Continua la pubblicazione di uno studio approfondito su alcuni punti controversi dell'esortazione Amoris laetitia: data l'ampiezza, lo scritto verrà diviso in più post: al temine della pubblicazione sarà possibile scaricare il testo completo in formato PDF
Beato Angelico, Matrimonio della Vergine
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Osservazioni su alcuni punti controversi
dell'Esortazione apostolica
Amoris laetitia
5. Chi
pecca mortalmente e non si pente è privo della grazia santificante.
Esaminiamo
ora una frase contenuta nel § 301 di Amoris
laetitia
"…non è più possibile
dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta
“irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia
santificante".
A questo punto del nostro studio, questa affermazione,
considerata simpliciter, è
difficilmente accettabile: per darne una valutazione corretta, è utile offrire
una buona explicatio terminorum.
a) Explicatio
terminorum
È necessario spiegare bene cosa intendiamo con i termini peccato mortale, stato di peccato, perseveranza
nel peccato grave manifesto, situazione difficile o irregolare.
Peccato mortale: un atto o un desiderio contrario alla Legge
eterna, il quale ha per oggetto una materia grave e che, inoltre, viene
commesso con piena consapevolezza e deliberato consenso[1].
Nei casi che ci interessano più da vicino, consideriamo
l'uso del matrimonio tra due persone che non sono sposate: potrebbe essere fornicazione, qualora le due persone non
siano sposate sacramentalmente con altri, adulterio
negli altri casi.
Stato di peccato:
la condizione spirituale di chi vive
privo della grazia santificante, di chi dopo aver commesso un peccato mortale,
non se ne vuole pentire e non vuole confessarsi.
Infatti, "Il peccato
mortale distrugge la carità nel cuore dell'uomo a causa di una violazione
grave della Legge di Dio; distoglie l'uomo da Dio, che è il suo fine ultimo e
la sua beatitudine, preferendo a lui un bene inferiore"[2].
Per uscire dallo stato di peccato e riacquistare la grazia,
è necessario confessarsi o compiere un atto di contrizione perfetto, che
necessariamente comprende il proposito di non più peccare e di confessarsi
appena possibile.
Coloro che
"ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto" (CIC can.
905): uno stato oggettivo, esterno, constatabile pubblicamente per il quale
una persona vive in pubblica contraddizione con la legge divina ed
ecclesiastica. Il Pontificio Consiglio
per i Testi Legislativi così descrive questa condizione: "l’esistenza
di una situazione oggettiva di peccato che dura nel tempo e a cui la volontà
del fedele non mette fine, non essendo necessari altri requisiti (atteggiamento
di sfida, ammonizione previa, ecc.) perché si verifichi la situazione nella sua
fondamentale gravità ecclesiale"[3].
Per quanto riguarda coloro che ostinatamente perseverano in
peccato grave manifesto contro la temperanza e/o il matrimonio, ci troviamo di
fronte a quelle che la CEI ha chiamato…
Situazioni difficili
o irregolari[4]: si possono trovare in questa
situazione i conviventi uxorio modo:
a) senza alcun legame giuridico o sacramentale, b) separati da precedente
matrimonio, c) divorziati non risposati civilmente, d) divorziati risposati
civilmente, e) sposati solo civilmente.
Ci chiediamo ora: chi
si trova in situazione coniugale difficile o irregolare, può vivere in grazia
di Dio?
Posto dunque che 1) la fornicazione e l'adulterio sono
sempre peccati mortali, 2) che le circostanze non ne possono attenuare la
malizia, 3) che non manca mai l'aiuto di Dio per non peccare, 4) che non esiste
una situazione in cui non ci sia altra possibilità che peccare, 5) che non si
ammette ignoranza in materia (o, se ci fosse, va immediatamente rimossa[5]),
possiamo concludere che le persone che vivono nelle situazioni difficili o
irregolari - a meno che non si astengano dagli atti propri del matrimonio -
sono sempre in stato di peccato.
In conseguenza di quanto detto, l'unica condizione per cui
diventa accettabile l'affermazione di Amoris
laetitia presa in esame è: le persone in situazione difficile o irregolare
possono restare in stato di grazia se vivono come fratello e sorella[6] oppure
se non sono in condizione di porre un atto umano: cioè se l'atto non procede da
liberà volontà (caso molto difficile da verificarsi nel nostro caso, dove i
peccati sono reiterati costantemente[7]).
b) Rapporto tra peccato oggettivo e responsabilità soggettiva.
b) Rapporto tra peccato oggettivo e responsabilità soggettiva.
Rimane ora una questione: che
rapporto c'è tra il peccato oggettivo e la responsabilità soggettiva?
Si può affermare che chi commette un atto oggettivamente
peccaminoso è soggettivamente - ovvero nel suo caso particolare - responsabile
del peccato?
Dò per scontato che non possiamo giudicare altre persone se
non noi stessi. Nel giudizio di noi stessi, se non possiamo conoscere con
certezza assoluta di esser in grazia di Dio[8], possiamo
averne la certezza morale, e quindi anche quella di non essere in questo
stato: se per la coscienza ci fosse un confine invalicabile tra peccato
oggettivo e consapevolezza di aver peccato o meno, la Chiesa non potrebbe imporci
di essere in grazia di Dio per accedere ai sacramenti (come faccio a sapere se
ho peccato? Nemo potest ad impossibile
obligari), e san Paolo non avrebbe potuto ordinare "Ciascuno, dunque,
esamini se stesso e poi mangi del pane e beva dal calice"[9].
La certezza morale, se non è certezza assoluta, non è
neanche pressapochismo.
Possiamo avere dunque la certezza morale di essere o non
essere in peccato: e quindi siccome verisimile
sequendum est (sono le certezze morali con le quali ordinariamente
viviamo), chi ha coscienza di aver compiuto un atto cattivo in materia grave
con piena avvertenza e deliberato consenso, pur non avendone certezza assoluta
(come ad esempio le certezze di fede), deve ragionevolmente ritenere di non
essere in grazia di Dio.
Così sono da intendere le espressioni di San Tommaso viste
in precedenza, "semper est peccatum mortale":
l'adulterio e la fornicazione sono atti oggettivamente sempre intrinsecamente
cattivi, e chi li compie con piena avvertenza e deliberato consenso ha la
certezza morale di aver peccato.
È chiaro
che sto parando di condizioni normali, escludendo quindi tutti i casi in cui
manca nel soggetto la retta capacità di giudizio e la libera volontarietà per
compiere un atto.
[1]
Ho composto questa definizione sulla base di quanto
affermato ai §§ e 1849 e 1856 del Catechismo
della Chiesa Cattolica. 1849: "Il peccato è una mancanza contro la ragione, la verità, la retta
coscienza; è una trasgressione in ordine all'amore vero, verso Dio e verso il
prossimo, a causa di un perverso attaccamento a certi beni. Esso ferisce la
natura dell'uomo e attenta alla solidarietà umana. È stato definito «una
parola, un atto o un desiderio contrari alla Legge eterna» (Sant'Agostino,
Contra Faustum manichaeum, 22, 27:
CSEL 25, 621 (PL 42, 418); cf San Tommaso d'Aquino, Summa theologiae, I-II, q. 71, a. 6: Ed. Leon. 7, 8-9.)". 1856: "«È peccato mortale quello che ha per oggetto una materia
grave e che, inoltre, viene commesso con piena consapevolezza e deliberato
consenso»". (Giovanni Paolo II, Esort. ap. Reconciliatio et paenitentia, 17)
[2]
Catechismo
della Chiesa Cattolica, § 1855.
[3]
Pontificio Consiglio per i Testi
Legislativi, Circa l'ammissibilità
alla Santa Comunione dei divorziati risposati, 24.6.2000, 2.
[4]
Ricavo questa terminologia da: Conferenza
Episcopale Italiana, Direttorio di
pastorale familiare per la Chiesa in Italia. Annunciare, celebrare, servire il
"Vangelo della famiglia", 12-7-1993, http://tinyurl.com/gvfsnku.
[5]
"Nel caso concreto dell’ammissione alla sacra Comunione dei fedeli divorziati
risposati, lo scandalo, inteso quale azione che muove gli altri verso il male,
riguarda nel contempo il sacramento dell’Eucaristia e l’indissolubilità del
matrimonio. Tale scandalo sussiste anche se, purtroppo, siffatto comportamento
non destasse più meraviglia: anzi è appunto dinanzi alla deformazione delle
coscienze, che si rende più necessaria nei Pastori un’azione, paziente quanto
ferma, a tutela della santità dei sacramenti, a difesa della moralità cristiana
e per la retta formazione dei fedeli"; Circa
l'ammissibilità alla Santa Comunione dei divorziati risposati, 24.6.2000,
1.
[6]
Molto bella e precisa la spiegazione che il Card.
Carlo Caffarra dà della vita come
fratello e sorella: "Esclusione della «affectio coniugalis» significa
due cose: interruzione di ogni esercizio della sessualità proprio dei coniugi;
una progressiva trasformazione del loro rapporto in rapporto di amicizia, di
stima, di aiuto reciproco. È questo il significato profondo dell’espressione «come
fratello e sorella». Orientamenti
pastorali per le situazioni matrimoniali irregolari,
febbraio 2000, http://tinyurl.com/hojn3pk.
[7]
È importante notare la differenza tra un atto più volte coscientemente
reiterato, e una azione compiuta per un raptus:
la Chiesa ora permette le esequie dei suicidi, ritenendo possibile la non piena
libertà morale di chi si toglie la vita. Ma un conto è un'azione puntuale
immediata, in un momento di sconforto, un altro è lo stato di coloro che
liberamente e volontariamente continuano a vivere come marito e moglie senza
esserlo.
[8]
"…cum nullus scire valeat certitudine fidei, cui non potest subesse
falsum, se gratiam Dei esse consecutum"; Concilio
di Trento, sessio VI (De
iustificatione), cap. 9, H. Denzinger,
Enchiridion symbolorum, n. 1534.
[9]
1 Cor 11,28.
Quanta "piena avvertenza" si pensa ci sia oggi nelle coscienze?
RispondiEliminaE se non è "piena" non c'è nemmeno peccato "grave".
"I confessori sanno bene che un penitente può non confessare un atto oggettivamente grave quando non ha idea che sia un peccato. Ora, non si può trasformare un "peccato materiale" in un "peccato formale". Se questo è il caso (ma bisogna accertarsene), il penitente può allora ricevere validamente l'assoluzione.
Ma il confessore ha al tempo stesso il dovere di rischiarare la coscienza deformata, al fine di riformarla; la cosa può prendere del tempo e richiede dunque un accompagnamento spirituale adeguato. Non basta ricordare la legge dall'esterno: occorre anche che la persona la comprenda e l'accolga veramente dall'interno. Il documento non dice niente di diverso.
Questo caso è già ben stabilito nella dottrina e nella pratica della Chiesa, anche se fa parte di quella "scienza del confessionale" che i fedeli si immagina non conoscano, poiché presuppone una buona formazione di teologia morale e una buona pratica del confessionale. La novità del documento è soprattutto qui: nel fatto di presentare in piena luce una pratica - (che riguarda ogni situazione di peccato) - che prima restava nell'ombra, nel segreto del confessionale. Non perché essa fosse vergognosa, ma perché suppone delle chiavi di comprensione che molti non hanno e non possono avere.
...
In un punto, il regime della "Familiaris consortio" è effettivamente cambiato. Non nel senso che dei peccatori coscienti del loro peccato grave vanno a ricevere la comunione: questo non è possibile e non lo sarà mai. Ma nel senso che delle persone che non sanno di essere nel peccato possono ricevere "l'aiuto dei sacramenti" fino a che prendono coscienza di questo peccato nell'accompagnamento spirituale. Esse cesseranno allora di riceverli, finché non avranno cambiato il loro stato di vita per conformarsi pienamente alle esigenze del Vangelo, secondo la "Familiaris consortio". Non si tratta di fare per loro un'eccezione; ma piuttosto di applicare a loro il regime generale già stabilito per tutti gli altri casi.
...
Ora, i progressi della psicologia e nello stesso tempo i "progressi" di una società confusa e senza punti di riferimento fanno sì che sempre più persone ignorino ciò che una volta era evidente per tutti. Con l'effetto che ciò che valeva per tutte le altre categorie di peccati lo diventa anche per i divorziati risposati. Non si può non constatare che questo accade. Anche se le condizioni sono estremamente strette, i casi sono sempre più numerosi, in proporzione con l'allontanamento dalla Chiesa.
Pur distinguendo le situazioni, Giovanni Paolo II aveva mantenuto la regola, per un motivo pastorale e dunque per una scelta prudenziale, al fine di evitare lo scandalo. Non è dunque contrario alla dottrina e alla legge divina che papa Francesco faccia un'altra scelta prudenziale, tenendo conto di queste possibilità di distorsione della coscienza, pur tenendo ferma la regola di evitare lo scandalo (AL 299).
Non è che si permetta ai peccatori di "arrangiarsi con la loro coscienza"; è che bisogna ormai partire da molto più lontano per poter riconciliare un peccatore con la Chiesa. Perché le coscienze sono sempre più deformate, e bisogna dunque anzitutto riformarle per permettere loro di avanzare su un cammino di perfezione.
Ma il papa è chiaro sul fatto che tutti sono chiamati alla conversione: "conversione missionaria" per i pastori; conversione alle esigenze del Vangelo per i peccatori. Semplicemente, questa conversione non può essere presentata come un preliminare e un ostacolo insormontabile; essa deve essere la meta mirata, verso la quale dirigersi risolutamente, anche se per questo ci vogliono tempo e tappe. Dio ha sempre fatto così con il suo popolo.
...
(Thomas Michelet O.P.)