Riprendiamo ancora "Opzione Benedetta" (vedi alcuni post di Mil QUI) con un'interessante proposta di Magister.
L
Settimo Cielo, 11-10-18
Nei giovani è nascosto il futuro. E sarebbe quindi naturale che il sinodo sui giovani in corso a Roma si interroghi sul futuro del cristianesimo in un’epoca sempre più postcristiana.
È lo stesso interrogativo da cui muove “The Benedict Option” dell’americano Rod Dreher, il libro a tema religioso più discusso di questi ultimi anni.
Ne è autore Roberto Pertici, 66 anni, professore di storia contemporanea all’università di Bergamo e specialista dei rapporti tra Stato e Chiesa. Uno storico di cui i lettori di Settimo Cielo hanno già potuto apprezzare, lo scorso aprile, l’illuminante analisi sulla fine del “cattolicesimo romano” messa in moto dall’attuale pontificato:
Nel discutere “The Benedict Option” – al punto 5 della sua analisi – Pertici istituisce un suggestivo parallelo con la visione della storia del grande e controverso scrittore francese Michel Houellebecq. Per mettere in dubbio che l’attuale scristianizzazione sia definitiva e “per sempre”, perché invece potrebbe andare incontro anch’essa a una “rottura” come quella che ha segnato la fine di precedenti stadi di civiltà. Ed è a questo che si deve essere pronti, "serbando intatta l’eredità cristiana per poterla poi riproporre in un mondo mutato".
A lui la parola.
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Rod Dreher conservatore e cristiano
di Roberto Pertici
1. Molto si è discusso in Italia dell’ormai celebre libro di Rod Dreher, “The Benedict Option”, tradotto anche in italiano, specie dopo il “tour” che il suo autore ha compiuto nel nostro paese allo scopo di presentarlo e discuterne. Ma ho l’impressione che il dibattito si sia incentrato soprattutto sulla proposta con cui lo scrittore americano si è caratterizzato: la creazione di comunità che si impegnino a conservare e sviluppare la tradizione cristiana e in qualche modo tenerla viva in vista di un futuro ritorno, mentre il mondo d’intorno non solo sta perdendo manifestamente le sue radici cristiane, ma le minaccia con comportamenti ostili. La funzione che svolsero, appunto, i monasteri benedettini dell’alto Medio Evo. Mi sembra che minore attenzione si sia prestata al retroterra politico-culturale di questa proposta e all’analisi storica che le è sottesa.
Ciò non fa meraviglia: fin dalle prime righe del libro, Dreher si definisce "un cristiano credente e un conservatore impegnato". Ecco, "conservatore”, in inglese “conservative”: la galassia del conservatorismo politico, culturale e religioso è per lo più sconosciuta all’opinione pubblica italiana e ai suoi media. Una delle grandi vittorie delle culture avverse è stata, infatti, di natura semantica: circondare sempre e comunque quella parola di un significato negativo, occultandone la portata reale.
Non è sempre stato così: ancora tra Otto e Novecento ci si poteva definire "conservatori" senza temere di essere delegittimati: come quei cattolici più o meno “liberali” che cercavano un inserimento nella politica italiana attraverso una qualche conciliazione fra Stato e Chiesa. Tale processo di delegittimazione, se non cominciato, si è certamente accentuato durante il fascismo (che non a caso si autorappresentava come "rivoluzionario") ed è giunto a compimento nel secondo dopoguerra, quando la cultura "conservatrice" è stata per lo più assimilata al fascismo sconfitto. E questo è stato un altro grande successo dei suoi avversari: come se De Gaulle e Churchill, Benedetto Croce e Thomas Mann, il governo polacco in esilio a Londra e i congiurati del 20 luglio 1944 non fossero dei "conservatori".
Lo stesso è avvenuto in campo ecclesiastico. Forse il maggior risultato di alcuni giornalisti che seguivano da vicino le sedute del concilio Vaticano II (fra gli italiani, Giancarlo Zizola e Raniero La Valle) fu di trasmettere ai media un’immagine dello scontro conciliare come una lotta fra “conservatori” e “progressisti”, coinvolgendo i primi in un’aura di negatività. Anche perché coloro che al di fuori della Chiesa si sentivano dalla parte del “progresso” cooptarono fin da subito i secondi nel proprio fronte: si pensi all’intervento a gamba tesa nel dibattito conciliare che fece il leader comunista Palmiro Togliatti nel suo celebre discorso di Bergamo del 20 marzo 1963.
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2. Un “conservative” crede che l’uomo sia un essere sociale, inserito in una comunità che gli dà uno “status” e quasi un’identità; che egli abbia dei doveri nei confronti di tale comunità, almeno di pari rilevanza dei suoi diritti; che la vera moralità consista non tanto nella propria autorealizzazione, ma nel superare il proprio particolarismo in vista di un “bene comune”, che tuttavia non resta astratto, ma si identifica in qualcosa di concreto: la famiglia, la terra, la nazione. Queste entità non restano fisse e irrigidite; come ogni cosa, si sviluppano e cambiano, ma lentamente e armonicamente: non ammettono stravolgimenti progettati a tavolino, in base ad astratte esigenze di ingegneria sociale.
All’interno di questa prospettiva, il conservatore conosce bene l’importanza dell’autorità e dell’ordine, in quanto ha una visione organica della società, in cui ciascuno ha una funzione da svolgere per il buon funzionamento del tutto. Crede quindi al ruolo della gerarchia, alla necessità, cioè, di gradi diversi di prestigio e di influenza. Non riduce i rapporti a valori meramente economici e utilitaristici, perché nutre diffidenza verso la pura legge del mercato (anche se esistono conservatori “mercatisti”). Per lui la società è costituita di costumi e di tradizioni, che vanno ben al di là di ciò che è immediatamente razionale e utile. Vi svolge infatti un ruolo essenziale l’elemento religioso, il cui sbriciolamento ha conseguenze disastrose sull’intero assetto sociale. L’uomo contemporaneo – almeno in Occidente – è, quindi, un alienato, in quanto è tagliato fuori da un rapporto positivo con gli altri uomini e dalle finalità morali che la comunità propone.
Come rileva Dreher, il “déraciné”, lo sradicato, abbandona le norme morali oggettive; rifiuta di accettare qualsiasi “quadro narrativo” vincolante dal punto di vista religioso o culturale che non derivi dalla sua volontà; ripudia la memoria del passato in quanto irrilevante; prende le distanze dalla comunità come pure da qualsiasi altro obbligo sociale non scelto (pp. 34-35). In questo contesto, anche la religione cristiana, anche quella cattolica, subiscono un’analoga metamorfosi: diventano un deismo moralistico terapeutico, in cui Dio è una specie di “amico immaginario” o psicologo benevolo, che ci assicura assistenza quando ne abbiamo bisogno, vuole la nostra felicità, non ci schiaccia sotto pesi eccessivi, perché lo scopo fondamentale della vita è quello di essere felici e avere una buona autostima: da qui la certezza di un paradiso che ci attende, dopo la morte. L’inferno sarà senz’altro vuoto (pp. 25-28).
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3. Rod Dreher è quindi un critico della modernità: non la respinge “in toto”, ma ne traccia un inventario critico. Anche questo aspetto contrasta con la cultura prevalente nel nostro paese, in cui il rapporto positivo con la famosa “modernità” è diventato quasi un obbligo per conferire dignità a culture e a orientamenti politici. La modernità non identifica una fase storica, ma è diventata un valore etico-politico. Le parole chiave di “The Benedict Option” hanno invece proprio un consapevole valore critico: regola, ordine, preghiera, lavoro, ascesi, stabilità, comunità, ospitalità, equilibrio. Anche un non credente, che decidesse di vivere come se Dio esistesse, non avrebbe difficoltà a farle proprie: quante figure grandi e piccole, del passato e del presente, senza dirsi “tout court” cristiane, hanno vissuto mettendole in pratica!
Un’analoga impostazione critica presenta il sistema pedagogico proposto da Dreher. Lo scrittore americano mostra una spiccata diffidenza verso gli assi educativi prevalenti oggi nella scuola pubblica, ma non si fa soverchie illusioni neanche sulla tenuta delle scuole “cattoliche”, dalle primarie alle università. Di fronte al dilagare della cultura tecnologica e al consumo culturale della “generazione Erasmus”, rilancia la pedagogia classica elaborata da Dorothy Sayers nel 1947 in “The lost tools of learning”: in pratica una scuola cristiano-classica, che si basi su un ritorno alle radici della cultura occidentale, quelle ellenico-romane e quelle cristiane, che si incontrarono già nella tarda antichità e poi nell’Umanesimo italiano. Già, "occidentale", perché i nostri giovani – insiste Dreher – vanno immersi nella storia della cultura occidentale, non vaccinati contro di essa: nella convinzione che abbia elaborato i concetti fondamentali della vita, la cui ignoranza avrà un costo enorme nell’evoluzione delle nostre società.
Una pedagogia “passatista”? Dreher non crede – come vedremo – alla “inevitabilità storica” e quindi è convinto che sia possibile rivolgersi al passato per progettare il futuro: “multa renascentur quae iam cecidere”, il motto di Orazio potrebbe essere il suo. Ma in vista di ciò occorre mantenere una carica critica verso il presente. Bisogna elaborare – dice – una "controcultura", altrimenti il cristianesimo e la civiltà occidentale non si salveranno. Rivolgendosi agli apocalittici di un tempo, oggi diventati supinamente integrati, così numerosi nelle redazioni dei giornali e nei think-tank, Dreher potrebbe ripetere – adattandolo – un vecchio slogan dell’Internazionale comunista: "La teoria critica della società, che voi avete gettata nel fango, noi la riprendiamo e la facciamo nostra!".
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4. Ma come siamo arrivati a questa fase critica? Qui Dreher ripropone una visione storica non particolarmente originale, eccetto – come vedremo – nel suo esito. Adotta sostanzialmente lo schema che i fautori della modernità hanno elaborato per secoli e che i loro avversari – tra cui il tradizionale pensiero cattolico – hanno sostanzialmente fatto proprio, mutandolo ovviamente di segno: quello che per gli uni era un cammino di progressiva emancipazione e illuminazione, per gli altri era un avanzare verso l’abisso. Ma le tappe erano più o meno le stesse: la crisi del pensiero teologico medievale, l’Umanesimo quattrocentesco, la Riforma del ‘500, la rivoluzione scientifica e tecnologica del ‘600, l’Illuminismo settecentesco, l’industrialismo e la conseguente modernizzazione nel secolo XIX.
In quest’ultima fase i fautori della modernità cominciavano a discordare nelle loro previsioni: per alcuni lo sbocco di questo secolare processo di emancipazione dal pensiero mitico e dalla religione trascendente era il liberalismo. Ma per altri era necessaria ancora una tappa: perché il cammino sarebbe continuato verso una società comunista. In Italia, fra le due guerre, non mancarono voci che identificarono nel fascismo il culmine del “pensiero moderno”. E ancora una volta il tradizionale pensiero cattolico, che emergeva anche nel magistero pontificio, non esitava a combattere volta a volta liberalismo, comunismo e fascismo appunto come tappe estreme della modernità.
Ma tutti questi sono discorsi da XX secolo! Dreher individua oggi due sbocchi diversi: la rivoluzione sessuale e quella tecnologica. La prima è il processo che si è aperto verso il 1960 e che ha portato all’abbandono della concezione “sociale” della sessualità che era stata fino ad allora propria del pensiero cristiano, ma – direi – del comune sentire, verso un completo individualismo sessuale. La seconda, sviluppatasi dopo il 1980, è quella delle biotecnologie, di internet, degli smartphone: insomma del consumismo informatico e tecnologico.
Il giudizio dello scrittore americano sulla “rivoluzione sessuale” è radicale: essa è stata catastrofica per il cristianesimo – oltre che, potremmo aggiungere, per la morale tradizionale – perché ha colpito il cuore della dottrina biblica della sessualità e della persona umana, demolendo la concezione cristiana della società, della famiglia e della natura degli esseri umani. Ha insomma mutato radicalmente i presupposti della vita sociale come si erano stabiliti nei millenni.
Ma molto drastico è anche il suo giudizio sulla rivoluzione tecnologica. Egli non ripete le analisi di molti, secondo cui la tecnologia è moralmente neutra e può essere usata male ma anche positivamente. Per Dreher, "la tecnologia come visione del mondo ci insegna a privilegiare ciò che è nuovo e innovativo rispetto a ciò che è vecchio e familiare e a valorizzare il futuro in maniera acritica. Essa distrugge la tradizione poiché rifiuta ogni limite alla propria creatività. L’Uomo Tecnologico dice: ‘Se siamo in grado di farlo, dobbiamo essere liberi di farlo’. Per la mentalità tecnologica è difficile capire i motivi per cui dovremmo o non dovremmo accettare particolari sviluppi tecnologici" (p. 315).
Dreher non propone al lettore un impossibile ritorno al passato, ma una sorta di “ascesi tecnologica”. Sia sul piano pedagogico (come presentiamo la tecnologia ai nostri figli, di quali strumenti informatici li dotiamo, quali alternative presentiamo loro), sia nella nostra vita quotidiana: tutti noi, anche i “laici”, possiamo arrivare a uno stile di vita che esorcizzi gli aspetti più pervasivi della “rivoluzione tecnologica”. A questo scopo, certo, sono necessari degli “esercizi spirituali” (nell’accezione di Pierre Hadot): per esempio proporsi, in uno o più giorni, un “digiuno” digitale potrebbe essere una pratica ascetica utile per ritrovare se stessi.
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5. Nel suo libro, Dreher non cita mai l’opera di Michel Houellebecq, il grande e controverso scrittore francese, ma più volte ha affermato di considerarlo un interlocutore del suo lavoro. Credo che abbia ragione: nei suoi migliori romanzi c’è più storia e filosofia che in molti volumi professorali (si può leggere in proposito il libro di Louis Betty, “Without God. Michel Houellebecq and Materialist Horror”, uscito nel 2016).
Il suo romanzo del 1998 “Les particules élémentaires” ruota intorno al concetto di "mutazione metafisica”. Scrive Houellebecq: "Nella storia dell’umanità, le mutazioni metafisiche – ossia le trasformazioni radicali e globali della visione del mondo adottata dalla maggioranza – sono assai rare. […] Appena prodottasi, la mutazione metafisica si sviluppa fino alle proprie estreme conseguenze, senza mai incontrare resistenza. Imperturbabile, essa travolge sistemi economici e politici, giudizi estetici, gerarchie sociali. Non esistono forze in grado di interromperne il corso, né umane né d’altro genere, a parte l’avvento di una nuova mutazione metafisica".
Un primo esempio che lo scrittore francese porta è quello dell’avvento del cristianesimo: in quei secoli “l’impero romano era al culmine della sua potenza; perfettamente organizzato, esso dominava l’universo conosciuto; la sua superiorità tecnica e militare era senza eguali. Eppure non aveva speranze".
Analogamente alla fine di quello che chiamiamo il Medio Evo: "All’avvento della scienza moderna, il cristianesimo medievale costituiva un sistema completo di comprensione dell’uomo e dell’universo; serviva da base al governo dei popoli, produceva conoscenza e opere, decideva tanto la pace quanto la guerra, organizzava la produzione e la ripartizione delle ricchezze. Tutto ciò non riuscì a impedirne il tracollo".
Da allora si è venuta progressivamente affermando quella che lo scrittore chiama l’"era materialista”. Il suo momento conclusivo è, appunto, nella "rivoluzione sessuale", il cui sviluppo in Francia e nel mondo è seguito da Houellebecq, quasi anno per anno, con una serie di notazioni estremamente suggestive: nel romanzo essa è impersonata nella figura di Janine Ceccaldi, la madre dei due protagonisti. Janine, nata nel 1928, appartiene alla "sconsolante categoria dei precursori": quelli che "hanno un mero ruolo di acceleratore storico – generalmente un acceleratore di una decomposizione storica – senza mai poter imprimere una nuova direzione agli avvenimenti".
Della "rivoluzione sessuale", Houellebecq aveva già trattato su un piano “teorico” nel suo romanzo d’esordio del 1994 “Extension du domaine de la lutte”, in inglese “Whatever”. Non è qui il luogo per approfondirne l’analisi, basti dire che per lo scrittore francese essa è l’estensione alla sfera sessuale della concorrenza sfrenata e dell’individualismo economico tipico della società di puro mercato. Esiste cioè un parallelismo fra il liberalismo economico incontrollato e l’assoluto liberalismo sessuale: entrambi producono fenomeni di depauperamento assoluto, forme diffuse di esclusione.
I fautori dell’ipermodernità sono convinti di avere il mondo nelle loro mani. Chissà, invece, che siano come i pagani del tardo impero o i filosofi scolastici della prima età moderna: che fra le ipotesi possibili ci sia un cambio di paradigma, una nuova "mutazione metafisica".
I lettori di “Les particules élémentaires” sanno come essa avviene, in che direzione si svolge e chi ne è – per così dire – il promotore: non è certo quella auspicata da Dreher. Ma al di là dell’ordito narrativo (bisogna sempre ricordare che stiamo parlando di un romanziere e poeta, non di uno storico o un filosofo professionale), è importante registrare il suo rifiuto di un cammino continuo e inesorabile della storia, di una concezione unidirezionale del divenire storico, che invece è tipica del “progressismo”, anche di quello cattolico. Sono possibili rotture e ciò che oggi sembra trionfare, come si è affermato, può tramontare.
Non so fino a che punto Dreher si sia alimentato di questa visione, ma, alla base di “The Benedict Option” si avverte qualcosa di analogo. Non è scontato che l’età iniziatasi con la "mutazione metafisica" dei primi secoli dell’età moderna e che ha portato all’attuale scristianizzazione occidentale sia “per sempre”. Il dispiegamento completo delle sue conseguenze può portare a una nuova rottura: bisogna tenersi pronti per questo momento. Da qui l’importanza di serbare intatta l’eredità cristiana per poterla poi riproporre in un mondo mutato: a differenza di Houellebecq, lo scrittore americano lo ritiene possibile. Serbarla lavorando insieme all’umanità del nostro tempo – dice Dreher –, non in ozio. In fondo alla sua visione non sembra esserci quindi un pessimismo sconsolato o – come si è detto – una percezione di stato d’assedio: ma la ragionevole speranza di un risorgimento.
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6. Come si vede, il piatto che offre lo scrittore americano è da stomaci forti. È vero che proprio determinate esperienze italiane hanno ispirato alcune delle sue proposte, ma l’osservatore non può evitare una domanda conclusiva: esse possono trovare interlocutori veri nella realtà italiana? Non dico nella Chiesa gerarchica, ma – che so? – in determinati ambienti culturali e in certi gruppi ecclesiali? Vorranno e sapranno costoro scendere, magari criticamente, sul terreno di quella “controcultura” cristiana proposta dallo scrittore americano?
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POST SCRIPTUM - Poche ore dopo la pubblicazione di questo post, Rod Dreher l'ha rilanciato e commentato sul suo blog:
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