Pubblichiamo l'intervento integrale dell'Avvocato Giovanni Formicola al Convegno di Parma "Sessantotto e Humanae Vitae. Due antropologie contrapposte" del 7 aprile scorso con Formicola e Mons. Luigi Negri di cui Mil ha fatto stato (QUI).
Oggi la PRIMA PARTE, domani la SECONDA PARTE.
Oggi la PRIMA PARTE, domani la SECONDA PARTE.
L
Il Sessantotto, contro il
Sessantotto. Cinquant’anni dopo
1. I Sessantotto sono due[1],
entrambi esito del plurisecolare processo rivoluzionario gnostico e
anti-cristiano in corso, che si articola in profondità nelle
tendenze-inclinazioni-costumi, nelle idee e nei fatti[2]. Ennesima
sfida della storia.
1.1. Uno – mutuando la definizione dal
titolo del pregevole studio del compianto Enzo Peserico[3] – è
quello del piombo. È la versione
politica del Sessantotto, ultimo colpo di coda rivoluzionario del comunismo in
Occidente. Essa è declinata in termini di agitazione e violenza gruppuscolare,
di organizzazione terroristica che si dà una struttura militare, di cui sono
forma paradigmatica le Brigate rosse,
spacciati come risposta alla violenza del sistema.
I suoi sono gli Anni di Piombo. È una stagione di violenza programmata,
che insanguina le strade, e lascia dietro di sé un lungo corteo di giovani e
giovanissimi figli strappati ai genitori, di orfani, di vedove, di uomini e
donne menomati per sempre nel corpo e nell’anima. E questo con il cinico
pretesto che ad essere colpita è la divisa, la toga, la funzione sociale
repressiva o contro-rivoluzionaria,
non la persona, che naturalmente trae conforto, e con essa i familiari e gli
amici, per il fatto di non essere stata colpita in quanto tale.
Quasi tutti i protagonisti – rectius, gli assassini –, sopravvissuti
a quella stagione, sono ormai in libertà (e addirittura pontificano). Eppure
anch’essi hanno ucciso magistrati, esponenti delle istituzioni e delle forze dell’ordine,
come hanno fatto i mafiosi. Ma per questi ultimi, se non pentiti, non v’è alcuna prospettiva di uscire dal carcere da vivi.
Qui si riflette il pregiudizio – minoritario, ma potente – favorevole ai
terroristi e ai militanti dei gruppuscoli violenti rossi, che può essere
sintetizzato nella stanca litania, però
lottavano per un ideale, di giustizia, libertà, eguaglianza e fratellanza.
Non mi spendo per confutare tale pregiudizio in sé stesso («il comunismo è intrinsecamente perverso»[4], giammai un bel sogno: attenti ai
sognatori, generano mostri), se non ricordando con Solzenicyn che se il mezzo è
ignobile, anche il fine è ignobile[5]. E
comunque, il comunismo avrebbe voluto – vuole – prendersi tutta la vita e anche
l’anima di ognuno, la mafia solo (si
fa per dire) un po’ (si fa per dire)
di danaro e potere.
L’esplosione della violenza
rivoluzionaria e terroristica del Sessantotto di piombo può sembrare causata da un moto di ribellione contro il
moderatismo delle forze storiche della sinistra socialcomunista, in particolare
del Pci. E da un rifiuto – sessantottino,
appunto – delle strutture di partito rigidamente autoritarie, gerarchiche e
burocratiche, in nome di un certo spontaneismo armato verso la guerra civile
rivoluzionaria. Ma non bisogna farsi ingannare. Se queste sono state le
motivazioni della gran parte dei militanti, il fenomeno non però è né
indipendente né estraneo al movimento comunista internazionale del suo tempo,
di cui costituisce articolazione secondo la dialettica paura/simpatia: i terroristi
e gli ultras fanno paura, e quindi il
Pci istituzionale fa simpatia e
rassicura. Basti pensare ai finanziamenti, all’organizzazione e
all’addestramento, specialmente nei campi palestinesi (non capisco come si
possa essere dalla parte di costoro), assicurati dai servizi segreti dell’impero
sovietico, e all’album di famiglia
del Pci.
In effetti,
«In Occidente il Pci e il Pcf
dovevano rassegnarsi al dominio imperialista e rinunciare a lottare subito per
il potere. Essi avevano però il dovere di prepararsi a farlo, anche costituendo
unità di combattimento e depositi di armi, in vista dell’inevitabile conflitto
tra Mosca e Washington, che non bisognava però provocare finché la seconda
avesse goduto del monopolio atomico»[6]. E perciò,
il Partito conserva quell’apparato clandestino illegale ed armato[7] la
cui esistenza ed organizzazione era condizione di adesione alla Terza
Internazionale[8]. In occasione della
riunione costitutiva del Cominform a Szklarska Poreba, in Polonia, il 22-27
settembre 1947, «Longo [Luigi
(1900-1980)] con dignità e una certa fierezza,
“Vi assicuro” dice fra l’altro “che il nostro partito dispone di un apparato
clandestino di speciali squadre che sono dotate, per il momento in cui sarà
necessario, di ottimi comandanti e di adeguato armamento”»[9]. E
tutto questo è reso possibile anche da una certa benevolenza complice della
polizia, che, come Togliatti riferisce nel 1946 all’amba-sciatore sovietico a
Roma, «lascia in pace le forze di
sinistra e nello stesso tempo dimostra il suo attivismo nel perseguire e
liquidare l’attività dei fascisti e dei monarchici. Se la polizia di Roma
avesse voluto in questi giorni dare un’occhiata a cosa succede in certe sezioni
dei partiti di sinistra avrebbe scoperto alcuni seri mezzi di difesa»[10]. Non
è da escludere che «l’apparato», come i comunisti denominavano la loro
organizzazione armata clandestina[11],
«inabissatosi», sia poi riemerso all’epoca del terrorismo prima gruppuscolare e
poi professionalmente e militarmente organizzato[12].
1.2. L’altro Sessantotto, recita il
titolo cui mi rifaccio, è quello del desiderio – specie quello attinente alla
sfera dell’eros, tanto che viene
detto anche Rivoluzione sessuale, ma meglio sarebbe dire erotica. Del desiderio che pretende copertura giuridica, che vuol
diventare diritto[13].
Non foss’altro che per ragioni di
attualità, mi diffondo soprattutto su questo.
2.
«A
quarant’anni di distanza, ciò che resta di quel complesso movimento politico,
culturale e sociale che chiamiamo, per brevità, il Sessantotto è soprattutto
una sorta di “pensiero socializzato” largamente operante nella mentalità
corrente e nei comportamenti diffusi in ampi settori della nostra società». Questa considerazione, con la quale il prof. Roberto
Pertici – docente di storia contemporanea nell’ateneo bergamasco – apre il suo
saggio, prezioso e originale per l’approccio al tema, intitolato L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella
cultura anti-progressista degli anni Sessanta[14], coglie
la realtà del fenomeno che non ha perso di attualità, anche cinquant’anni dopo, e continua la sua corsa, rimane «corrente» e
«operante».
La felice sintesi in una breve frase – nella
quale, chi può, avverte l’eco dell’a-nalisi strutturale dei fenomeni
rivoluzionari dello storico e sociologo francese Augustin Cochin (1876-1916) – dell’essenza
e della vigenza del Sessantotto come
«categoria culturale permanente», infatti, permette di risparmiare molte parole
e di tenére rem.
E subito dopo, un’altra considerazione
illuminante spiana la via verso una com-prensione sempre migliore del nostro
tema. Comprensione senza la quale, è ovvio, non sono possibili né un giudizio
(diagnosi, per quel che mi riguarda, apparendomi chiaro il suo carattere di
morbo) corretto, né un’azione (terapia) adeguata. Perché è solo vero che la
cultura del Sessantotto è segnata dal «prepotente
riemergere della “passione rivoluzionaria”, dell’idea, cioè, che l’unico tipo
veramente risolutivo di mutamento politico-sociale sia quello che rompe
radicalmente con la tradizione: la Rivoluzione (con l’iniziale maiuscola) diventa
così la soluzione del problema della storia. Questa “cultura della Rivoluzione”
[che invero a me sembra è presente da ben più di due secoli, e rimonta almeno
al tempo dell’umanesimo secolarizzato e anti-cri-stiano[15]] […]
matura nel tardo Settecento, nella
negazione di uno dei temi centrali della tradizione cristiana (lo status
naturae lapsae, il peccato originale) e
nella sua riduzione a problema politico e sociologico» (pp. 184-185). Tale
evidenza spiega il fenomeno rivoluzionario – e quindi il Sessantotto come parte
di esso – nella sua radice, e soprattutto nella sua incapacità strutturale di
mantenere le promesse di cui è generoso, che fatalmente si rivelano per quel
che sono: minacciose utopie, destinate a scontrarsi sanguinosamente con la
realtà dell’umana natura, che resiste ai tentativi di trasformarla, di ri-crearla e divinizzarla secondo un progetto ideologico[16].
È perciò naturale – com’è naturale
orientarsi per chi possiede le coordinate – insieme con il professor Pertici
riconoscere «[…] la vera svolta culturale
degli anni Sessanta […]: l’affermarsi
vittorioso e per molti aspetti inarrestabile (almeno fino a oggi) della
“mentalità progressista”, come presupposto tacito della pratica culturale in
Italia come in Europa occidentale. Intendo riferirmi a quella forma mentis che avverte il passato e la tradizione
essenzialmente come un condizionamento oppressivo da cui liberarsi […]. In quegli anni si parlò continuamente di
filosofia militante, politica della cultura, rinnovamento radicale attraverso la
scienza, liberazione dai pregiudizi, demitizzazione, secolarizzazione: tutte
articolazioni di un medesimo atteggiamento mentale. Comune a esse era un
sottinteso fondamentalmente relativistico: i criteri del vero e del falso, del
bene e del male venivano, di fatto, sostituiti dai loro equivalenti moderni,
quelli di “progressivo” e di “reazionario”, di “innovativo” e di “tradizionale”»
(p. 188).
In quest’opera di contestazione (uno dei
nomi del Sessantotto) e demolizione della cultura e del senso comune tradizionali
e cristiani – pertanto italiani –, l’autore individua uno strumento privilegiato,
in qualche modo forgiato dall’opinione, elaborata e diffusa in alcuni ambienti
intellettuali, che fosse «fallita» l’intera tradizione occidentale per il fatto
che era sboccata nel fascismo e nel nazismo. Da qui l’esigenza di farne piazza
pulita e di ricostruire tutto ab imis. Opinione peraltro condivisa
anche da gruppi e ambienti cattolici che furono poi detti, e talvolta si
dissero da sé, «progressisti». Vengono così contestati
«sessantottescamente», quando non la stessa Chiesa e il ruolo del suo Magistero,
certamente del cattolicesimo la storia e la cultura filosofica (troppo
«ellenistica», questa), nonché la dottrina politico-sociale (troppo conservatrice,
quando non reazionaria) e finanche la lex
orandi, la liturgia, progressivamente secolarizzata, quando non contaminata
da modelli tribali, patetici e infantili[17],
specialmente per quel che riguarda il canto in chiesa, oggettivamente brutto e
dissonante (per non parlare dell’architettura e l’iconografia, e non ne
parliamo). L’assembleari-smo, con il collegialismo
ideologico, è proposto e talvolta imposto
contro la struttura gerarchica della Chiesa. La Messa ormai è detta da tanti
«assemblea», sia pure con un «presidente», ed eccessivo appare il
coinvolgimento dei laici in sacris.
Tale posizione «cattolica» non è estranea neppure al suddetto Sessantotto politico. Anzi è autorevolmente ritenuta
una delle cause dei moti sessantottini e addirittura dei fenomeni terroristici:
la teologia della liberazione indurrà non pochi chierici alla lotta armata[18].
2.2. A questo punto mi permetto una
digressione sul Sessantotto nella
Chiesa, ovvero il Sessantotto cattolico,
cioè dei cattolici.
«La Chiesa attraversa, oggi, un momento di inquietudine.
Taluni si esercitano nell’autocri-tica, si direbbe perfino
nell’autodemolizione. È come un rivolgimento interiore acuto e complesso, che
nessuno si sarebbe atteso dopo il Concilio. Si pensava a una fioritura, a
un’espansione serena dei concetti maturati nella grande assise conciliare. C’è
anche questo aspetto nella Chiesa, c’è la fioritura. Ma poiché “bonum
ex integra causa, malum ex quocumque defectu”, si viene a notare maggiormente l’aspetto doloroso. La Chiesa viene
colpita pure da chi ne fa parte»[19].
Se leggo questi versi senza presentarli
– «Dio! Spezza i loro denti nella loro
bocca»; «Il giusto gioisce perché
vede la vendetta;/ i suoi passi, li lava nel sangue del malvagio» –, credo
che pochi riconosceranno il Salmo 58 (vv. 7 e 11), eliminato (censurato?[20]) nel
1971 dalla liturgia delle ore a causa di «certe
difficoltà psicologiche»[21],
così come è stata eliminata la supplica della Veglia di Pasqua «Ut inimicos
Sanctae Ecclesiae humiliare digneris, te rogamos audi nos!». Sembrano
anche questi fenomeni di quell’autodemolizione denunciata dal beato pontefice,
per cui nella Chiesa si tende a relativizzare, con falsa umiltà, la propria
assolutezza e unicità[22] –
ovviamente come sacramento, come Corpo mistico, come Madre e Maestra di Verità
e Arca di salvezza –, cancellando o sottacendo ogni riferimento a nemici da
combattere, e così anche ad ogni dottrina che divida, che ponga in rapporto di crisi con il mondo e con le altre religioni. Si giunge fino al punto di correggere, mediante censura, la Parola
di Dio, in una sorta di Marcionismo di ritorno che si applica anche al periodo
cosiddetto pre-conciliare. È quasi un
fraternalismo senza Padre, in quanto si risolve in una dimensione orizzontale,
irenista, pacifista, che sostituisce
il dialogo – che è certo una modalità
umana e perciò cristiana di rapporto con il prossimo – al-l’insegnamento con autorità. Come scrive nel decennale
del Sessantotto un altro compianto esponente della cultura schiettamente
cattolica, Emanuele Samek Lodovici (1948-1981), «[…] al posto della capacità
d’indignarsi, di utilizzare santamente l’ira che, come dicevano i classici,
aiuta la ragione “ad ergersi più gagliarda contro il male” [così Gregorio Magno, Moralia in Job, 5,
45; san Tommaso aggiunge anche che fortis assumit iram ad actum suum], abbiamo avuto e abbiamo tutte quella clorotiche,
timide, melense, cremose esortazioni all’abbraccio, all’amore […]. Tommaso e Aristotele […] consigliavano di guardarsi dall’illecita
pietà, dal confondere l’amore con la comprensione, perché dietro la pietà per
gli altri vi può stare nascosta la pietà per sé stessi, vi può stare nascosta
una sorta di servizio reso anticipatamente ai nostri difetti, perdonandoli in
altri». Cioè a dire, si preferisce ignorare che «il male c’è, ed è all’opera
tragicamente nel mondo»[23], pur
di non impegnarsi a combatterlo, anche, se non specialmente, interiormente
Inquadro questi fenomeni, così
rapidamente e solo emblematicamente riassunti (trascuro la TdL solo perché meno
attuale), in un Sessantotto nella
Chiesa non perché i grandi fenomeni della Rivoluzione non si fermano sul
sagrato. Anzi, per il loro carattere universale, totale, dominante e unitario[24],
essi penetrano come «fumo di Satana [anche
nel] tempio di Dio»[25], e
come vedremo, da esso in un certo senso principiano. Ma per due ragioni, che
rimandano agli elementi costitutivi del Sessantotto.
Il primo è la disobbedienza – quidditas della Rivoluzione, ch’è eco
storica del non serviam[26] luciferino,
nel prologo in cielo[27] di
questa diuturna battaglia –, che emerge
quasi in purezza nel Sessantotto, costituendone la cifra, almeno nel senso di
cui tra poco. E i fatti di cui s’è detto, tutt’ora attuali, la esprimono. Si
disobbedisce a Dio tanto quanto non corrisponde alla propria psicologia, fino a censurarne, anche tacendola
o eccependone l’incertezza (non ne
abbiamo registrazioni), la Parola. Si disobbedisce alla Tradizione e alle
tradizioni. In modo tipicamente sessantottino, si radicalizza e semplifica
l’idea – già illuminista, idealista e modernista – che il nuovo, finanche nella liturgia e nelle devozioni, è criterio
positivo, mentr’il vecchio è negativo
e va abbandonato. Si disobbedisce, più che altro riducendola ad un ruolo
formale e tutt’al più di coordinamento di mille e mille impegni, all’autorità, ma quando questa è percepita rivoluzionaria diventa più assoluta di
qualsiasi assoluto.
Il secondo è la fretta, una fretta esistenziale ed escatologica, per la quale diamo
voce a Benedetto XVI e a Joseph Ratzinger.
«[…] Nel dopo-Concilio,
la cesura del ‘68, l’inizio o l’esplosione – oserei dire – della grande crisi
culturale dell’Occidente. […] comincia,
esplode la crisi della cultura occidentale, direi una rivoluzione culturale che vuole cambiare radicalmente. Dice: non
abbiamo creato, in duemila anni di cristianesimo, il mondo migliore. Dobbiamo ricominciare
da zero in modo assolutamente nuovo; il marxismo sembra la ricetta scientifica
per creare finalmente il nuovo mondo. E in questo – diciamo – grave, grande
scontro […] una parte era del parere
che questa rivoluzione culturale era quanto aveva voluto il Concilio,
identificava questa nuova rivoluzione culturale marxista con la volontà del
Concilio; diceva: questo è il Concilio. Nella lettera i testi sono ancora un
po’ antiquati, ma dietro le parole scritte sta questo spirito, questo è la
volontà del Concilio, così dobbiamo fare»[28].
«[…] ’68: la
politica si erge a religione, e la religione si converte in passione politica.
La fede nella trascendenza e nel destino eterno dell’uomo vien meno […]. Rimane però l’aspettativa d’una salvezza incondizionata
[…] che […] dev’essere ora conquistata in questo mondo mediante le sole proprie
forze. Così però si carica la politica di un’attesa alla quale essa non può
corrispondere. La religione fattasi politica esige troppo dalla politica stessa
e diviene così fonte di disintegrazione dell’uo-mo e della società»[29].
La Gerusalemme non cala dal Cielo, ma
sale, deve salire per opera dell’uomo dalla terra e sulla terra deve avvenire.
Non si può attendere l’al di là. I poveri
stanno ancora aspettando.
2.3. Torniamo al Sessantotto universale. Questo rifiuto dell’attesa,
questo culto dell’hic et nunc è
gnostico. Come magistralmente è stato illustrato da Eric Voegelin[30] – a
mio avviso il più grande scienziato della politica del XX secolo – l’incertezza
dell’esito finale (eschaton, di cui
la Rivoluzione gnostica è la pretesa immanentizzazione), unita con tutte le
cause di sofferenza nella vita (Esiodo enumera la povertà, la malattia e la
morte, la necessità di lavorare, le relazioni tra i sessi), induce ad un paradigma
– che si ripresenta nelle forme più diverse attraversando la storia –, radicalmente
rivoluzionario. Radicalmente, in quanto non contro questo o quell’ordine storicamente
costituito, ma contro l’ordine stesso dell’essere, che assume mal fatto e che quindi
contesta in sé, prim’ancora che nelle determinazioni fattuali. Esso, oltre al
giudizio critico sull’essere – per cui la colpa non è mia se le cose non vanno
bene, ma di com’è fatto il mondo –, si nutre dell’idea ch’è possibile con una
formula (gnosi/ideologia), da applicare al reale attraverso l’azione, ricuperare
qui e ora il paradiso perduto (e negato da un dio cattivo, che ci tiene prigionieri), cioè liberare l’uomo, diventato
nuovo, definitivamente dal male
(inteso male) e dalla sofferenza. Al
di là della specifica consapevolezza dei suoi attori, anche di vertice, è
questo lo spirito che ha innescato e anima il processo rivoluzionario, che da
oltre cinque secoli ha colpito la civilizzazione cristiana per colpire la
Chiesa – togliendole l’habitat accogliente
–, cioè la continuazione nella storia della presenza del Signore Gesù. La gnosi[31] nega
il peccato originale nel senso del dogma cattolico – cioè come colpa del primo
uomo e unica causa strutturale e meta temporale del male e delle ingiustizie
nel mondo creato –, e mette sotto accusa il Creatore in vari modi, che qui è
inutile specificare. Il peccato originale,
ridotto «a problema politico e
sociologico», può essere eliminato dall’a-zione umana organizzata
ideologicamente (gnosticamente), come
la zizzania che infesta il campo, nonostante che la Parola di Cristo smonti
preventivamente e sconsigli vivamente questa utopia rivoluzionaria[32].
E così, quella che chiamo Rivoluzione –
ma il suo nome potrebb’essere anche modernità,
in senso non cronologico – individua un peccato
originale immanente al mondo da sradicare. Crede così di sanare per sempre
la religione – lo spogliamento non può cominciare dalle mutande – e la Chiesa
dai suoi difetti umani, eliminando il sacerdozio ministeriale e quindi la
gerarchia docente. E se pure questa fosse zizzania, sradica con essa il buon
grano dell’Eucaristi. Spezza perciò il legame con la Verità assicurato dal
magistero, illudendosi di liberare il
credente. La prima Rivoluzione, Cristo
sì, Chiesa no[33], il
protestantesimo. Crede poi di sanare i mali politici eliminando ogni autorità
intermedia tra il potere pubblico e il singolo. Sopprime allora i corpi storici,
la cui aggregazione forma la società organica, che atomizza, e la stessa autorità
regale. Spezza anche i legami tra potere e morale, relegando Dio in Cielo, il
che nega a Chiesa ogni facoltà d’intervento nella vita temporale. Lascia così i
singoli e i corpi naturali soli e inermi di fronte al potere anonimo e
incontrollato dello stato moderno, che basta a sé stesso e occupa tutta la
scena quando diventa popolare. E
nella migliore delle ipotesi è il potere totale della maggioranza, che troppo
spesso però continua a scegliere Barabba. La seconda Rivoluzione, Dio sì, Chiesa no, illuminismo e
Rivoluzione in Francia. Crede, successivamente ancora, di sanare i mali economici
negando Dio, sopprimendo la proprietà privata dei mezzi di produzione e il
patrimonio familiare, cioè la famiglia, con il divieto o quanto meno le imposte
progressive di successione, spezzando il legame ordinato con il creato, e con
l’odio e la lotta di classe il buon legame tra padrone e dipendente. La terza
Rivoluzione, Dio è morto, marxismo e
comunismo leninista. Infine, riprende, socializzandola, la sua dimensione
culturale che ne fu prologo con l’umanesimo[34]
ateo. La quarta, secondo la ricostruzione proposta da Plinio Corrêa de Oliveira[35], è
logica conseguenza delle prime tre. Esse contenevano in nuce il suo paradigma
permissivo e libertario: negazione del magistero autorevole, della gerarchia religiosa
e divorzio nel protestantesimo; sadismo erotomaniaco e libertinismo
nell’illuminismo e nella Rivoluzione detta francese; soppressione della
famiglia e libero amore nel primo progetto bolscevico. Proclama la terminale abolizione
emancipazione da autorità e legge morale, e cerca il paradiso perduto nella
società permissiva[36]. Lo
scatenamento degl’istinti, delle emozioni e delle passioni, inevitabilmente
correlati a insofferenza per le regole e per l’autorità, non è più o non è più
solo fatto individuale e caratteriale, ma teorizzato e socializzato, attitudine
e paradigma diffuso in qualunque status
sociale e generazionale e garantito pubblicamente. Si tratta ormai di eliminare
insieme con la proprietà (socialcomunismo) la morale tradizionale, e spezzare
ogni altro legame residuale fuori e dentro (emblematica è la recisione del
cordone ombelicale ad mortem) di sé. La
IV Rivoluzione è perciò micro-strutturale[37], è
come la polvere che s’è sollevata e che tutto ha coperto e intossicato dopo la
caduta delle torri gemelle, cioè dopo la caduta diffusa ed emblematica delle
istituzioni e degl’istituti macro-sociali che proteggevano la persona anzitutto
da sé stessa e dagli effetti del peccato originale. È Rivoluzione
iper-edonista. Difficile perciò da afferrare, anche concettualmente.
La Rivoluzione nelle sue tre fasi che
precedono quella culturale, può avere, per prima icona, l’etiope, ma che respinga
Filippo (At., 8, 26-40), rimanendo solo solo con il suo Libro di cui può fare
quel che vuole. Poi, seconda icona, quella del filosofo-legista intento a
scrivere una costituzione perfetta, in forza della quale non ci sarà più bisogno d’essere buoni[38],
mentre intorno a lui cadono le teste. Terza icona, quella dell’operaio
bolscevico muscoloso e dalla mascella quadrata (si noti come questi modelli
corrispondano a quelli del fascismo, unico socialismo dal volto umano della storia),
tutto proteso verso l’avvenire armato di falce e martello, strumenti idonei a costruire
il GULag. Quale sarà l’icona del Sessantotto? Qualcuno potrebbe pensare
all’operaio di cui sopra, che si è fatto crescere barba e capelli, ed è
diventato irsuto. Può essere. Bisogna però aggiungere – e questa è la cifra –
che s’è anche strappato via la veste e le vesti[39]. Ha
scelto d’inselvatichirsi. L’uomo, infatti, nasce nudo, ma poi viene vestito e
si veste. Gli abiti rappresentano la civilizzazione, il passaggio tramite
l’educazione del barbaro, che ciascuno di noi è alla nascita, alla civiltà, al
quale transito l’unica alternativa è appunto l’inselvatichimento. Ma è un uomo
selvatico che conserva la tecnologia e la sua potenza. L’icona antropologica
del Sessantotto è dunque il neo-selvaggio tutto istinto e passione, tutto
diritti e senza doveri, che non ragiona più logicamente – la barbarie della
riflessione[40] che non si sottomette più
al reale e al suo ordine, a gerarchie e impegni. Il rifiuto riguarda l’essere e
il suo Creatore. Il paradiso, la
liberazione dal male, è l’erba voglio
a disposizione, che grazie all’iper potere tecnologico non è stata mai così abbondante.
O se volete, considerando la cosa da un
altro versante, icona del Sessantotto – cioè d’una sua articolazione, la
dialettica di rivalsa femminista, contro la propria natura orientata alla
fecondità e contro il maschio, ch’esso innesca e alimenta – può essere anche
una donna che impugna, anzi ostenta compiaciuta, una pompa di bicicletta che
procura aborti, emblema, la donna non il gonfiatore, dell’inversione morale[41].
Il protestantesimo nega il Padre negando
il sacerdozio; la Rivoluzione in Francia negando anche il re e ogni autorità
intermedia; il Comunismo, negando anche il padre e il padrone. Il Sessantotto è
il rifiuto finale anche dell’auto-paternità, è una volontà di potenza che nega
ogni dipendenza – anche dal dato di natura: Io
sono mia, anche se non mi sono fatta da sola – e obbedienza, e come dicevo
prima in modo metafisico. Non si è cioè al cospetto di meri episodi di
ribellione e disobbedienza ai genitori, ai maestri, ai propri superiori, alle
istituzioni, alle autorità d’ogni tipo. È una libido dominandi – vissuta nella dimensione solipsistica – che si
rivolta «contro la propria natura e
contro Dio»[42]. È un’anti-antropologia,
contrapposta a quella naturale e rivelata all’uomo da Dio stesso,
dell’obbedienza alla quale l’enciclica ad esso contemporanea, Humanae vitae, è un’alta testimonianza.
Alcuni slogan tipici del Sessantotto
sintetizzano questa sua cifra. Dio è
morto; Lotta dura contro natura; Vietato obbedire; Vietato vietare; Vogliamo
tutto, e subito; Fantasia al potere
(contro, come si disse, la camicia di
forza della ragione aristotelica: ed infatti in una scalmana diffusa hanno
completato il proprio impazzimento architettura, pittura, musica, etc.).
L’utopia egualitaria e libertaria – che si è sempre risolta nel suo contrario,
supremazia assoluta e senza limiti di pochi o pochissimi su tutti e
soppressione d’ogni autentica libertà, a cominciare da quella religiosa e di dire
la verità – si svolge in modo peculiare. La ragione viene liberata dalla logica e da qualsiasi residuo di metafisica – il che
causa il caos semantico, la babele
dei significati, e il pensiero minimo, che impedisce ogni autentico dialogo,
ch’è tale solo se si eleva alla trascendenza[43];
gl’istinti dal pudore[44] e
dall’auto-controllo –, il che causa il disordine morale diffuso, ma anche il disordine
sociale e l’incremento dei fatti di violenza. L’egualitarismo e il libertarismo
– i valori della Rivoluzione,
generati da orgoglio e sensualità dominanti e sfrenati – sopprimono la
gerarchia interiore (la Rivoluzione in
interiore homine), per cui ogni pulsione viene legittimata. E la volontà –
tale s’è al servizio della ragione, e si svolge nell’ordine dell’essere da
questa individuato – liberata diventa
libito, libido, voglia[45]. Persino
le forme di cortesia sono bandite, i titoli di riguardo calpestati, in nome
della libera spontaneità
anti-formalista, e dell’egualitarismo tuteggiante.
L’uomo spirituale[46], che
sa di dover essere salvato, soccombe all’uomo psichico, che pretende solo di
essere accontentato. Come un bimbo viziato e capriccioso.
Dicono niente erotismo, anche se non
soprattutto virtuale, ultraprecoce, la criminalità infantile, gl’insegnanti
terrorizzati dal teppismo gratuito degli allievi ma anche dalla prepotenza dei
genitori, l’incapacità diffusa di concentrarsi e di seguire un filo logico, il
rifiuto panico del silenzio e della contemplazione? Il vento seminato è
diventato tempesta. E la felicità promessa sembra per l’ennesima volta assente
dal quadro. Gl’istinti sono liberati, ognuna è sua, ma il male, anche il male di vivere non è scomparso, anzi s’è
accentuato. Basterà porre mente ai crimini sessuali che venivano attribuiti
alla repressione del desiderio e dell’eros,
e al loro contrappasso, #MeToo, che
demonizza anche l’approccio, detto una volta corteggiamento.
Il principio anti-antropologico del
Sessantotto è dunque da rinvenire
nell’«[…]
egotismo – […] soggettivismo-volontarismo del pensiero e della morale»[47].
«L’amor Dei e l’amor
sui,[…] sono tradotti [da Santayana]
in uno spirito che armonizza la
psiche – collocandola nel mondo – e nell’egotismo, il quale si illude che la
psiche sia in grado di possedere la forza e la dirittura morale per imporsi sul
mondo. L’egotismo è ribelle alla saggezza dello spirito, la cui funzione è di
adattare la natura umana ai fatti, “cosicché vivendo in armonia con loro, possa
vivere in armonia con sé stessa”. Lo spirito che è diventato “egotista” scambia
i suoi pensieri sul mondo per il mondo stesso e regredisce dalla moralità razionale al dettato pre-razionale della
passione. Il criterio generale della crisi […] è la perdita di esperienza e saggezza che fu incarnata nel
cristianesimo, e la rinascita, in suo luogo del “paganesimo”»[48].
Una
delle cause culturali profonde dell’egotismo è stata – almeno in area anglo-americana
e germanica – la pseudo riforma protestante, che ha negato l’ascesi negando la
mistica, così riducendo la virtù ad un’esistenza regolata, al decoro borghese,
al successo professionale. Il sostanziale naturalismo morale, cioè moralismo,
che ne è seguito e si è fatto largo con lo spirito piccolo borghese («un rapporto assoluto con le cose relative»
[Kierkegaard]) anche in area cattolica, ha lasciato solo e irredento l’uomo. Ma
lo ha lasciato anche carico di amore inespresso, d’insoddisfa-zione e di angoscia
per il Weltschmerz, il «dolore del
mondo». E a causa di tale «chiusura del Cielo», senz’altra guida che sé stessa
e tutta in sé stessa concentrata, parte dell’umanità moderna confida soltanto
nella sua volontà, cui attribuisce un potere quasi magico, nella prospettiva di
aiutare il mondo spiritualmente disgregato, che ha perso l’ordine perché ha
perso il significato che lo fonda. Ma questo tipo umano non può dare ordine
perché gliene mancano le coordinate e i principi, ed allora il suo «generoso»
slancio si risolve in un’attitudine ben descritta nella figura, tragica – e per
noi altamente simbolica dell’itinerario rivoluzionario – dell’Empedocle
protagonista di una tragedia di cui Nietzsche ci ha lasciato gli appunti.
«Empedocle: “Come divinità vorrebbe
aiutare; come uomo, pietosamente vorrebbe distruggere. Come demone, egli
distrugge se stesso”»[49].
Il Sessantotto è proprio questo. Dalle buone intenzioni distruttive del
(cattivo) ordine vigente per redimere da esso il mondo, che lasciano solo
morte, macerie, miseria e disperazione (basti pensare all’esito d’ogni episodio
rivoluzionario, sempre e ovunque), alla definitiva auto-distruzione dell’uomo
invece che il superuomo eman-cipato da ogni vincolo e inibizione, fino
all’onnipotenza, detta auto-determinazione, sulla propria e altrui natura[50]. E
non mi riferisco agli innumerevoli morti, dal Sessantotto al momento in cui vi
parlo, per suicidio (e non motivato dalla disoccupazione). O per quel suicidio
differito nel tempo che è l’assunzione di droghe[51],
come modo di modificare l’insopportabile – senza fede speranza e carità – reale,
non nei suoi costitutivi (impossibile), ma nella sua percezione soggettiva, da
inferno a paradiso (artificiale, cioè falso). E neppure ai morti morali per
depressione, o a quelli spirituali per accidia totale. Che pure, gli uni e gli
altri, sono – certo non in modo assoluto e totalizzante – anche effetti del
Sessantotto. Mi riferisco all’auto-distruzione che consiste nel ridurre l’uomo
ad un fascio di pulsioni e istinti da soddisfare nella ricerca d’un piacere che
non basta; che consiste nel trasformarsi e nel trasformare il soggetto umano in
un prodotto di laboratorio; che consiste nella pretesa d’essere signore
dell’altrui e propria vita non già più in un campo di concentramento, ma nella
stanzetta d’un ambulatorio. È la nuova (rectius,
inversione) morale, costruita sulla critica alla morale borghese, che spesso non era altro che la morale vera, e se
ne fosse stata degenerazione sarebbe stata piuttosto da restaurare.
In altri
termini, se
«[…] da
oggi in poi l’uomo è il solo creatore possibile delle proprie leggi e il solo
costruttore possibile della propria storia [Hannah Arendt]
Se
«[…] l’uomo è il nuovo
legislatore, e sulle tavole cancellate del passato egli scriverà le “nuove
scoperte della morale” […]
Allora
«Ciò suona come un incubo nichilistico»[52].
3. Sì il
Sessantotto è in tutti gli effetti e atteggiamenti sin qui evocati. In Italia,
la sua prima immediata ricaduta istituzionale – poi ci sarà una tragica
squenza, dall’aborto alle unioni civili omoerotiche
–, nel 1970, è il divorzio. Esso è alle origini, con la liberazione della donna – ovviamente qui intesa in senso
ideologico, e in quanto tale in realtà schiavizzazione
delle donne, ridotte sempre più spesso a genere di consumo e deprivate
della dimensione naturale sponsale e materna[53] –,
della fine del matrimonio[54].
Infatti, come può un uomo reso instabile strutturalmente, in quanto costituito
dalle sue voglie, assumere un impegno definitivo, un compito per la vita, qual
è il matrimonio? E con la crisi del matrimonio va in crisi la natalità, il che
prepara un gelido futuro, uno scenario come quello descritto ne La strada[55],
solitudine e lotta per la sopravvivenza.
Il Sessantotto è quindi nell’attuale
riduzione della vita – ovviamente e grazie a Dio non per tutti – al caos
esistenziale, siccome privata dei legami vitali che la nutrono e le danno
senso. Primo fra tutti quello educativo, leso in modo mortale dalla negazione
della verità e dell’autorità che da essa è legittimata. L’individuo, lasciato solo,
sprofonda nel nichilismo, nella misura in cui ha perso il mondo, inteso come cosmo,
realtà ordinata e finalizzata, nella quale l’esistenza – pur con tutti i suoi
dolori – può continuare senza doversi ottundere in un flusso ininterrotto e
insaziabile di emozioni e di piaceri.
«[…] il […] caos […] quella forma di esistenza per cui la società moderna non è altro che
“l’orgia illimitata dell’io senza mondo”»[56].
Lungi dall’essere il paradiso in terra,
è anticipazione dell’inferno nella storia.
4. Eppure, non perdiamo, non dobbiamo perdere, oltre
la speranza teologale, neanche quella umana.
Anzitutto, abbiamo un vantaggio, abbiamo visto come va
a finire: reificazione e dissoluzione dell’uomo.
E poi perché abbiamo alle spalle, ma anche davanti, l’esperienza
di uomini come Benedetto da Norcia (480-547) e i suoi primi seguaci. Essi conservarono
in un tempo anch’esso buio – è ozioso porsi il problema di quale sia il più
buio – lo spirito volto al futuro, ma soprattutto all’eternità, che risponde
sempre alla fida del tempo, anche a quella del Sessantotto. Iniziarono a porre
le basi – forse al di là delle loro stesse intenzioni, ch’erano semplicemente
di quaerere Deum – per la
restaurazione della civiltà. Accesero fuochi, per illuminare e riscaldare, invece
di lamentarsi.
Anche noi ci siamo qui riuniti oggi e
continuiamo a riunirci, ovunque almeno due o tre siano disponibili, allo scopo
della custodia e conservazione (ch’è il nostro modo di conoscere, amare e
servire Dio), in vista della sua trasmissione, di quello che nel suo citato capolavoro,
Cormac Mac Carthy chiama il fuoco, cioè un’antropologia vera, ch’è al
principio – non negoziabile – dell’ordine e del bene sociali. Fuoco oggi minacciato d’estinzione – ma
non del tutto estinto: noi siamo qua, pochi se si vuole, ma mi pare vivi – dai
gelidi venti del relativismo nichilista e dal superomismo voglioso e tecnologico,
manipolatore della vita, della morte, della generazione e finanche
dell’identità biologica dell’uomo e della donna. Ci formiamo e ci prepariamo
alla discussione razionale, ch’è già in sé un contro-Sessantotto, come la dice Eric Voegelin, ancora una
volta nella prospettiva di conservare e restituire razionalità, e quindi
verità, bene e bellezza, ad un mondo impazzito.
La crisi del mondo generato dalla Rivoluzione indusse
tanti ad aderire al rimedio che aggravava lo stesso male, portandolo al
parossismo. Questa fu l’occasione a suo tempo perduta dal mondo cattolico. Agli
uomini in crisi andavano proposte, invece che un annacquamento conciliante, con più forza la fede e
l’ascesi eroica, rivelando almeno agli spiriti migliori che la crisi di cui
soffrivano non dipendeva da una demolizione incompiuta, ma proprio dalla
demolizione sino allora compiuta, e che si trattava di ricostruire l’uomo e poi
il cristiano. Ma nessun’occasione storica è definitivamente persa. Ci possiamo attendere
dalla Chiesa, in quanto continuazione nel tempo della presenza e dell’opera del
Salvatore ed eco dello Spirito Suo, che ci trasmetta «autentiche certezze, poiché solo creando convinzione apre lo spazio
per ciò che le è stato consegnato […]. La
Chiesa […] deve preparare la via al
divino […] nell’obbedienza allo
Spirito […] e così aiutare la società
a trovare la sua autentica fisionomia morale»[57].
È in atto un percorso che va dal
libertinismo individuale al libertarismo come ideologia. Stigma di una società
opulenta cui il Sessantotto – con la sua furia iconoclasta e demolitrice di
principi, valori, autorità, gerarchie, istituzioni tradizionali, a cominciare
dalla famiglia, e soprattutto di ogni sacralità e spirito religioso – ha fatto
da battistrada. Ma c’è stato un «altro sessantotto italiano». Quello che ha
rifiutato «l’immanentizzazione dell’eschaton cristiano»[58]. Rifiuto
che porta a riconoscere il vero discrimine tra le culture nell’accettazione o
non della trascendenza (fare, almeno, veluti
si Deus daretur), a partire dall’intuizione del principio di realtà – contro
ogni «perfettismo» –, che garantisce dall’essere vittime dell’infatuazione
utopistico-rivo-luzionaria e delle sue tragiche, omicide e distruttive
conseguenze. Questo altro Sessantotto è
la destra – i partiti non c’entrano, va intesa come la intende la Scrittura[59], la
parte dei buoni, ma buoni davvero – reale, tanto diffusa e maggioritaria nel
nostro paese, quanto, quasi si trattasse di un lebbrosario, «non rappresentata nel sistema politico
italiano». Destra «le cui radici si
possono trovare nella diffidente accettazione della democrazia, nella frequente
polemica “antimoderna”, nel rifiuto della politicizzazione della società e […]
in un anticomunismo, si direbbe,
“esistenziale”. È un’area che elettoralmente si sposterà sui partiti che via
via le sembreranno corrispondere a questo sentire diffuso, ma sempre, in definitiva,
“turandosi il naso”»[60]. E
per «anticomunismo esistenziale» – ma potremmo dire per antisessantottismo esistenziale – lo stesso autore, con grande
puntualità ed in modo assolutamente condivisibile, intende «l’avversione spontanea, profonda, immediata di tanta piccola e piccolissima
gente, per lo stravolgimento violento della “naturalità sociale”»[61], stravolgimento
di cui il Sessantotto sembra essere l’episodio – tuttora in corso – terminale.
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[1]
Naturalmente, il Sessantotto né inizia l’1 gennaio, né termina il 31 dicembre.
Nel 1968 esplode e si diffonde un fenomeno in
fieri da decenni e preparato
ideologicamente da secoli, che oggi è diventato costume e pensiero egemoni.
[2] Cfr.
Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), Rivoluzione
e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali
della «fabbrica» del testo e documenti integrativi, trad. it, presentazione
e cura di Giovanni Cantoni, Sugarco, Milano 2009, in particolare la parte
terza, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione.
Vent’anni dopo (pp. 151 – 185), che
fu edita per la prima volta in Italia da Cristianità,
Piacenza 1977, pp. 167-195. La periodizzazione del processo rivoluzionario, che
l’autore riprende oltre che dai maestri del pensiero contro-rivoluzionario
anche dal magistero della Chiesa, è stata sostanzialmente confermata –
ovviamente con altri scopi e ad altri propositi – anche dal magistero
successivo. In particolare, ultimamente, quello di Benedetto XVI (2005-2013) nella
lettera enciclica Spe salvi del 30
novembre 2007 (nn. 16-23, come secolarizzazione della speranza), e nel discorso
detto «di Ratisbona» del 12 settembre 2006, in cui quello che secondo il
professor Plinio è il processo rivoluzionario, è considerato – senza alcun
riferimento, è ovvio, alle problematiche della scuola contro-rivoluzionaria –,
sotto il profilo teologico e culturale, quale de-ellenizzazione del rapporto
fede-ragione.
[3] Gli anni del desiderio e del piombo. Sessantotto, terrorismo e
Rivoluzione, Sugarco, Milano 2008.
[4] Cfr. Pio XI (1922-1939), Lettera Enciclica Divini Redemptoris
promissio sul comunismo ateo, del
19 marzo 1937.
[5] Cfr., Aleksandr Solzenicyn
(1918-2008), Il primo cerchio, trad.
it. Mondadori, Milano 1989, p. 718.
[6] A.
Graziosi, L’Urss dal trionfo al degrado.
Storia dell’Unione Sovietica. 1945-1991 (vol. II), il Mulino, Bologna 2011,
p. 78.
[7] «Secondo dati del ministero degli Interni
tra il 1946 e il 1953 erano stati scoperti 173 cannoni, 719 mortai, 35.000
fucili mitragliatori, 37.000 pistole e rivoltelle, 250.000 bombe a mano, 309
radiotrasmittenti» (M. Mafai, L’uomo che sognava la lotta armata. La
storia di Pietro Secchia, Rizzoli, Milano 1984, p. 128), «27.123 fucili e moschetti da guerra, 995 mitragliatrici, 5,746
quintali di esplosivo, 5.480.879 munizioni» (P. Di Loreto, Togliatti
e la «doppiezza». Il PCI tra democrazia e insurrezione (1944-1949), il
Mulino, Bologna 1991, p. 320). Cfr., G. Donno, La Gladio rossa del PCI, cit.. Per una chiave di
lettura, che prende spunto da un inopinato decreto d’archiviazione
dell’inchiesta penale sull’«apparato» del PCI, cfr. M. Ronco, Gladio
rossa, l’«inchiesta impossibile», in Il
Secolo d’Italia. Quotidiano del MSI-DN, 30-10-1994.
[9] M. Mafai, op. cit. p. 53.
[10]
Colloquio verbalizzato tra l’ambasciatore M. A. Kostylev e Togliatti, del 24
maggio 1946, cit. in E. Aga Rossi e
V. Zaslavsky, Togliatti e Stalin. Il PCI e la politica estera staliniana negli archivi
di Mosca, il Mulino, Bologna 1998, p. 242.
[11] Cfr.
P. Di Loreto, op. cit., p. 64.
[12] Cfr.
G. Cantoni, La «lezione italiana». Premesse, manovre e riflessi della politica di
«compromesso storico» sulla soglia dell’Italia rossa, Cristianità, Piacenza
1980, p. 107.
[13] «[…] il Novecento, dopo una rivoluzione sessuale
egoistica e senza saggezza, è approdato a traguardi di permissivismo, di
ostentata volgarità e di pubblica spudoratezza, che sembra non aver paragoni
adeguati nella vicenda umana» (Giacomo Biffi [1928-2015], Intervento al
convegno «La passione per l’unità: Vladimir Solov’ëv», organizzato dal Centro
culturale E. Manfredini e dalla Fondazione Russia Cristiana, Bologna 4 marzo
2000, http://www.francocenerelli.com/antologia/biffi.htm#Vladimir%20Sergeevic%20Solovev:%20un%20profeta%20inascoltato,
visitato il 7 maggio 2018).
[14] Pubblicato
dall’Istituto di Studi Politici «S. Pio V» di Roma come estratto dal volume a
cura di Benedetto Coccia 40 anni dopo: il
sessantotto in Italia fra storia, società e cultura (Editrice Apes, Roma
2008, pp. 183-251, pp. 183-184).
[15] Si
tratta, né più né meno, dell’«itinerario
culturale e socio-politico dell’umanesimo europeo, segnato dall’ateismo non
solo nel suo esito marxista» (Sinodo dei Vescovi. Assemblea Speciale per
l’Europa, Dichiarazione «Siamo testimoni di Cristo che ci ha
liberato», del 13-12-1991).
[16] La
diabolica e perciò ingannevole promessa, eritis
sicut dii (Gn, 3,5), che non potrà mai essere mantenuta siccome
irrealizzabile, è però foriera di disastri. Essa si risolve nel suo opposto, il
totale deperimento dell’uomo, fino alla sua dannazione, storica certamente, e
quanto verosimilmente all’eterna, solo Dio sa.
[17] "Quale necessità c'è di danza? Nei
misteri dei greci ci sono le danze, nei nostri invece silenzio e ordine,
rispetto e compostezza" (San Giovanni Crisostomo, Homiliae super Epistulam ad
Colossenses, XII).
[18]
«La
rivolta parigina degli studenti, che dette avvio al movimento del ’68, non fu
un fenomeno d’urto abbattutosi dal-l’esterno contro la Chiesa , bensì è stata
preparata e innescata dai fermenti postconciliari del cattolicesimo e da correnti
della teologia protestante americana rivoluzionaria, che cronologicamente
l’hanno preceduta. Il fatto che a Parigi, sulle barricate, venisse celebrata
l’eucarestia come affratellamento dei combattenti per la libertà anarchica e
come segno di speranza del messianismo politico che credeva in un nuovo mondo,
destinato ad essere partorito nel terrore, mostra il carattere essenzialmente
religioso, o meglio, pseudoreligioso del fenomeno. Quest’implicazione teologica
risalta in maniera inequivocabile anche nel terrorismo tedesco e italiano degli
anni ’70. Il processo di formazione del terrorismo italiano dei primi anni ’70
rimane incomprensibile se si prescinde dalle crisi e dai fermenti interni al
cattolicesimo postconciliare» (Joseph Ratzinger, Svolta per l’Europa? Chiesa e modernità nell’Europa dei rivolgimenti,
Paoline, Cinisello Balsamo [MI] 1992, p. 125).
[19] Beato Paolo VI
(1963-1978), Discorso ai membri del
pontificio seminario lombardo, 7-12-1968.
[20] Cfr., André Wénin, Salmi censurati. Quando
la preghiera assume toni violenti, Dehoniane, Bologna 2017.
[21] Ibid., p. 13, virgolettato nel testo, attribuito al beato Paolo VI.
[22] Cfr.,
Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione Dominus Iesus, circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù
Cristo e della Chiesa, 6 agosto 2000.
[23] I cattolici nella tempesta, in Dov’è finito il ’68? Un bilancio per gli
anni 80, Ares, Milano 1979, pp. 144-145, e p. 149. La sottolineatura è
dell’autore.
[24] Cfr. P. C. de Oliveira, op. cit., parte I, cap. III.
[25] Beato Paolo VI, Omelia per il IX anniversario
dell’Incoronazione, 29-6-1972.
[26] Cfr., Ger., 2, 20.
[27] Cfr. Ap., 12, 7-10.
[28]Incontro con il clero delle diocesi di
Belluno-Feltre e Treviso, 24-7-07.
[29]J. Ratzinger, Svolta per l’Europa?, cit. p. 128.
[30] Cfr.,
E. Voegelin (1901-1985) Il mito del mondo
nuovo. Saggi sui movimenti rivoluzionari del nostro tempo, trad. it.,
Rusconi, Milano 1976 (II ed.) (1959), e La
nuova scienza politica, trad. it., Borla, Torino 1968 (1952).
[31]
L’essenza della gnosi è quella di «essere
una rivoluzione radicale. Schierandosi dalla parte del serpente, di Caino, di
Giuda, dei grandi “banditi” dell’umanità, essa esprimeva il suo intento vero e
proprio: respingere il cosmo nella sua interezza insieme col suo Dio, che
smaschera quale cupo tiranno e carceriere, vede in Dio e nelle religioni solo
il sigillo e la chiusura definitiva di quella prigione che è il cosmo. […] non è che la forma radicale della protesta
contro tutto ciò che fino allora era apparso santo buono e giusto, e che ora
veniva demistificato come prigione di cui la gnosi prometteva di mostrare la
via di scampo» (J. Ratzinger, L’unità
delle nazioni. Una visione dei Padri della Chiesa, trad. it., Morcelliana,
Brescia 1973 [1971], pp. 23-24).
[32] Cfr. Mt., 13, 24-30.
[33] Pio
XII (1939-1958), Discorso Nel contemplare
agli Uomini di Azione Cattolica, del 12 ottobre 1952, le successive due
citazioni hanno la stessa fonte.
[34] «Gli umanesimi non
sono tutti uguali, né sono equivalenti sotto il profilo morale». (Benedetto XVI, Ai Vescovi della Conferenza Episcopale
Slovena in visita ad limina Apostolorum,
24 gennaio 2008.
[35] Cfr., Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, cit.,
parte III, pp. 177-185.
[36]«[…]
la società permissiva toglierebbe di mezzo i superstiti credenti in un’autorità
trascendente dei valori. Confinandoli, al limite, in campi di concentramento
“morale”, senza persecuzione fisica, è vero, ma chi può seriamente pensare che
le pene morali siano meno atroci che le pene fisiche? Al limite del processo
c’è un genocidio spirituale; negazione del diritto dell’individuo […] alle sue tradizioni, al pudore (la
liberalizzazione totale delle passioni, come principio della società
permissiva, coincide infatti con la negazione totale del pudore). Che la guerra
di religione vi prenda la forma non più di guerra tra diverse ed opposte fedi
religiose, ma di guerra contro la religione in nome di “nessuna religione” non
cambia nulla alla sostanza, anzi aggiunge la perversione della menzogna» (A. Del Noce, La società permissiva. Appunti per una critica, in L’Europa, V, 10, 30-6-71, pp. 43-56, ora
in Idem, Fascismo e antifascismo. Errori della cultura, Leonardo, Milano
1995, pp. 136-37).
[37] Il
suo primo senso «è stato il passaggio
dell’attacco anticristiano dalla macrostruttura alla microstruttura, dalla rivoluzione
contro il Dio-padrone e lo Stato-padrone alla rivolta contro il Sé-padrone; il
grido ni Dieu ni maître è un grido
che il ’68 ha rivolto in modo particolare contro la morale. […] pornografia a tutti i livelli,
giuridicizzazione dell’adulterio, dell’omosessualità, della bestialità […], legalizzazione dei contraccettivi, introduzione
del divorzio, dell’aborto, progetti di legge per l’ammissione dell’eutanasia,
etc.. […] il senso ultimo del ’68, il
suo senso unitario fu questo e questo solo: una rivoluzione culturale (intendendo per cultura non solo quella
intellettuale, ma anche e soprattutto il modo di vivere, il costume» (Luca
Monterone [pseudonimo di E. Samek Lodovici], Di rimbalzo sulla stampa, in dov’è
finito il ’68?, cit., pp. 11-12).
[38] Thomas Stearns Eliot (1888-1965): «In un’età che avanza all’indietro progressivamente», gli uomini «[…] cercano
sempre d’evadere// Dal buio esterno e interiore// Sognando sistemi talmente
perfetti che più nessuno avrebbe bisogno di essere buono» (Cori da «La Rocca », trad. it. in Idem, Poesie, a cura di Roberto Sanesi, VII,
p. 425 e VI, p. 419). Cfr. Spe salvi n.
24.
[39] Non
mi riferisco alla mera impudicizia, bensì anche, se non soprattutto, alla liberazione egualitarista dall’abito proprio,
ch’è certo convenzionale nella sua determinazione specifica, ma
antropologicamente essenziale, naturale. Non è necessario che il proprio status, la propria vocazione, il proprio
ruolo sociale, abbia quell’abito, ma
che abbia un abito adeguato ad
esprimerli e renderli conoscibili a tutti, ivi compresi i fattori
gerarchizzanti, il cui rifiuto precipita nel-l’indifferenziato e in un certo
senso nella perdita del senso del proprio dovere e della propria
responsabilità.
[40] Cfr.
Giovan Battista Vico (1668-1744), Principi
di scienza nuova, in Opere
filosofiche, Sansoni, Firenze 1971, p. 700
[41] «Si vantano di ciò
di cui dovrebbero vergognarsi» (Fil., 3,
19). Cfr. anche, sull’inversione morale, quando si passa dalla licenza al
diritto, dal diritto all’obbligo (come quello di abortire il secondo figlio, o
il figlio malato), Michael Polanyi, Personal
Knowledge: Towards a Post-critical Philosophy, Routledge, London 1958, pp.
231-235.
[42] E. Voegelin, Il mito del mondo nuovo, cit., p. 41.
[43] Cfr. E. Voegelin, Anamnesis. Teoria della storia e della
politica, Giuffrè, Milano 1972, pp. 179-193.
[44] «Zeus, impietosito, temendo l’estinzione del
genere umano, mandò Ermes a portare agli uomini il pudore (aidòs) e la
giustizia e gli disse di donarli a tutti gli uomini, perché senza pudore e
rispetto e giustizia la città non può sussistere e senza città non si può
conservare ed accrescere il genere umano nei vincoli di solidarietà ed
amicizia», cfr. Platone (428/427-348/347 a C.), Mito di Epimeteo nel
dialogo Protagora.
[45]«Si va costituendo
una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che
lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie» J.
Ratzinger, Omelia nella Messa pro
eligendo Romano pontifice, 18-04-2005).
[46] Cfr. 1 Cor., cap. 2.
[47] George Santayana,
Egotism in German Philosophy [L’io
nella filosofia germanica, trad. it. L. Zampa, Barabba, 1920], poi The nature of Egotism and of the Moral
Conflicts that Disturb the World, New York, 1940, p. IX, cit. in E.
Voegelin, Anni di Guerra, Rubbettino,
Soveria Mannelli [CZ] 2001, p. 66.
[48] ibid., p. 67.
[49] F. Nietzsche, Entwürfe zu einen Drama: «Empedokles» (1870-1871),
cit. in ibidem, p. 70.
[50] «La natura di una cosa non può essere
cambiata; chiunque tenta di “alterarla” distrugge la cosa. L’uomo non può
trasformarsi in un superuomo; il tentativo di creare un superuomo è un
tentativo di assassinare l’uomo. Storicamente, all’assassinio di Dio non tiene
dietro il superuomo ma l’assassinio dell’uomo: al deicidio dei teorici gnostici
tiene dietro l’omicidio dei professionisti della rivoluzione» (E. Voegelin,
Il mito del mondo nuovo, cit., p. 125).
[51] «Per Bloch il […] mondo è tutto segnato dal male […] l’uomo […] si sa moralmente
obbligato ad oltrepassare il cattivo mondo della fattualità, per edificarne uno
migliore. Seguendo tale logica […] la
droga è una forma di protesta contro la situazione di fatto. Colui che l’assume,
si rifiuta di rassegnarsi alla pura e semplice realtà di fatto. È alla ricerca di
un mondo migliore. […] il nocciolo è
pur sempre la protesta contro una realtà sentita come carcere. Il “grande
viaggio”, che gli uomini ricercano nella droga, è così la forma pervertita
della mistica […]. L’umile e paziente
avventura dell’ascesi, che a piccoli passi verso l’alto s’avvicina al Dio che
si china verso di noi, viene sostituita dal potere magico […] della droga; l’itinerario morale e religioso
dall’applicazione della tecnica. La droga è la pseudomistica di un mondo che
non crede, ma che tuttavia non può scuotersi di dosso la tensione dell’anima
verso il paradiso» (J. Ratzinger, Svolta
per l’Europa?, cit., p. 15).
[52] E. Voegelin, Anni di Guerra, cit., p. 170.
[53] Anche
questo è di lunga gittata, con il
Sessantotto conquista la scena, non compare. Cfr. Francesco Tanzilli, Per la donna, contro le donne. Margaret
Sanger [1879-1966] e la fondazione
del movimento per il controllo delle nascite, Studium, Roma 2012.
[54] Cfr.
Roberto Volpi, La nostra società ha
ancora bisogno della famiglia? Il caso Italia, Vita e Pensiero, Milano
2012, in particolare, pp. 31-55.
[55] Cfr. Cormac McCarthy, La strada, trad. it., Einaudi, Torino
2007.
[56]
Hugo von Hoffmannsthal (1874-1929), Das Schrifttum als geistiger Raum der Nation,
cit. in Damir Barbarić, Presentazione
a H. von Hoffmannsthal, La rivoluzione
conservatrice europea, Marsilio, Venezia 2003, p. 22. È curioso come in
questa dimensione orgiastica l’uomo creda di trovare la propria realizzazione,
quando invece si denuda, si degrada con le peggiori perversioni morali e la
pazzia deliberata indotta e favorita dall’assunzione allo scopo delle più
svariate droghe. In questo senso, l’esperienza di Fiume (1919-1921) è
un’avanguardia, concentrata nel tempo e nello spazio, del Sessantotto; allo
stesso modo in cui quella di Münster (1534-1535) è un concentrato della
Rivoluzione, un’epitome delle sue fasi, “Sessantotto” compreso. Sull’una e
sull’altra, cfr. un mio piccolo studio in appendice.
[57] J. Ratzinger, Svolta per l’Europa?, cit., p. 144
(1991).
[58] R. Pertici, op. cit., p.
243.
[60] R.
Pertici, Il vario anticomunismo italiano
(1936-1960): lineamenti di una storia, in Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia
contemporanea, a cura di Loreto Di
Nucci e Ernesto Galli della Loggia,
il Mulino, Bologna 2003, pp. 263-334, p. 295
[61] Ibid., p. 289.