Un'acuta analisi di Sandro Magister.
Luigi
23-9-19
Il mantra con cui i fautori dei preti sposati motivano la loro pretesa è l’invincibile scarsità di preti celibi in regioni con piccole comunità disperse in luoghi remoti, come l’Amazzonia o le isole del Pacifico. Bisogna assicurare – dicono – che si offra a tutti la celebrazione della messa a cadenza regolare, e non soltanto rare volte all’anno.
Curiosamente, gli stessi che si mostrano così generosi nel voler elargire l’eucaristia sono anche i più avari nel convertire e amministrare il battesimo, evidentemente da loro equiparato al “proselitismo” tanto aborrito da papa Francesco. “Non ho mai battezzato un indio, e neppure lo farò in futuro”, ha detto il vescovo Erwin Kräutler, uomo chiave dell’imminente sinodo amazzonico.
La contraddizione maggiore, però, è con due millenni di storia della Chiesa, che hanno visto innumerevoli casi di scarsità di preti celibi per comunità disperse, senza però che nessuno derivasse da ciò – con ragionamento puramente funzionale, organizzativo – l’obbligo di reclutare come celebranti anche uomini sposati, i cosiddetti “viri probati”.
Non solo. La storia insegna che la scarsità di preti celibi non necessariamente si risolve in un danno per la "cura d'anime". Anzi, in alcuni casi addirittura coincide con una fioritura della vita cristiana.
È stato così, ad esempio, nella Cina del XVII secolo. Ne ha dato conto una fonte insospettabile, "La Civiltà Cattolica”, la rivista dei gesuiti di Roma diretta da Antonio Spadaro che è il numero uno dei confidenti di Jorge Mario Bergoglio, in un dotto articolo di tre anni fa del sinologo gesuita Nicolas Standaert, docente all'Università Cattolica di Lovanio.
Nel XVII secolo in Cina i cristiani erano pochi e dispersi. Scrive Standaert:
"Quando Matteo Ricci morì a Pechino nel 1610, dopo trent’anni di missione, c’erano circa 2.500 cristiani cinesi. Nel 1665 i cristiani cinesi erano diventati probabilmente circa 80.000, e intorno al 1700 erano circa 200.000, il che era ancora poco, se confrontato con l’intera popolazione, tra i 150 e i 200 milioni di abitanti".
E pochissimi erano anche i sacerdoti:
"Alla morte di Matteo Ricci, c’erano soltanto 16 gesuiti in tutta la Cina: otto fratelli cinesi e otto padri europei. Con l’arrivo dei francescani e dei domenicani, intorno al 1630, e con un lieve incremento dei gesuiti nello stesso periodo, il numero dei missionari stranieri arrivò a più di 30, e rimase costante tra i 30 e i 40 nell’arco dei successivi trent’anni. In seguito vi fu un incremento, raggiungendo un picco di circa 140 tra il 1701 e il 1705. Ma poi a causa della controversia sui riti il numero dei missionari si ridusse di circa la metà".
Di conseguenza la gran parte dei cristiani cinesi incontravano il sacerdote non più di "una o due volte l’anno". E nei pochi giorni in cui durava la visita, il sacerdote "conversava con i capi e con i fedeli, riceveva informazioni dalla comunità, si interessava delle persone malate e dei catecumeni. Ascoltava confessioni, celebrava l’eucaristia, predicava, battezzava".
Poi il sacerdote per molti mesi spariva. Eppure le comunità reggevano. Anzi, conclude Standaert: “Si trasformarono in piccoli ma solidi centri di trasmissione di fede e di pratica cristiana".
Ecco qui di seguito i particolari di quella affascinante avventura di Chiesa, come riferiti da "La Civiltà Cattolica".
Senza elucubrazione alcuna sulla necessità di ordinare uomini sposati.
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“IL MISSIONARIO ARRIVAVA UNA O DUE VOLTE L’ANNO”
di Nicolas Standaert S.I.
(da "La Civiltà Cattolica" n. 3989 del 10 settembre 2016)
Nel XVII secolo i cristiani cinesi non erano organizzati in parrocchie, ovvero in unità geografiche attorno all’edificio di una chiesa, bensì in "associazioni", con a capo dei laici. Alcune di esse erano un misto del tipo di associazioni cinese e di quello delle congregazioni mariane di ispirazione europea.
Pare che tali associazioni cristiane fossero molto diffuse. Ad esempio, intorno al 1665 c’erano circa 140 congregazioni a Shanghai, mentre c’erano più di 400 congregazioni di cristiani nell’intera Cina, sia nelle grandi città sia nei villaggi.
L’insediamento del cristianesimo a questo livello locale ebbe luogo sotto forma di quelle che si possono definire "comunità di rituali efficaci", gruppi di cristiani la cui vita era organizzata attorno a determinati rituali (messa, festività, confessioni ecc.). Esse erano "efficaci" sia nel senso che costruivano un gruppo, sia nel senso che venivano considerate dai membri del gruppo come capaci di recare senso e salvezza.
I rituali efficaci erano strutturati in base al calendario liturgico cristiano, che comprendeva non soltanto le principali feste liturgiche (Natale, Pasqua, Pentecoste ecc.), ma anche celebrazioni dei santi. L’introduzione della domenica e delle feste cristiane fece sì che la gente vivesse secondo un ritmo diverso dal calendario liturgico utilizzato nelle comunità buddiste o taoiste. I rituali più evidenti erano i sacramenti, specialmente la celebrazione dell’eucaristia e la confessione. Ma la preghiera comunitaria – soprattutto la recita del rosario e le litanie – e il digiuno in determinati giorni costituivano i momenti rituali più importanti.
Queste comunità cristiane rivelano anche alcune caratteristiche essenziali della religiosità cinese: comunità che sono molto orientate alla laicità e che hanno capi laici; l’importante ruolo delle donne quali trasmettitrici di rituali e di tradizioni all’interno della famiglia; una concezione del sacerdozio orientato al servizio (preti itineranti, presenti soltanto in occasione di feste e di celebrazioni importanti); una dottrina espressa in modo semplice (preghiere recitate, princìpi morali chiari e semplici); una fede nel potere trasformante dei rituali.
A poco a poco, le comunità giunsero a funzionare in maniera autonoma. Un prete itinerante (inizialmente uno straniero, ma nel XVIII secolo prevalentemente preti cinesi) era solito far loro visita una o due volte l’anno. Di norma i capi delle comunità riunivano i vari membri una volta la settimana e presiedevano alle preghiere, che la maggior parte dei membri della comunità conosceva a memoria. Essi leggevano anche i testi sacri e organizzavano l’istruzione religiosa. Spesso si tenevano incontri a parte per le donne. Inoltre, vi erano catechisti itineranti che istruivano i bambini, i catecumeni e i neofiti. In assenza di un sacerdote, capi locali amministravano il battesimo.
Durante la sua visita annuale di alcuni giorni, il missionario conversava con i capi e con i fedeli, riceveva informazioni dalla comunità, si interessava delle persone malate e dei catecumeni ecc. Ascoltava confessioni, celebrava l’eucaristia, predicava, battezzava e pregava con la comunità. Dopo la sua partenza, la comunità continuava la sua consueta pratica di recitare il rosario e le litanie.
Il cristiano ordinario quindi incontrava il missionario una o due volte l’anno. Il vero centro della vita cristiana non era il missionario, ma la comunità stessa, con i suoi capi e catechisti come principale anello di congiunzione.
Soprattutto nel XVIII e all’inizio del XIX secolo queste comunità si trasformarono in piccoli ma solidi centri di trasmissione di fede e di pratica cristiana. A causa dell’assenza di missionari e di sacerdoti, i membri della comunità – ad esempio, i catechisti, le vergini e altre guide laiche – assumevano il controllo di tutto, dall’amministrazione finanziaria alle pratiche rituali, compresa la guida delle preghiere cantate e l’amministrazione dei battesimi.