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martedì 14 maggio 2019

Abbé Claude Barthe: la riforma liturgica specchio del progetto conciliare

Pubblichiamo uno studio-raffronto dell'Abbé Claude Barthe fra la Liturgia tradizionale e quella post conciliare . 
Nel post di MiL di ieri ( QUI ) fanno riflettere le parole che il Cardinale Antonio Cañizares Llovera scrisse nel 2003, quando ancora era Prefetto della Congregazione per il Culto Divino: "...qual è mai il fascino segreto che la Messa latina antica porta con sé – per quale ragione, o, piuttosto, per quali ragioni assistiamo ad una sorprendente rinascita della Messa tradizionale proprio ai giorni nostri, dal momento che la maggior parte di coloro che la celebrano o vi partecipano è nata dopo il 1970? Ed in che modo si tratta di un fenomeno positivo per la Chiesa e per la nuova evangelizzazione?
AC  

La riforma liturgica. Specchio del progetto conciliare 

Come una riproduzione dell’adagio lex orandi, lex credendi, si potrebbe dire che, dal Vaticano II in poi, ad un “insegnamento pastorale” corrisponde una “liturgia pastorale”. Argomento molto vasto, per il quale, in questa sede, ho deciso di limitarmi ad alcuni aspetti della Messa del Vaticano II, ma si potrebbe estendere alla nuova liturgia nel suo insieme da
tutti i punti di vista.  

Una ecclesiologia ecumenica come tentativo di compromesso con la modernità  
L’introduzione dell’esortazione apostolica Amoris Laetitia, per evitare che la dottrina presentata sia invalidata come non conforme alla dottrina precedente, riutilizzava, senza usare espressamente il termine, la categoria nuova di “insegnamento pastorale”, ossia l’insegnamento volontariamente non dogmatico, inaugurato dal secondo concilio vaticano. Questo concilio ecumenico atipico aveva creato dei vuoti ecclesiologici, così come il capitolo VIII di Amoris laetitia, circa mezzo secolo dopo, ha creato dei vuoti morali. 
In entrambi i casi si può dire che gli organi di insegnamento hanno perso terreno, a causa di una pressione liberale che si è esercitata con forza sempre crescente e hanno tentato una transazione con la modernità. 
Molto concretamente, al Vaticano II la Chiesa è stata presentata come se non fosse più l’unica società soprannaturale, l’unica Sposa di Gesù Cristo, ma come se esistessero altre entità ecclesiali che avevano una certa esistenza soprannaturale, imperfetta ma reale. 
Tale slittamento si rileva, in particolare, nei tre testi più controversi del Concilio: il decreto Unitatis redintegratio, sull’ecumenismo, la dichiarazione Nostra Aetate, sui rapporti della Chiesa con le religioni non cristiane, e la dichiarazione Dignitatis humanae, sulla libertà religiosa. 
Ricordiamo soltanto il compromesso dottrinale nel quale si è cimentato Unitatis redintegratio
L’ecumenismo cattolico – senza essere del resto chiaramente definito – vorrebbe mantenersi a pari distanza dall’uniatismo tradizionale (le comunità separate sono invitate a ritornare a far parte della Chiesa cattolica) e dall’ecumenismo protestante (che auspica una Chiesa di Cristo confederale che inglobi le diverse confessioni cristiane). 
Il Vaticano II ha tentato così di aprire un’improbabile terza via, elaborando la nozione nuova di “comunione imperfetta” (Unitatis redintegratio, n. 3), che esisterebbe tra i cristiani non cattolici e la Chiesa (e anche, secondo Ut unum sint, tra le Chiese e le comunità separate e la Chiesa cattolica, n. 11 § 2). 
 Come per Amoris laetitia, questo compromesso di fondo si coniuga con un compromesso formale: il carattere pastorale di questo insegnamento: «La crisi della Chiesa, oggi, prima di essere dottrinale, morale, spirituale, liturgica, di autorità – è anche tutto questo – è innanzitutto una crisi formale. (...) Il Vaticano II è la trasformazione di un evento che sarebbe dovuto essere dogmatico e che, al contrario, si è trasformato in pastorale facendo sì che la lingua da dogmatica diventasse pastorale»[1]. 
Compromesso, perché la modernità è essenzialmente il rifiuto di ogni dogma. 
È stato introdotto dal discorso di apertura Gaudet Mater Ecclesia di Giovanni XXIII, che può essere riassunto con la formula: né condanna, né dogmatizzazione, ed è stato confermato dal discorso al Sacro Collegio del 23 dicembre 1962 e dalle affermazioni ufficiali successive[2]. 
In quest’ottica, il n. 25 § 1 di Lumen gentium ha elaborato una nuova categoria di insegnamenti supremi del Papa o dei vescovi in comunione con il Papa, che i teologi fino a quel momento riservavano a certi decreti delle Congregazioni romane: tali insegnamenti sono forniti senza l’intenzione di proporli in maniera definitiva, e a loro è dovuto non un assenso di fede, ma solo un religiosum voluntatis et intellectus obsequium[3]. 
Questo nuovo modo di esporre la dottrina senza coinvolgere, almeno indirettamente, la fede della Chiesa – ovvero senza riferirsi al Qui vos audit, me audit (Lc 10,17) – implica un nuovo modo di auto–comprensione degli organi d’insegnamento. 
Questo governo del popolo cristiano, privato del riferimento all’obbligo di credere e che propone una specie di unità di opinione, presenta una certa analogia con il tipo di governo delle democrazie moderne circa l’elaborazione di un consenso, la cui forma, hanno spiegato Augustin Cochin e più recentemente François Furet, risiede nel funzionamento delle società di pensiero.  

Un messaggio liturgico in regressione 
Nella nuova messa ogni partecipante, se ha la possibilità di fare un confronto con le vecchie forme liturgiche o con le liturgie orientale, ha la percezione immediata di una debole manifestazione della trascendenza. 
A favore di una “inserzione nella vita”, per una migliore partecipazione attiva di tutti i battezzati, la messa è interpretata come una riunione conviviale, di cui fa propri il tono e i riti di civiltà: la parola di accoglienza pronunciata dal sacerdote che presiede; l’intervento di uomini e donne con un abbigliamento informale per leggere le letture o per dare la comunione; le parole finali del celebrante per augurare gentilmente una buona domenica ai parrocchiani al momento del congedo. 
Tutto questo è notevolmente rafforzato dal passaggio da una lingua sacra a una lingua di uso profano, e perfino puramente profana, senza la distanza che crea una versione antica come per gli anglicani. 
Inoltre, tutto è detto ad alta voce, specie la preghiera eucaristica. 
Il silenzio del canone, attestato nel IX secolo, fungeva da iconostasi morale nella liturgia latina. 
La dizione ad alta voce sottolinea, d’altronde, la forma comune del discorso, che dà un’impressione di “chiacchiera continua”, bandendo il silenzio di raccoglimento. 
 Infine la generalizzazione della celebrazione intenzionalmente di fronte al popolo, teoricamente non obbligatoria ma concretamente quasi consustanziale alla riforma, come mostrano le reazioni ai recenti tentativi del cardinale Sarah per “invertire il senso”, contribuisce ampiamente a una diminuzione del sentimento della trascendenza. 
La liturgia riformata produce tra coloro che la praticano un’impressione di appiattimento della trascendenza, allontanandoli proporzionalmente da ciò che credono di toccare con le proprie mani, contrariamente alle liturgie tradizionali, latine o greche che, sottolineando nei gesti e nelle parole l’immensa elevazione del mistero che svelano deformandolo, fanno paradossalmente toccare il soprannaturale attraverso una sorta di gioco continuo di allontanamento/ avvicinamento[4]. 
D’altra parte bisogna considerare che la nuova liturgia è stata composta in un contesto ecumenico, ma riguardante solo il protestantesimo, poiché il Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia aveva deliberatamente escluso di invitare osservatori ortodossi. 
Ciò ha comportato una grande attenzione nei confronti della sensibilità protestante. 
Per fare un esempio, nella redazione di nuove raccolte del santorale, i redattori hanno badato, come si può constatare, «a sopprimere per quanto possibile ogni allusione all’intercessione dei santi»[5]. 
Tale contesto ha l’effetto di sottolineare una minore riverenza nella nuova liturgia rispetto alla presenza reale (riduzione delle genuflessioni; segni di purificazione; di protezione delle sante specie; banalizzazione tipografica delle parole consacratone; comunione possibilmente data dai laici; estensione della comunione sulla mano). 
Si noterà anche che, nella nuova messa, l’officiante è più presidente che gerarca, assimilato a Cristo Sacerdote (il Confiteor dell’inizio della messa è comune a tutti; la soppressione di molte preghiere di purificazione dell’anima del ministro celebrante; l’abolizione della distinzione tra la comunione del sacerdote e quella dei fedeli; l’entourage composto non più da chierici o bambini assimilati a chierici come nella vecchia liturgia, ma puri laici, compreso donne lettrici e distributrici della comunione e ragazze ministranti; e in generale il debole ritualismo delle cerimonie nuove come parte importante lasciata ai liberi interventi del celebrante che svolge un ruolo considerevole al suo “gioco” personale di attore). 
Ma il più notevole indebolimento riguarda la comprensione della messa come sacrificio sacramentale per i vivi e per i defunti. 
Non solo, dalla fine degli anni sessanta, la nozione di “sacrificio per i peccati” e di “soddisfazione vicaria” ha subito critiche frontali[6] o laterali[7], inoltre, per molti teologi del XX secolo, anche non progressisti, la messa, invece di essere sacrificio vero e sacramentale che rinnova quello del Calvario, costituirebbe piuttosto un sacrificio di oblazione per la Chiesa, carpendo il sacrificio di oblazione–immolazione del Golgota, senza ripetizione sacrificale propriamente detta secondo un modo sacramentale[8]. 
Si può dire che è questa posizione mediana tra progressismo anti–sacrificale e ortodossia sacramentale che ha elaborato il nuovo Ordo missae: l’imbarazzo di affermare che la messa è proprio un sacrificio che reitera in modo multiplo l’unico sacrificio di Cristo porta a dire che essa rende solo presente quest’unico sacrificio, come se la presenza reale eucaristica fosse raddoppiata da una specie di “presenza reale” dell’atto del Golgota[9]. 
Nonostante il legame della liturgia nuova con queste inflessioni teologiche, il nuovo messale presenta molti punti deboli. 
Sposta così, nel momento più solenne, l’attenzione che la liturgia della messa aveva finora prestato principalmente al sacrificio del Venerdì Santo (il sangue offerto per noi), verso il mistero pasquale nel suo insieme. 
Certamente, il messale tridentino, dopo la consacrazione, una preghiera di anamnesi, di memoria della Passione, della Risurrezione e anche dell’Ascensione, Unde et memores, ma nella nuova messa, è l’espressione mysterium fidei stessa, che era inserita nell’ambito della consacrazione del Preziosissimo Sangue, come un’esplicitazione del sacrificio eucaristico, mistero della fede del nuovo ed eterno testamento (il mistero della fede celebrato hic et nunc, è il Sangue sparso in remissione dei peccati), che è riportato subito dopo, come introduzione alle acclamazioni. 
Il mistero della fede rinnovato sacramentalmente non è più solo il mistero del Sangue sparso per i nostri peccati, ma è al tempo stesso quella della morte e della Risurrezione e della parusia: «È grande il mistero della fede: annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua Risurrezione, nell’attesa della tua venuta». 
Un crocifisso non è obbligatoriamente posto al centro dell’altare per dominare la celebrazione del sacrificio, ma può essere in prossimità. Un solo segno della croce sugli oblati non consacrati è stato mantenuto, al posto di una trentina di segni fatti dal sacerdote sugli oblati o con loro nel vecchio Ordo. 
La breve Prex eucharistica II, versione adattata della Tradizione apostolica di Ippolito, come ricostruita, riflette infatti un’espressione teologica arcaizzante, che esprime il sacrificio del pane e del vino consacrati solo implicitamente “Che prendendo parte al Corpo e al Sangue di Cristo siamo riuniti dallo Spirito Santo in un solo corpo”. 
Quanto al canone romano, particolarmente esplicito nell’espressione del sacrificio, con le ripetizioni dei termini “sacrificio” al singolare o al plurale, “offerte”, “offriamo”, “oblazione”, è l’unica preghiera eucaristica possibile. 
Molte preghiere da parte del sacerdote per chiedere perdono dei peccati, dette apologie, sono state eliminate, col pretesto che erano state aggiunte durante l’alto Medioevo, per esempio il Placeat tibi sancta Trinitas, molto significativo del sacrificio compiuto, pronunciato nella vecchia liturgia prima della benedizione: «Sia a te gradito, o Santa Trinità, l’omaggio della mia servitù, e fa’ che questo sacrifizio, da me indegno offerto sotto gli sguardi della tua maestà, a te sia accetto». Ma il maggiore indebolimento risulta dalla soppressione dell’offertorio tradizionale, sostituito da una “preparazione dei doni”. 
Le liturgie latine e orientali – queste ultime, in modo molto insistente – hanno sempre considerato gli oblati portati nel santuario e scoperti sull’altare consacrati e offerti in sacrificio in anticipo. 
La presenza dell’offertorio sacrificale, o del suo equivalente, la protesi, nella maggior parte delle liturgie basterebbe a provare che è un elemento notevole della lex orandi. In modo molto naturale, dal VII al XI secolo, nella liturgia romana – come nelle altre liturgie latine e orientali – sono state stabilite queste preghiere di offerta sacrificale degli oblati da consacrare. 
Una delle grandi richieste del Movimento liturgico degli anni cinquanta, presentata in particolare da p. Joseph–André Jungmann, è stata di ritornare a un rito di apporto degli oblati nell’Antichità cristiana come lo si immaginava – e che si modernizzava con processioni di apporto dei “frutti della terra e del lavoro” –, eliminando il cosiddetto “doppione” del canone che costituiva l’offertorio romano («si sopprimano quegli elementi che, col passare dei secoli, furono duplicati o aggiunti senza grande utilità», Sacrosanctum Concilium, n. 50). 
P. Louis Bouyer era uno dei diffusori della vulgata dell’epoca secondo la quale la liturgia cristiana era prevalentemente sorta dalla liturgia della Sinagoga come la si immaginava allora, ad esempio come una liturgia che sarebbe stata identicamente praticata da tutte le comunità ebraiche, dall’epoca di Gesù Cristo fino all’Alto Medioevo. 
Secondo lui era indubbio che l’Ultima Cena era nata come un pasto ebreo di festa, preceduta da una berakha pronunciata sulla prima coppa di vino: “Benedetto sei tu, Signore, nostro Dio, Re dei secoli, che fai produrre questo pane nella vigna”[10]. 
Tentava di far cominciare l’eucaristia del XX secolo, allo stesso modo in cui si pensava che fosse cominciata l’Ultima Cena, dando quindi alla messa un sapore di giudaismo. 
È così che i saggi esperti del Consilium eliminarono l’offertorio romano, divenuto parte essenziale dell’esplicitazione del sacrificium missae.  

La “preparazione dei doni” che l’ha sostituita è così resa nel messale in lingua volgare: quando il sacerdote eleva la patena: Benedictus es, Domine, Deus universi, quia de tua largitate accepimus panem, quem tibi offerimus, fructum terrae et operis manuum hominum: ex quo nobis fietpanis vitae – “Benedetto sei tu. Signore, Dio dell’universo: dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane, frutto della terra e del lavoro dell’uomo; lo presentiamo a te, perché diventi per noi cibo di vita eterna” (mentre nel messale tridentino: “Accettate, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, quest’immacolata ostia che io indegno tuo servo offro a voi, o Dio mio vivo e vero, per gl’innumerevoli miei peccati, le mie offese e le mie trascuratezze, e per tutti gli astanti, ma anche per tutti i fedeli cristiani vivi e defunti, acciocché per me e per essi sia giovevole alla salvezza nella vita eterna”). 
Quando eleva il calice: Benedictus es, Domine, Deus universi, quia de tua laigitate accepimus vinum, quod tibi offerimus, fructum vitis et operis manuum hominum, ex quo nobis fiet potus spiritalis. – “Benedetto sei Tu, Dio dell’universo: dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo vino, frutto della vite e del nostro lavoro; lo presentiamo a Te perché diventi per noi bevanda di salvezza” (Invece di: “Vi offriamo, o Signore, il calice della salvezza, implorando la vostra clemenza, affinché al cospetto della vostra divina maestà la nostra offerta salga in odor di soavità per la salvezza nostra e di tutto il mondo”).  

Un universo rituale polverizzato 
Passare da un messale all’altro produce, dal punto di vista delle regole da osservare, un’impressione sorprendente. 
Al posto dei gesti e degli atteggiamenti del corpo ritualizzati, strettamente determinati da un uso immemoriale, le nuove rubriche non sono che indicazioni o proposte vaghe. Come per le traduzioni, una certa libertà è considerata come legittima e auspicabile per meglio “avvicinarsi alla vita”. 
 Le scelte sono innumerevoli. 
Così, dopo che il sacerdote ha baciato l’altare e l’ha incensato, se lo ritiene giusto, a mani tese, saluta il popolo con tre formule a scelta. 
Poi il sacerdote o il ministro capace può liberamente fare un’introduzione alla messa del giorno. 
In seguito, il sacerdote invita i fedeli alla penitenza secondo quattro possibilità, tra cui l’aspersione. 
Senza parlare delle scelte proposte nell’uso o non uso degli ornamenti, del loro colore, si può continuare così: Kyrie eleison eccetto se è stato utilizzato nelle preghiere penitenziali; due letture, di cui la prima può essere omessa; la professione di fede si fa con il simbolo niceno–costantinopolitano o con quello degli Apostoli; la preghiera universale è liberamente composta; le prefazioni sono quarantasei per il temporale, dieci per il santorale, tredici per il comune dei santi, sedici per i defunti, messe rituali, messe votive
La preghiera eucaristica romana era, ed è indubbiamente sempre stata, unica. 
Le preghiere eucaristiche a scelta sono ormai ufficialmente quattordici. 
Ma alcune conferenze episcopali hanno chiesto l’approvazione di preghiere eucaristiche specifiche. 
Così quella del Brasile ha ottenuto l’approvazione di una anafora, detta preghiera eucaristica di Manaus, che ha la particolarità di essere dialogata. 
La consacrazione è seguita da tre acclamazioni a scelta. 
L’introduzione al Pater ha due varianti, o è libera. 
La pace e la carità reciproche si manifestano secondo i costumi locali (e soprattutto in base ai gesti di civiltà in vigore: oggi, alla stretta di mano fa concorrenza il bacio sulle guance). 
È come un’esplosione di varianti: la benedizione del popolo può essere data in modo solenne con dieci introduzioni tre o quadripartite ognuna caratterizzata da tre Amen, o ancora con ventisei introduzioni sotto forma di “preghiere sul popolo”, ma estese. 
La fluidità richiama naturalmente la libertà e l’invenzione, spesso sotto l’apparenza di bene. Il passaggio dal latino alle lingue vernacolari da’ l’impressione di polverizzazione di un culto romano che era particolarmente unificato e unificante. 
La valutazione del numero di traduzioni in lingue e dialetti (senza parlare della messa in esperanto) nelle quali si celebra oggi la liturgia detta latina è da 350 a 400. 
Alcuni ritocchi operati dalle versioni nazionali sono talvolta considerevoli. 
A titolo di esempio: il pro multis (sangue versato “per molti”) della consacrazione, reso con per tutti in italiano; il consubstantialem Patri, il Figlio è consustanziale al Padre, del Credo, reso in francese con il Figlio è “de même nature que le Père”. 
Tali adattamenti potrebbero essere considerati una inculturazione: in Cina si celebrano gli antichi riti in onore degli antenati defunti; in Zambia si elimina la combinazione di acqua e vino; nello Zaire è praticato un rito con danze processionali, l’invocazione degli antenati, dialoghi consuetudinari tra sacerdote e popolo. 
Per non parlare degli innumerevoli “abusi” (per esempio: messa al circo, messa per bambini, messa nella sala da pranzo, messa “che se la prende comoda” ecc.), tranne che per dire che la nuova liturgia è intrinsecamente aperta alla creatività, in particolare, alla creatività della parola. 
A Parigi, attualmente, il parroco di Saint–Merry riscrive tutte le preghiere della liturgia, compresa quella dell’eucaristia, alla luce dell’attualità[11].  

Una liturgia mondanizzata 
Ognuno degli elementi descritti può apparire di per sé di secondaria importanza. 
Ma la loro somma è rilevante: abbandono di un rituale obbligatorio, opzioni multiple, celebrazione nella maggior parte dei casi di fronte al popolo, uso generale delle lingue comuni, grande libertà nelle ammonizioni e nei commenti, parole praticamente sempre ad alta voce a discapito del segreto rimale e sacro, minore riverenza rispetto all’eucaristia, espressione più debole del sacerdote gerarchico e soprattutto della realtà del sacrificio sacramentale, adozione di un certo numero di gesti e usi della vita ordinaria. 
«Non bisogna stupirsi troppo se – scrive Louis Bouyer nelle sue Memorie – con le sue inverosimili debolezze, l’aborto che producemmo doveva suscitare lo scherno e l’indignazione». 
Il problema posto da questa liturgia è lo stesso di quello sollevato dai testi dottrinali ambigui come quelli riguardanti i principi dell’ecumenismo già evocati, o come il capitolo VIII dell’esortazione Amoris laetitia
In entrambi gli ambiti si osserva di fondo una certa composizione con la modernità liberale. 
Il messaggio trasmesso può, al massimo, essere considerato meno chiaro rispetto a un insegnamento o a un messaggio liturgico precedenti. 
E in entrambi gli ambiti tale regressione è consentita da uno stesso procedimento formale: nell’ambito dottrinale l’uso di un “insegnamento pastorale” invece di un magistero dogmatico o in ogni caso di un insegnamento fondato sul dogma; nell’ambito del culto, l’elaborazione di ciò che potremmo considerare “liturgia pastorale” che comporta degli obblighi molto flessibili, che aprono infinite possibilità di scelta, lasciando largo spazio alla libera volontà degli attori. 
Si tratta insomma, per fare riferimento al "pensiero debole" di Gianni Vattimo, di una liturgia debole, eco di un magistero debole, corrispondenti entrambi alle attese della modernità che rifiuta sia gli obblighi assoluti del Credo che quelli di un rito imperativo ancorato al Credo. 

Abbé Claude Barthe


NOTE
[1] Cfr. Enrico Maria Radaelli, in Il domani – terribile o radioso? – del dogma, Milano 2013, pp. 21, 24.
 [2] Risposte della Commissione dottrinale, del 6 marzo 1964 e 16 novembre 1964; discorso di Paolo VI, del 7 dicembre 1965 e 12 gennaio 1966. 
[3] Si ricorda che, invece, il magistero infallibile richiede di ritenere o di accogliere fermamente le verità che propone (professione di fede, 9 gennaio 1989). 
[4] Vedi Martin Mosebach, La liturgie et son ennemi, Mora Decima, 2005. 
[5] Pierre Jounel, Les oraisons du propre des saints dans le nouveau missel, in La Maison–Dieu, 1° trimestre 1971 (105), p. 182. 
[6] Hans Küng, Le Concile épreuve de l’Église, Seuil, 1963; Louis–Marie Chauvet, Le “sacrifice” en christianisme. Une notion ambiguë, in Le sacrifice dans les religions, a cura di Marcel Neusch, Beauchesne, 1994, pp. 139–155. 
[7] Si può interpretare il tema dell’“inversione sacrificale” con il cristianesimo secondo René Ginard in Des choses cachées depuis la fondation du monde (Grasset, 1978), come derivante da un certo imbarazzo di fronte alla teologia sacrificale e che cerca di esonerare il cristianesimo da questa nozione che lo capovolgerebbe. 
[8] Odon Casel, Faites ceci en mémoire de moi, Cerf, 1962; Jacques Maritain, Quelques réflexions sur le sacrifice de la messe, in Nova et Vetera, gennaio 1968, pp. 1–36; Bernard Sesboüé, che rifiuta, in Croire. Invitation à la foi catholique pour les femmes et les hommes du XXIe siècle (Droguet et Ardant, 1999) le parole “ripetizione” e “rinnovamento”: fa dire solo che il sacrificio di Cristo si trova “rappresentato” o “attualizzato”. 
[9] lnstitutio generalis del nuovo messale romano, 2° capitolo (De generalis structurae missae), n. 7 – n. 27 nell’edizione tipica del 2002. 
[10] Louis Bouyer, Eucharistie. Théologie de la prière eucharistique, Cerf, 2009, pp. 82–83. 
[11] Daniel Duigou, Lettre ouverte d’un curé au Pape François, Presses de la Renaissance, 2018, pp. 19–20.

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