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mercoledì 27 luglio 2016

Il “Patto delle Catacombe”

I nuovi apostati non sono molto differenti da quelli di ieri.
L
Querculanus 18-7-16
Ieri mi sono imbattuto casualmente in un articolo sul “Patto delle Catacombe”. Mi sono stropicciato gli occhi e mi son detto, alla toscana (un querciolino non rinnega mai le sue radici): oh icchegliè? Incomincio a leggere l’articolo e, man mano che procedo nella lettura, mi sento sempre piú smarrito. Scopro che il 16 novembre 1965, pochi giorni prima della chiusura del Concilio Vaticano II, quaranta Padri Conciliari, nelle Catacombe di Domitilla, firmarono il “Patto delle Catacombe”. Cado dalle nuvole: in cinquant’anni, non avevo mai sentito parlare di simile patto. 

Terminata la lettura, faccio una veloce ricerca su Google, e scopro che ci sono un’infinità di link, in genere risalenti all’anno scorso (novembre 2015), quando ricorreva il cinquantesimo anniversario del patto. In quell’occasione si tenne anche un seminario all’Urbaniana, a cui parteciparono Mons. Luigi Bettazzi (forse l’unico sopravvissuto dei firmatari), il gesuita Jon Sobrino e il Prof. Alberto Melloni (e noi che pensavamo che nel 2015 si dovesse celebrare il cinquantenario del Vaticano II...). Furono scritti anche diversi articoli. Riporto solo qualche titolo: «Con Papa Francesco rivive 50 anni dopo il “Patto delle catacombe”» (Agenzia SIR); «Catacombe: il Patto per una chiesa povera» (Avvenire); «Nel patto delle catacombe il seme della Chiesa di Francesco» (Aleteia); «A 50 anni del “Patto delle Catacombe”. Per una Chiesa “serva e povera”» (Zenit). Addirittura, nel giorno anniversario, a Napoli, nelle Catacombe di San Gennaro, al Rione Sanità, in trecento (la crème della “Chiesa dei poveri” italiana) rinnovarono il patto.

Nella mia ricerca su Google scopro anche che c’è un articolo di Wikipedia. Chiedo a persone di mia conoscenza, solitamente bene informate, se ne sanno nulla, e mi rispondono: “Sí, certo, ne parla anche il Prof. De Mattei nella sua storia del Concilio”. Un volume, questo, che avevo letto a suo tempo, ma evidentemente non avevo messo a fuoco l’evento. Eravamo ancora durante il pontificato di Benedetto XVI: certi fatti sembravano ormai consegnati alla storia. È chiaro che la percezione dei medesimi eventi varia a seconda della situazione in cui ci si trova a vivere.

Vi lascio immaginare il mio stato d’animo, ieri sera. Ho sentito il mondo crollarmi addosso: ma dove sono vissuto io in questi cinquant’anni? Pensavo che il grande evento della Chiesa del XX secolo fosse il Vaticano II; e ora scopro che, no, era il “Patto delle Catacombe”. Mi avevano sempre detto che il rinnovamento della Chiesa era stato avviato dal Concilio; e invece no, ora mi sento dire che il seme della “Chiesa di Francesco” si trova nel “Patto delle Catacombe”. Ma allora ho sbagliato tutto? Ditemi voi che cosa deve fare uno che, fin da giovane, ha scelto come programma di vita quello di “incarnare il Concilio” (vedi qui) e che, per questa sua scelta, è stato osteggiato ed emarginato, e ha dovuto sorbirsi gli epiteti di “lefebvriano” (da sinistra) e di “prete modernista” (da destra), ma che ha accettato tutto perché convinto che quella fosse la scelta giusta, perché persuaso che «nel Vaticano II si esprime ciò che Dio vuole oggi da noi» (vedi il precedente link). E ora, arrivato a sessant’anni, gli dicono: no, guarda, deve esserci stato un malinteso; il seme della vera Chiesa, quella evangelica, quella “povera per i poveri”, non sta nel Concilio, ma nel “Patto delle Catacombe”. Direte che sto esagerando. No, vi posso assicurare che ero davvero sconvolto. Comunque, andiamo con ordine. Cominciamo con la lettura del patto:
Noi, vescovi riuniti nel Concilio Vaticano II, illuminati sulle mancanze della nostra vita di povertà secondo il Vangelo; sollecitati vicendevolmente ad una iniziativa nella quale ognuno di noi vorrebbe evitare la singolarità e la presunzione; in unione con tutti i nostri Fratelli nell’Episcopato, contando soprattutto sulla grazia e la forza di Nostro Signore Gesú Cristo, sulla preghiera dei fedeli e dei sacerdoti delle nostre rispettive diocesi; ponendoci col pensiero e la preghiera davanti alla Trinità, alla Chiesa di Cristo e davanti ai sacerdoti e ai fedeli delle nostre diocesi; nell’umiltà e nella coscienza della nostra debolezza, ma anche con tutta la determinazione e tutta la forza di cui Dio vuole farci grazia, ci impegniamo a quanto segue:
1. Cercheremo di vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di locomozione e tutto il resto che da qui discende. [Mt 5:3; 6:33s; 8:20]
2. Rinunciamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente negli abiti (stoffe ricche, colori sgargianti), nelle insegne di materia preziosa (questi segni devono essere effettivamente evangelici). [Mc 6:9; Mt 10:9s; At 3:6 Né oro né argento]
3. Non possederemo a nostro nome beni immobili, né mobili, né conto in banca, ecc.; e, se fosse necessario averne il possesso, metteremo tutto a nome della diocesi o di opere sociali o caritative. [Mt 6:19-21; Lc 12:33s]
4. Tutte le volte che sarà possibile, affideremo la gestione finanziaria e materiale della nostra diocesi ad una commissione di laici competenti e consapevoli del loro ruolo apostolico, al fine di essere, noi, meno amministratori e piú pastori e apostoli. [Mt 10:8; At 6:1-7]
5. Rifiutiamo di essere chiamati, oralmente o per scritto, con nomi e titoli che significano grandezza e potere (Eminenza, Eccellenza, Monsignore...). Preferiamo essere chiamati con il nome evangelico di Padre. [Mt 20:25-28; 23:6-11; Gv 13:12-15]
6. Nel nostro comportamento, nelle nostre relazioni sociali, eviteremo quello che può sembrare un conferimento di privilegi, precedenze, o anche di una qualsiasi preferenza ai ricchi e ai potenti (es. banchetti offerti o accettati, nei servizi religiosi). [Lc 13:12-14; 1 Cor 9:14-19]
7. Eviteremo ugualmente di incentivare o adulare la vanità di chicchessia, con l’occhio a ricompense o a sollecitare doni o per qualsiasi altra ragione. Inviteremo i nostri fedeli a considerare i loro doni come una partecipazione normale al culto, all’apostolato e all’azione sociale. [Mt 6:2-4; Lc 15:9-13; 2 Cor 12:4]
8. Daremo tutto quanto è necessario del nostro tempo, riflessione, cuore, mezzi, ecc., al servizio apostolico e pastorale delle persone e dei gruppi laboriosi ed economicamente deboli e poco sviluppati, senza che questo pregiudichi le altre persone e gruppi della diocesi. Sosterremo i laici, i religiosi, i diaconi o i sacerdoti che il Signore chiama ad evangelizzare i poveri e gli operai condividendo la vita operaia e il lavoro. [Lc 4:18s; Mc 6:4; Mt 11:4s; At 18:3s; 20:33-35; 1 Cor 4:12 e 9:1-27]
9. Consci delle esigenze della giustizia e della carità, e delle loro mutue relazioni, cercheremo di trasformare le opere di “beneficenza” in opere sociali fondate sulla carità e sulla giustizia, che tengano conto di tutti e di tutte le esigenze, come un umile servizio agli organismi pubblici competenti. [Mt 25:31-46; Lc 13:12-14 e 33s]
10. Opereremo in modo che i responsabili del nostro governo e dei nostri servizi pubblici decidano e attuino leggi, strutture e istituzioni sociali necessarie alla giustizia, all’uguaglianza e allo sviluppo armonico e totale dell’uomo tutto in tutti gli uomini, e, da qui, all’avvento di un altro ordine sociale, nuovo, degno dei figli dell’uomo e dei figli di Dio. [At 2:44s; 4:32-35; 5:4; 2 Cor 8 e 9 interi; 1 Tim 5:16]
11. Poiché la collegialità dei vescovi trova la sua piú evangelica realizzazione nel farsi carico comune delle moltitudini umane in stato di miseria fisica, culturale e morale — due terzi dell’umanità — ci impegniamo:
• a contribuire, nella misura dei nostri mezzi, a investimenti urgenti di episcopati di nazioni povere;
• a richiedere insieme agli organismi internazionali, ma testimoniando il Vangelo come ha fatto Paolo VI all’Onu, l’adozione di strutture economiche e culturali che non fabbrichino piú nazioni proletarie in un mondo sempre piú ricco che però non permette alle masse povere di uscire dalla loro miseria.
12. Ci impegniamo a condividere, nella carità pastorale, la nostra vita con i nostri fratelli in Cristo, sacerdoti, religiosi e laici, perché il nostro ministero costituisca un vero servizio; cosí:
• ci sforzeremo di “rivedere la nostra vita” con loro;
• formeremo collaboratori che siano piú animatori secondo lo spirito che capi secondo il mondo;
• cercheremo di essere il piú umanamente presenti, accoglienti...;
• saremo aperti a tutti, qualsiasi sia la loro religione. [Mc 8:34s; At 6:1-7; 1 Tim 3:8-10]
Tornati alle nostre rispettive diocesi, faremo conoscere ai fedeli delle nostre diocesi la nostra risoluzione, pregandoli di aiutarci con la loro comprensione, il loro aiuto e le loro preghiere.
Aiutaci, Dio, ad essere fedeli

Embè? potrebbe obiettare qualcuno alla romana. Che c’è di male in questa dichiarazione? Si tratta di un testo che trasuda vangelo (basta vedere i riferimenti che vengono riportati); un testo che solo dei santi prelati potevano sottoscrivere. Mi spiace, ma questo per me non è vangelo; è solo una interpretazione ideologica del vangelo. Il che è diverso. Vediamo perché. 
• Concedo che, a una lettura superficiale, si può rimanere affascinati da tanto amore per la povertà, tanto distacco, tanta semplicità, tanta generosità. Effettivamente solo dei santi sarebbero in grado di realizzare un simile programma. E non escludo che qualcuno dei firmatari lo fosse. Ma ciò non toglie al testo tutta la sua carica ideologica.
• Va apprezzata l’umiltà e la modestia che vi traspira: «un’iniziativa nella quale ognuno di noi vorrebbe evitare la singolarità e la presunzione»; «nell’umiltà e nella coscienza della nostra debolezza»; «aiutaci, Dio, ad essere fedeli». Ma non si può ignorare, allo stesso tempo, una punta di presunzione: «in unione con tutti i nostri Fratelli nell’Episcopato». L’unione con i fratelli nell’episcopato, in quei giorni, si manifestava nell’aula conciliare, non nelle catacombe di Domitilla.
• Riconosco pure che diversi punti sarebbero pienamente condivisibili, se non fossero infettati dall’ideologia. Si vedano, per esempio i nn. 1 e 3: ci vuole molto a capire che si tratta di semplici utopie? A volte sarebbero sufficienti le tradizionali virtú (distacco, semplicità, onestà, correttezza, ecc.) per non cadere negli abusi a cui ci si illude di porre rimedio con certi vani propositi. Un po’ di sano realismo non guasterebbe!
• Non parliamo poi degli pseudo-problemi: vestiti, titoli, ecc. (nn. 2 e 5). Da quando in qua i “colori sgargianti” sono antievangelici? «Rifiutiamo di essere chiamati … Eminenza, Eccellenza, Monsignore. Preferiamo essere chiamati con il nome evangelico di Padre». Ma, veramente, nel vangelo è scritto: «Non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste» (Mt 23:9). E questa sarebbe fedeltà al vangelo?
• Evidentissimo è l’influsso del marxismo, tanto di moda in quegli anni: «Sosterremo i laici, i religiosi, i diaconi o i sacerdoti che il Signore chiama ad evangelizzare i poveri e gli operai condividendo la vita operaia e il lavoro» (n. 8); «l’adozione di strutture economiche e culturali che non fabbrichino piú nazioni proletarie in un mondo sempre piú ricco che però non permette alle masse povere di uscire dalla loro miseria» (n. 11). 
• Emerge una mentalità subalterna alle istituzioni pubbliche, considerate le uniche legittime: «cercheremo di trasformare le opere di “beneficenza” in opere sociali fondate sulla carità e sulla giustizia, che tengano conto di tutti e di tutte le esigenze, come un umile servizio agli organismi pubblici competenti» (n. 9). Perché questo rifiuto aprioristico della beneficenza? che male ha fatto? È evidente la priorità, tutta ideologica, del momento sociale e politico rispetto a quello puramente “assistenziale”.
• Vengono buttate lí proposte, che sanno tanto di massoneria: «l’avvento di un altro ordine sociale, nuovo» (n. 10). Forse, un “nuovo ordine mondiale”?
• Affermazioni giuste, ma che rischiano di rimanere dei semplici slogan: «meno amministratori e piú pastori e apostoli» (n. 4); «piú animatori secondo lo spirito che capi secondo il mondo» (n. 12).
• Alcuni passaggi poco chiari: «la collegialità dei vescovi trova la sua piú evangelica realizzazione nel farsi carico comune delle moltitudini umane in stato di miseria fisica, culturale e morale»; «investimenti urgenti di episcopati di nazioni povere» (n. 11). Che significa?

Ma, a parte il contenuto del patto, quel che mi ha maggiormente turbato è la sua stessa esistenza. Notate, esso viene concluso il 16 novembre 1965, a pochi giorni dalla chiusura del Concilio. Perché? Che bisogno c’era? I firmatari erano Padri Conciliari («Noi, vescovi riuniti nel Concilio Vaticano II...»); avevano partecipato a tutte le sedute conciliari; certamente avevano proposto all’attenzione degli altri Padri anche i punti che che sono oggetto del patto, ma evidentemente l’assemblea non aveva ritenuto opportuno farli propri. Ora, se teniamo conto che i sottoscrittori del patto erano 40 e i Padri Conciliari 2500, umiltà e buon senso avrebbero voluto che i 40 si arrendessero alla volontà della maggioranza. Le Costituzioni del mio Ordine, approvate nel Cinquecento, disponevano, a proposito delle decisioni capitolari: «Si eviterà, quando verrà deciso qualcosa contro il proprio parere, di continuare a opporsi o a ripetere che non si condivide quella decisione; bisogna infatti persuadersi che è giusto quanto è stato approvato dalla maggioranza» (l. IV, c. 7). A quanto pare, invece, i piú spirituali dei Padri Conciliari non si rassegnarono, non videro nelle decisioni della maggioranza il risultato del “discernimento” del Concilio, “ciò che lo Spirito dice alla Chiesa”; a loro non bastava quanto era stato approvato; evidentemente ritenevano di essere portatori di una ispirazione speciale, esclusiva, e sentirono il bisogno di riproporla con un gesto a parte, riservato a pochi eletti: il “Patto delle Catacombe”. E il bello è che questo patto non è rimasto un accordo privato fra quei pochi che lo hanno sottoscritto, ma ha costituito la fonte di ispirazione per quanti in questi cinquant’anni non si riconoscevano nella Chiesa istituzionale. Si ha l’impressione che ci siano stati due concili: uno “essoterico”, destinato al vasto pubblico, fatto dei sedici lunghi documenti approvati dai Padri, e uno “esoterico”, riservato a pochi “illuminati”, fatto di dodici paragrafetti (per altro, scritti con una certa approssimazione), che però avrebbero condizionato la Chiesa nei decenni a venire. E sembrerebbe quasi che il Concilio ufficiale sia servito solo da paravento per coprire quello “reale”, rimasto sotto la cenere per cinquant’anni, per manifestarsi infine ai nostri giorni. Che ci fossero delle lobby, lo si sapeva; che queste, prima e durante il Concilio, si riunissero separatamente per decidere e organizzare le modalità dei loro interventi, sarà pure poco corretto, ma è comprensibile, rientra nella normalità. Ma che quaranta Padri, alla vigilia della conclusione del Concilio, abbiano sentito il bisogno di stringere un “Patto delle Catacombe”, supplementare al Concilio, quasi suo momento supremo, a me sembra semplicemente inconcepibile. Dà l’impressione di una specie di Carboneria. Non bastava la “Mafia di San Gallo”; ora viene fuori (almeno per me, che in questi cinquant’anni sono stato un po’ ingenuo e un po’ distratto) il “Patto delle Catacombe”. Questa nuova Chiesa, a quanto pare, nasce sotto il segno della cospirazione. Ma non erano state aperte le finestre per fare entrare aria fresca? Non doveva sentirsi profumo di primavera? Io, per il momento, sento solo puzza di zolfo.