebraico si centra in un’altra struttura, certamente meno fastosa e dotata di mezzi rispetto al tempio: la sinagoga.

Chi presiedeva al canto in queste comunità? Innanzitutto leggiamo quanto ci riporta Enrico Fubini, grande esperto di musica ebraica: “(…) la musica sinagogale ha un carattere del tutto particolare ed è strettamente legata alla lettura intonata del testo biblico, quindi musica o meglio canto unicamente funzionale, del tutto privo di qualsiasi autonomia, strettamente legato alla parola, parte integrante del significato stesso del testo. Questo canto sinagogale, quello che ha preso corpo dalla lettura settimanale del testo biblico, dopo la distruzione del Tempio, ma che già era stato istruito al ritorno dall’esilio di Babilonia, diventa l’asse portante nello sviluppo di tutta la successiva musica ebraica, sino ai nostri giorni.” (Enrico Fubini, La musica nella tradizione ebraica – Editrice Einaudi, Torino 1994, pagg. 44-45). Queste comunità non potevano permettersi, come abbiamo detto poco sopra, lo sfarzo del grande tempio di Gerusalemme e anzi, nel mondo ebraico, venivano viste come le testimoni di una assenza, quella del Tempio appunto, vero centro della preghiera degli israeliti; quindi nelle sinagoghe, che non avevano legioni di cantori come il Tempio, si faceva affidamento su una figura che oggi noi definiremmo “cantore”, ma che loro definivano “messaggero del popolo”, che in ebraico suonava shaliach-tsibbur. Questi era un laico designato dalla comunità (probabilmente dagli anziani, dai saggi della comunità) della sinagoga per rappresentarla in alcuni canti e preghiere; egli conduceva la preghiera e proclamava la parola di Dio. Questa attenzione al laicato è per noi di grande importanza: “I popoli antichi, come gli assiri, i babilonesi e gli egiziani, molti secoli prima dell’istituzione del culto in Israele, avevano un servizio liturgico strutturato con preghiere responsoriali in cui il sacerdote aveva la doppia funzione di lettore e precentor; e il coro dei sacerdoti e talvolta anche i fedeli partecipavano rispondendo, pratiche queste molto simili a quelle in uso in Israele, che abbiamo visto precedentemente. Tuttavia vi è una differenza importante fra il culto ebraico e le pratiche religiose di questi antichi popoli. Infatti fra questi il sacerdote, mentre compiva i sacrifici, svolgeva la funzione di precentor. Egli recitava le preghiere ed era l’unico mediatore fra il popolo e la divinità. Nel Giudaismo, grazie all’influenza dei Profeti, si affermò invece l’idea di un Dio vicino a tutti e a cui tutti sono degni di avvicinarsi.” Idelsohn, op. cit. pag. 102.


Si richiedevano a questo cantore alcune qualità come una pronuncia adeguata e una buona articolazione della parola cantata. Doveva vestire appropriatamente (Idelsohn op. cit. pag. 104). Durante i primi tempi ogni persona poteva teoricamente assumere questa funzione, anche se, con il passare del tempo questo Shaliach-tsibbur curerà sempre più la sua preparazione musicale, fino a divenire peritissimo nell’arte musicale ma meno preparato, a quanto sembra, in quella liturgica (Lawrence J. Johnson, The mistery of faith – The ministers of music, NPM, Washington DC, 1983, pag. 37. A questo testo ho attinto in parte per la prospettiva storica sul cantore che vado presentando). È interessante notare che questa figura non prendeva il posto dell’assemblea nella celebrazione, ma semplicemente da essa veniva scelto come portavoce; la sua importanza veniva esclusivamente dal fatto di essere portatore di questo mandato dell’assemblea che lo sceglieva per rappresentarla davanti a Dio (Ismar Elbogen, Der judische Gottesdienst in seiner geschichlitchen Entwicklung (Lipsia, G. Fock 1913) pag. 483 in Edward Foley, The cantor in historical perspective in Worship 56:3, Maggio 1982, pag. 198). Grazie ad un interessante documento che ci offre il rabbino Giuda ben Illai, nel secondo secolo d.C. sappiamo quali erano le caratteristiche richieste per svolgere questo compito: questo Shaliach tsibbur deve essere“un uomo con profondi legami con la famiglia, che non ne ha mai abbastanza di incontrarla, che si sforza per mantenerla ma anche nondimeno tiene la sua casa pulita, che ha una bella figura, che è umile, piacevole al popolo e a cui piace il popolo, che ha una voce dolce e abilità musicale, che è ben versato nelle Scritture, capace di predicare, familiare con il “halakah” e”haggadah” e che conosce tutte le preghiere e le benedizioni a memoria.” (B. Taanith, 16a in Edward Foley, op. cit., pag. 198). Questa specie di memorandum per essere un buon “cantore” io penso che in larga parte potremmo veramente farlo nostro; mai come in questo passaggio osserviamo le forti radici che ci accomunano alla religione e alla pratica liturgica ebraica. Con il tempo, si introducevano sempre nuove forme espressive che richiedevano una capacità tecnica di livello più elevato e quindi i cantori non potevano essere volenterosi laici, pur se ben esercitati nella loro arte. Una buona voce diviene sempre più importante di qualsiasi altra caratteristica morale (anche su questo punto quante riflessioni si potrebbero fare…). Nel quindicesimo secolo, nello Shulkan Arukh troviamo scritto: “se c’è una scelta tra un uomo vecchio con una dolce voce ma con poca sapienza e un giovane ragazzo di soltanto 13 anni di età, che non possiede una dolce voce, ma che capisce quello che legge, il ragazzo deve essere preferito.” (Shulkan Arukh, Orah Hayim 53:4-5 in Edward Foley, op. cit. pag. 199). Nella realtà questo non accadeva. L’abilità musicale diveniva il fattore preminente di scelta. Ci sono altri fattori da considerare e che ci testimoniano questo cambiamento di rotta:

Con la distruzione del Tempio e la centralizzazione del culto sinagogale, assistiamo ad una progressiva complicazione di quest’ultimo, con l’aggravante che la gente sempre meno comprendeva l’ebraico.

Assistiamo poi all’amplificazione di preghiere già esistenti con intricate forme poetiche che prendono il nome di Piyyutim.

Quanto fin qui descritto ci testimonia l’avvento durante il sesto secolo di una nuova figura di cantore sinagogale, che oggi chiameremmo un cantore professionista (Edward Foley, op. cit, pag. 199. Questo articolo ci è servito per impostare buona parte dell’aspetto storico di questo scritto).


Questa nuova figura di cantore professionista, che prende forma nel VI secolo d.C., viene chiamato Chazzan (Idelsohn, op. cit. pag. 105). Dobbiamo dire però, che alcuni contestano il paragone tra il nostro cantore e questa figura (che troviamo anche indicata come Hazan Ha-Knesset secondo una diversa traslitterazione dall’alfabeto ebraico); all’inizio del secolo per esempio, Ismar Elbogen (Ismar Elbogen, Der judische Gottesdienst in seiner geschichlitchen Entwicklung (Lipsia, G. Fock 1913) pagg. 485-492 in Edward Foley, The cantor in historical perspective in Worship 56:3, Maggio 1982, pag. 195). Anche Leo Landman sostiene che “il hazzan ha-knesset non deve essere scambiato per un cantore” (Leo Landman, The cantor: An historical perspective (New York: Yeshiva University 1972) 4, in Edward Foley, op. cit., pag. 195). Il termine hazzan deriva probabilmente dal termine assiro hazzunu che significa “direttore” o “sorvegliante”. In effetti sappiamo che il Talmud ci da molte indicazioni che rivelano responsabilità non concernenti la musica che riguardano questa figura.

Nei primi tempi dell’era cristiana, oltre alle testimonianze della Scrittura, per la verità non abbondanti, ne abbiamo altre che attestano gli usi liturgici e musicali della primitiva comunità cristiana. Non possiamo però passare sotto silenzio un passaggio importantissimo dei vangeli, in cui Gesù stesso sembra rivestire il ruolo dello Shaliach-tsibbur. Questo avviene nella sinagoga di Nazareth, dove entrò secondo il suo solito (come specifica Luca) e si alzò a leggere. “Lo Spirito del Signore è sopra di me…. Poi arrotolò il volume, lo consegnò all’inserviente e sedette.” (Luca 4, 16-20. L’inserviente di cui si parla nel testo era proprio il hazzan ha-knesset. Vedi in proposito E. Foley, op. cit., pag. 202). Come ci è facile arguire, la pratica sinagogale di Gesù, degli apostoli e dei primi discepoli non avrà mancato di offrire qualche soluzione, pur se immediata, quando si trattò di impostare il nuovo culto liturgico che si sarebbe purtuttavia staccato per sempre dal Giudaismo (anche se progressivamente, come vedremo). C’è anche da dire che anche lo statuto “teologico” dello Shaliach-tsibbur ben si adattava alla nuova realtà del cristianesimo: questa idea di servizio, del popolo che attraverso un suo intermediario (che rimane uno del popolo) rivolge le sue preghiere e i suoi canti all’Altissimo è certamente molto in consonanza con la nuova concezione cristiana. Un’importante annotazione: quando si dice in Luca che Gesù “leggeva” i rotoli, bisogna bene intendersi su quale significato dare a quella parola “leggere”. “(…)canto e parlato sono molto vicini (per gli antichi)…i due verbi stessi sono accoppiati o usati in modo intercambiabile, e in numerose descrizioni letterarie noi non possiamo dire dove si tratta di parlato e dove di cantato.” (E. Lippman, The Sources and Development of the Ethical View of Music in Ancient Greece, The Musical Quarterly 40 (1963) 195, in E. Foley, op. cit. pag. 205).


Da molti documenti storici, soprattutto di tipo indiretto (e che cioè non riguardavano direttamente la musica o la liturgia ma ne parlavano di passaggio), noi sappiamo che la musica era parte integrante del primo culto cristiano. Certo non sappiamo quali erano i problemi immediati con cui si confrontavano i primi credenti in Cristo dal punto di vista liturgico e musicale. Possiamo immaginare che molti dei problemi che abbiamo affrontato per quello che riguarda il culto ebraico, li ritroviamo pari pari nella prima organizzazione del culto cristiano. Il contrasto tra attitudini morali e di pietà e bella voce nella scelta dei cantori, la progressiva complicazione delle forme cultuali e via dicendo. Noi sappiamo come molti dei primi cristiani rimanevano “giudaizzanti”, cioè abbracciavano la nuova fede senza abbandonare le usanze (anche cultuali) della vecchia. Questa separazione non avverrà che sulla fine del primo secolo. Si può pensare che il primo culto abbia subito l’influsso di quello giudaico, anche se questa tesi non è ben vista da parte di studiosi di fede ebraica. In che modo interveniva il solista durante le celebrazioni eucaristiche?


Spesso viene citata la famosa lettera di Plinio, governatore della Bitinia, all’imperatore Traiano, in cui si afferma che i cristiani non fanno nulla di male, limitandosi a riunirsi all’alba per cantare inni a Cristo “come a un Dio” (lettera scritta intorno all’anno 100 d.C.). Abbiamo precedentemente una importante testimonianza di Filone Alessandrino, filosofo ebreo, nato nel 25 a.C. e morto nel 41 d.C. Ci offre un’interessante resoconto sui Terapeuti, che sembra fossero convertiti cristiani che però ancora vivevano secondo le usanze giudaiche: “Dopo il pasto celebrano la veglia sacra. Essa si svolge così: a metà della festa essi si alzano ed in mezzo alla sala del convito si vengono a formare due cori, uno maschile ed uno femminile. Colui che meglio canta e danza viene scelto quale guidatore di ciascun coro. Allora essi cantano degli inni composti a lode di Dio, in vari metri e toni […] con l’accompagnamento di battito delle mani e danzando estaticamente. Dopo l’esecuzione festosa effettuata da ciascuno dei cori […] si uniscono in un coro unico: sull’esempio di quanto avvenne sulle rive del Mare Rosso […] elevando inni di ringraziamento a Dio salvatore, come fecero, allora, Mosè profeta a capo degli uomini e Myriam profetessa guida delle donne. Il canto dei Terapeuti e delle Terapeutidi con le voci acute delle donne unite a quelle gravi degli uomini producono un’esecuzione antifonica in alternanza” (“De vita contemplativa”, 83-88 in Felice Rainoldi, Traditio canendi, CLV-Edizioni liturgiche, Roma 2000). Questo che sembra essere un incontro di carismatici, è invece una testimonianza su usi di “probabili” nuovi convertiti al nascente cristianesimo. Come abbiamo potuto notare, si afferma che chi meglio “canta e danza” viene scelto come guida dei cori. Questa, per lo scopo del nostro scritto, ci sembra un’importante testimonianza che ci attesta come, in un certo modo, la figura che abbiamo conosciuto nell’ambiente ebraico dello Shaliach-tsibbur, sembra avere un successore in questi primi neo convertiti che si prestano a guidare il canto delle nuove comunità cristiane.


Ricordiamo che alla metà del secondo secolo il latino sostituisce gradualmente il greco con la traduzione detta vetus itala (Felice Rainoldi, Traditio canendi, CLV-Edizioni liturgiche, Roma 2000. Questo testo è molto importante anche per i riferimenti patristici che ci fornisce abbondantemente sull’uso della musica nelle prime comunità cristiane). Nelle costituzioni apostoliche, troviamo almeno due testimonianze di estrema importanza: “Ogni giorno radunatevi al mattino ed alla sera per salmodiare e pregare nella casa del Signore; il mattino per eseguire il salmo 62 e la sera il salmo 140” (Libro II, 59, 2 in F. Rainoldi, op. cit., pag. 57); “un altro salmodierà gli inni di Davide, e il popolo risponderà salmodiando dei ritornelli” (Libro II, 57, 5 in F. Rainoldi, op. cit.). Importanti testimonianze sulla prassi liturgica degli albori del cristianesimo le troviamo nella Traditio apostolica, attribuita a Ippolito che, insieme alla Didachè, alla lettera di Plinio il giovane e alla Apologia di San Giustino è uno dei documenti più antichi ad attestare le usanze liturgiche dell’epoca. Vi si racconta la pratica della salmodia alleluiatica o il canto dei salmi fatto dai bambini e dalle vergini. Secondo lo storico dei primi tre secoli cristiani, Eusebio di Cesarea, che riprende Filone alessandrino probabilmente ancora riguardo i terapeuti, i nuovi “salmi” composti si conformavano alla dignità degli antichi. Ascoltiamo: “Poi, intorno ai nuovi salmi che componevano, scrive: “Non solo sprofondano nella meditazione, ma compongono anche cantici e inni a lode di Dio su metri e melodie diverse, preferendo però, naturalmente, modi di carattere dignitoso e grave” […] L’autore su indicato nella sua opera notò esattamente una usanza che si è mantenuta fino ai nostri giorni presso di noi soltanto; narra cioè delle Vigilie della gran festa [la Pasqua], dei riti che vi si svolgono, degli inni che noi abbiamo la consuetudine di cantare; dice che uno di loro canta da solo in atteggiamento composto, attendendo al ritmo e che gli altri lo ascoltano in silenzio, per cantare poi assieme le finali degli inni…” (Historia ecclesiastica, II, XVII, 13-22 in F. Rainoldi, op. cit., pag. 52). Quindi vediamo all’opera il nostro cantore già in questi antichi autori. E ancora in Eusebio di Cesarea: “Una medesima forza dello Spirito di Dio penetrava tutti i membri; vi era in tutti una stessa anima, uno stesso ardore di fede; tutti cantavano insieme un solo cantico di lode a Dio. Vi si tenevano perfette cerimonie di capi spirituali, sacrifici di sacerdoti, pii riti della Chiesa. Qui si udiva il canto dei salmi o la lettura di altre parole donateci da Dio, là si compivano liturgie divine e mistiche…” (Historia ecclesiastica, X, 3, 1-4 in F. Rainoldi, op. cit., pag. 55). E’ molto interessante soffermarsi, oltre che sulla testimonianza delle pratiche musicali e liturgiche che ci attesta Eusebio, anche su quella annotazione iniziale, là dove si dice che “tutti cantavano insieme un solo cantico di lode a Dio”; i salmi, fra le altre composizioni che formavano il repertorio dell’antica liturgia cristiana, erano cantati da tutti, ma certamente non tutti nello stesso modo, come abbiamo visto in quanto detto prima. Si poteva cantare un ritornello alla fine, o un ritornello per un certo numero di versetti, cantare i versetti alternati… Tertulliano (220 circa), ci dice una cosa importante per la prassi esecutiva nella sua epoca: “Coloro che pregano con particolare diligenza usano aggiungere nelle preghiere l’Alleluia e quella specie di salmi che permettono a quanti si trovano insieme di rispondere con dei ritornelli finali” (De oratione, 27 in F. Rainoldi, op. cit., pag. 47); questo di cui ci parla Tertulliano, non sembra ancora essere il salmo responsoriale come noi lo conosciamo oggi, ma una forma affine in cui l’assemblea si unisce al solista solamente con una dossologia o acclamazione finale. Sappiamo che si formeranno quattro modi di esecuzione salmodica:

a)salmodia eseguita da un solista con intervento finale del popolo;

b)salmodia con esecuzione del solista, intercalata da un ritornello del popolo, detto salmo responsoriale;

c)salmodia alternata tra due cori, detta salmodia antifonica;

d)salmodia “indirectum”, in cui il solista eseguiva interamente il salmo (I. Schuster, Storia della liturgia in relazione con lo sviluppo del canto sacro, Desclèe e C. editori, Roma 1914, pag. 34).

Ancora in Tertulliano troviamo un’altra annotazione che ci permette di fare luce su aspetti importanti e da non sottovalutare nella prassi dell’epoca: “ Noi desideriamo che si canti… non il genere di salmo degli eretici e degli apostati, e di Valentino il platonico, ma quelli del profeta Davide, che sono molto santi e tutti ammessi” (De carne Christi in F. Rainoldi, op. cit., pag. 47). Quindi si contrappone il canto dei salmi “molto santi” della prassi cristiano-giudaica, a quei canti che evidentemente si diffondevano anche grazie alle prime sette ereticali che si diffonderanno e moltiplicheranno enormemente. Ancora Tertulliano: “si leggono pagine delle Scritture sante, si innalzano salmi, si fanno pubbliche esortazioni, si recitano litanie” (De anima” 9,4 in F. Rainoldi, op. cit. pag. 47). Questo ultimo scritto è stato fatto nel periodo in cui Tertulliano aveva aderito a una di queste sette ereticali, quella montanista. E’ interessante notare però che, quando un gruppo religioso si stacca da un altro per motivi ideologici e va a formarne uno del tutto nuovo, conserva sempre una parte della prassi del vecchio e comincia poi ad inserire nuovi elementi. Nel passo citato poco fa di Tertulliano, abbiamo la lettura delle pagine della Scrittura (liturgia della Parola), il canto dei salmi, le pubbliche esortazioni (omelia?) e la recitazione di litanie (Kyrie, oratio fidelium?). Troviamo testimonianze sul canto dei salmi anche in molti altri scritti, come per esempio le Passiones martyrum nel punto in cui si narra del martirio delle sante Perpetua e Felicita. E’ il 7 marzo dell’anno 203: “Splendette, infine, il giorno della vittoria, e passarono dalla prigione nell’anfiteatro come se fosse in cielo, esultanti ma pieni di dignità, trepidanti forse, ma di gioia, non di paura. Li seguiva Perpetua, con volto luminoso e incedere calmo, da vera sposa di Cristo, la prediletta di Dio, e aveva una tale forza nello sguardo che nessuno fu in grado di sostenerlo. Anche Felicita gioiva di aver partorito senza danno e di poter combattere contro le fiere, passando da sangue a sangue, dalla levatrice al reziario, decisa a bagnarsi, dopo il parto, di un secondo battesimo. (…) Perpetua salmeggiava (psallebat) come se già schiacciasse sotto il piede il capo dell’egiziano” (Passio Perpetuae et Felicitae 18, 1-3, 7 in Atti e passioni dei Martiri pag. 138-141). In questa bella descrizione di fierezza tutta romana, vediamo come l’ignoto redattore ci attesta il canto dei salmi da parte delle due candidate al martirio; un canto che sorgeva spontaneo anche in momenti di trepidazione (pur se vibrante di gioia).

Ma facciamo qualche passo indietro e confrontiamoci con un testo ugualmente importante di Giustino, che nella sua prima apologia (circa nell’anno 150), fa questa descrizione delle prime liturgie dei cristiani: “Nel giorno detto del Sole, si fa l’adunanza. Tutti coloro che abitano in città o in campagna convengono nello stesso luogo, e si leggono le memorie degli apostoli o gli scritti dei profeti per quanto il tempo lo permette. Poi, quando il lettore ha finito, colui che presiede rivolge parole di ammonimento e di esortazione che incitano a imitare gesta così belle. Quindi tutti insieme ci alziamo ed eleviamo preghiere e, finito di pregare, viene recato pane, vino ed acqua. Allora colui che presiede formula la preghiera di lode e di ringraziamento con tutto il fervore, e il popolo acclama: “Amen!”. Infine a ciascuno dei presenti si distribuiscono e si partecipano gli elementi sui quali furono rese grazie, mentre i medesimi sono mandati agli assenti per mezzo dei diaconi.” (I Apologia, 67 in Giacomo Biffi, All’origine della celebrazione cristiana, LDC, Torino 1997 pag. 8 ). Come vediamo, anche se si fa riferimento ad una forma di acclamazione come quell’”Amen”, non si dice nulla riguardo a chi conducesse il canto della celebrazione, anche se Giustino non aveva la pretesa di fare un resoconto dettagliato della cerimonia ma solamente una esposizione sommaria. Come osserviamo da quanto detto fino ad ora, non esistono documenti inoppugnabili dei primi tempi del cristianesimo che ci attestano la figura dell’”cantore” in modo definito, ma solo scritti in cui si evidenzia un ruolo molto importante della musica nelle celebrazioni dei primi secoli cristiani, anche se non si fa diretto riferimento agli “attori musicali” della celebrazione stessa. Un solo documento viene segnalato come più specifico rispetto agli altri, un documento proveniente dalla Bitinia e che Leclercq afferma essere risalente a prima della pace Costantiniana (313). In questo documento, un epitaffio, si commemora un ragazzo di 18 anni di età che il popolo stimava per “il canto delle preghiere a Dio altissimo, l’istruzione data ai fedeli nel canto dei sacri salmi e la lettura dei santi libri.” (Leclercq, “Chantres”, Dictionnaire d’Archeologie Chrètienne et de Liturgie 3 (1914) 345 in E. Foley, op. cit. pag. 209). Quindi: non viene affermato in modo inequivocabile il ruolo di cantore di questo giovane ma viene detto che cantava e istruiva il popolo e, come suggerisce Foley, connettere letture e canti ci dice ancora molto su quanto affermato sopra in proposito della poco differenza per gli antichi fra il parlato e il cantato. Altri testi di Ambrogio, Agostino e altri grandi santi e eminenti cristiani del terzo, quarto secolo ci informano della presenza di cantori, di coloro che cantavano i salmi e leggevano, di solisti (vedi sopra). Ma per avere una chiara affermazione del ministero musicale del cantore, della trasformazione da ruolo di un volontario dell’assemblea a professionista ben addestrato, dobbiamo attendere il quarto secolo.

Nel quarto secolo, nei canoni del concilio di Laodicea, viene detto che “nessuno canterà nell’assemblea eccetto i cantori canonici che stanno sull’ambone e cantano dalla pergamena.” Secondo quanto ci segnala Edward Foley nel suo articolo, la designazione di “cantore” così come noi oggi la intendiamo la troveremmo a partire proprio da questo concilio di Laodicea: “Non c’è nessuna evidente citazione del termine psaltes prima del concilio di Laodicea (c. 344-360), o di psaltagnostes prima di Gennaio di Costantinopoli (m. 471). Nelle fonti patristiche dove appare il termine psalmodos, prima del concilio di Laodicea come in Origene (m. 254) “Contra Haereses” 8. 17 o Clemente di Alessandria (m. 215) “Protrepticus” 8, questo termine viene definito a Davide e non a qualche ruolo liturgico che qualcuno svolgeva nella chiesa dei primi secoli.” (Edward Foley, op. cit. pag. 194, nota 2). Questi canoni di Laodicea, inoltre, attestano certe prescrizioni in materia di vestiario, in quanto sembra che alcuni di questi cantori aspirassero allo status ecclesiastico e quindi utilizzassero abiti che a quello status si attagliavano. Altre attestazioni importanti sono date in altri documenti, come le Costituzioni Apostoliche (sempre quarto secolo), in cui si fanno numerosi riferimenti ai cantori, specialmente in connessione con i vari gradini dello status clericale. E’ molto interessante questo passaggio storico, in cui assistiamo ad un deciso movimento dal liturgico al politico; l’essere cantore non è più soltanto una carica che offre benefici di tipo liturgico-spirituale, ma gli si richiede una valenza sociale, diviene un mezzo di scalata alle posizioni che contano. Questi primi momenti della clericalizzazione della figura del cantore, rivestono straordinaria importanza alla luce di quello che osserveremo nei secoli a venire, quando la musica lentamente diverrà appannaggio esclusivo della classe clericale (che poi, praticamente, era la classe alta), il che obiettivamente emarginerà molto sensibilmente la partecipazione attiva dei fedeli. Da qui in avanti, il cantore diviene sempre più esperto e perito nell’arte musicale e accederà sempre più spesso, attraverso il canto, alla carriera ecclesiastica. Pensiamo per esempio alla famosa Schola cantorum (Vedi anche in: Aurelio Porfiri, La “Schola Cantorum” ai tempi di Gregorio Magno in Lateranensia n.3, Roma 1994, pagg. 22-24) sotto papa Gregorio Magno, in cui i cantori studiavano fin da bambini e venivano spesso seguiti dal papa stesso nella loro istruzione musicale e spirituale. È anche logico pensare a questo sviluppo, in quanto dopo la libertà successiva all’editto di Milano, la Chiesa costruisce splendide cattedrali e può dispiegare il suo culto in uno spazio e con dei mezzi che durante la persecuzione non poteva permettersi. Anche molti elementi del cerimoniale imperiale entreranno a far parte delle solenni celebrazioni liturgiche (Vedi anche in: Aurelio Porfiri, L’avvento a Roma, in Strenna dei Romanisti, Roma 2002). Il cantore da messaggero dell’assemblea, lentamente si trasforma in virtuoso del canto, tecnicamente raffinatissimo. Di questo ne abbiamo esempio negli splendidi Graduali gregoriani che ancora oggi possiamo ascoltare in decine e decine di incisioni discografiche, con tutti quegli straordinari melismi che si offrivano al godimento interiore del popolo ma che certo il popolo non poteva eseguire, ma solo ascoltare (che comunque è una forma di partecipazione). Da “messaggero del popolo” si trasforma in elemento del coro. Il suo servizio al popolo si trasforma da servizio diretto a servizio mediato dal coro stesso e dal repertorio “alto” che si propone. Non dimentichiamo gli esiti artistici altissimi che daranno il canto gregoriano, la polifonia rinascimentale, la policoralità barocca e tanti altri straordinari capolavori che faranno anche la storia della musica occidentale. Nel XX secolo il cantore secondo la tradizione delle cattedrali viene prima di tutto scoraggiato dal motu proprio del 1903 (a favore del coro) e poi chiamato a nuova vita nel dopo concilio ma questa sarebbe una storia (con aspetti anche tragici) che sarebbe tutta da raccontare.

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