Ci hanno segnalato questo vecchio articolo del 2013 sulla simbologia papale nei paramenti: loriproponiamo.
Ci pare di dover dire che la rivoluzione, in questo campo, non accenna ad arretrare ma - anzi - ci pare avanzare.
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Il Foglio 9-11-2013
Matteo Matzuzzi
Chissà cosa penserebbe oggi Urbano VIII, immortalato a imperitura memoria in un celebre ritratto di Pietro da Cortona verso il 1627, dando un’occhiata anche veloce all’abbigliamento di Papa Francesco. Niente rosso, niente ermellino. Neppure le scarpe appropriate al ruolo. Certo, nel Seicento qualche Papa si faceva confezionare abiti alla moda (rigorosamente bianchi) da indossare sotto la candida veste. Nessuno, però, si sarebbe mai sognato di portare calzoni neri e scarponi consumati con i lacci. Urbano VIII, invece, indossa tutto ciò che è utile a indicarne l’appartenenza sociale, lo stato, la funzione. Dal camauro alla mozzetta bordata d’ermellino, dal rocchetto alla falda, fino alle scarpe con la croce. Il tutto in un’alternanza di bianco e rosso, i colori propri del vicario di Cristo.
Erano i tempi in cui i papi neoeletti non solo si facevano realizzare paramenti adeguati al rango e (spesso) alla ricchezza del blasone famigliare, ma facevano tessere stoffe con il proprio stemma per tappezzare ogni salone e stanza del Quirinale e del Palazzo apostolico vaticano. L’ultimo a farlo è stato Clemente XIII, salito al Soglio nel 1758. Scrive la storica dell’arte Marzia Cataldi Gallo, nel suo libro “Vestire il Pontefice” (Sagep, 80 pp., 12 euro) presentato qualche giorno fa ai Musei capitolini, che “nel passato vaste fasce di popolazione potevano anche non saper leggere e scrivere, ma certamente sapevano leggere il significato di certe fogge d’abito”. Quest’ultimo, infatti, “era – ed è? – un mezzo di comunicazione immediato, una dichiarazione diretta”.
La chiesa, fedele a questo principio, non si è discostata troppo dal solco fatto di sacralità e bellezza, “e ha sempre mirato a sottolineare il ruolo del celebrante in generale e, con maggior forza, quello del Pontefice, ammantandolo di paramenti speciali”. La storia della chiesa, infatti, “è percorsa da un fil rouge: da una costante e ininterrotta consapevolezza dell’opportunità che la figura centrale della liturgia e, ancor più, la figura centrale della chiesa tutta, vestisse parati adatti a evidenziarne il ruolo di guida e di faro sul quale potessero convergere gli occhi e il sentire dei fedeli”.
Un rapporto, quello tra liturgia e bellezza che era stato messo in luce da Benedetto XVI nell’“Esortazione Sacramentum Caritatis”: un legame che, scriveva il Papa oggi emerito, “non è mero estetismo, ma modalità con cui la verità dell’amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina, ci rapisce”. Molto si è scritto e speculato sulla scelta di Francesco di rinunciare – fin dalla prima apparizione sulla Loggia delle Benedizioni, il 13 marzo scorso – ai simboli che per secoli identificavano la figura del Pontefice. La motivazione, con ogni probabilità, è legata alla voglia di liberarsi di quelle vestigia rinascimentali sopravvissute al vento del Concilio e alla spoliazione iniziata da Paolo VI con l’abbandono del triregno. Eppure, il rosso ha una sua storia, una sua radice che affonda nei secoli passati: “Fin dal Duecento – scrive Marzia Cataldi Gallo – la veste bianca e rossa del Papa diventa tradizionale, ed è con la Controriforma che il duplice simbolismo cromatico divenne più forte”. Il bianco a simboleggiare la purezza, il rosso il sacrificio della Passione. Dietro la scelta di Francesco, però, potrebbe anche esserci una seconda lettura: il rosso come richiamo al potere temporale e rinvio all’“immantatio”, la cerimonia con cui il neoeletto veniva rivestito della cappa rubea. Manto rosso e tiara, simboli di quel Papa re che Francesco vuole confinare per sempre nei libri di storia.