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giovedì 20 agosto 2020

L’aborto è un omicidio, sotto qualsiasi sole

Sempre e comunque per la difesa della vita, dal concepimento alla morte naturale.
Luigi

La falsità dell’interruzione della gravidanza come “diritto della donna” in Occidente e in Oriente
 di Barbara Santambrogio, IFN

Non sono trascorse neppure due settimane da quando “iFamNews” ha raccolto e rilanciato l’appello di Rushan Abbas alle femministe di tutto il mondo affinché diano voce alla protesta, purtroppo silenziata, delle donne uigure dello Xinjiang, in Cina, contro le politiche dissennate del Partito Comunista Cinese. Tali politiche impongono alla minoranza etnica musulmana e turcofona degli uiguri non solo stili di vita edonistici, antireligiosi e lontanissimi dalla loro cultura, ma persino sterilizzazioni e aborti forzati. Tutto ciò in nome della normativa sul controllo demografico e di un dispotismo che fa del regime neocomunista cinese un nemico conclamato anche delle donne e dei loro diritti.

La Abbas parla e scrive nel proprio ruolo di donna, di uigura, di attivista a capo della Ong Campaign for Uyghurs, negli Stati Uniti d’America. Altri, invece, lo fanno a titolo diverso, come per esempio nel caso dello studioso Adrian Zenz, antropologo tedesco noto per gli studi sui campi di rieducazione dello Xinjiang, docente di Metodologia della ricerca sociale nell’istituto teologico evangelico Akademie für Weltmission e sinologo per la Victims of Communism Memorial Foundation di Washington.

Pochi giorni dopo l’articolo dell’Abbas, il quotidiano online specializzato Bitter Winter ha pubblicato un articolo straordinariamente accurato sull’ultimo studio realizzato da Zenz per The Jamestown Foundation.

Lo studio verte precisamente su quanto denunciato dall’attivista uigura e ne sostiene la denuncia con una messe notevole di dati, che lo studioso tedesco ha attinto direttamente dai siti web ufficiali e pubblici del regime cinese. E i dati parlano di un crollo demografico verificatosi nella Regione autonoma uigura dello Xinjiang, che i suoi abitanti preferiscono chiamare Turkestan orientale, pari al 90% fra il 2013 e il 2019. Sono numeri impressionanti, che raccontano in modo incontrovertibile il vero e proprio genocidio in atto nella zona, realizzato a colpi di arresti, di torture, di sterilizzazioni e di aborti forzati.

Infatti, anche quando non siano detenute per motivi strumentali e pretestuosi nei famigerati campi per la rieducazione attraverso l’educazione, che sono in realtà veri e propri campi di internamento, le donne uigure vengono costrette all’assunzione di ormoni che ne bloccano il ciclo mestruale e che ne inibiscono la fertilità, all’inserimento di contraccettivi intrauterini invasivi, quali lo IUD, a test di gravidanza regolari e costanti, alla sterilizzazione e all’aborto. Non possono decidere, non possono sfuggire. Semplicemente non possono avere figli, a meno che non sia loro permesso dal Partito. E in caso di gravidanza non autorizzata, quando sono “fortunate” sono obbligate ad abbandonarli, per strada o nelle mani di un Partito-padrone che li rinchiude negli orfanotrofi statali e li “rieduca” in base ai propri princìpi. Quando va peggio, debbono lasciare che siano uccisi ancora nel grembo.

In Cina questo è il destino di un numero sconvolgente di donne, non solo uigure e non solo nello Xinjiang. Indubbiamente ciò suscita lo sdegno e la compassione di chiunque, nei Paesi occidentali, donna o uomo che sia, femminista oppure no, religioso oppure no. Si verifica però, a questo punto, un cortocircuito logico e morale, che riguarda nello specifico l’aborto.

L’aborto è un omicidio. Per esso non vi sono e non vi possono essere motivazioni “valide”, di alcun tipo. Non cambia la realtà il fatto che la donna sia costretta, sia “consenziente” o addirittura sia decisa e convinta. L’aborto uccide la vita nel grembo materno, e questa è una verità che non deve temere smentite. Perché non ne esistono.

Nel momento in cui l’Occidente tutelato e protetto, quantomeno rispetto a realtà geo-politiche ben più fragili, si impietosisce e si commuove davanti alla sorte delle mamme uigure e cinesi obbligate ad abortire, dovrebbe avere il medesimo sguardo verso tutte le vittime dell’aborto: verso i piccoli fatti fuori per gli interessi degli adulti e verso le donne che, in tutti i casi, anche qualora lo decidessero consapevolmente e volontariamente, lo subiscono. E lo stesso sguardo, di ripulsa, verso i carnefici che lo promuovono.