Dagli amici di Missa Gregoriana un bellissimo pezzo di Joseph Ratzinger sull'importanza dell'inginocchiarsi (ricordiamo che la stessa etimologia di "benedizione" fa riferimento in ebraico e arabo al ginocchio del cammello).
Ogni riferimento a fatti presenti è puramente casuale.....
L
Atteggiamenti
Inginocchiarsi
(Prostratio)
Vi sono ambienti, che esercitano notevole
influenza, che cercano di convincerci che non bisogna
inginocchiarsi. Dicono che questo gesto non si adatta alla
nostra cultura (ma a quale, allora?); non è conveniente per l’uomo maturo, che
va incontro a Dio stando diritto, o, quanto meno, non si addice all’uomo
redento, che mediante Cristo è divenuto una persona libera e che, proprio per
questo, non ha più bisogno di inginocchiarsi.
Se guardiamo alla storia possiamo osservare che
Greci e Romani rifiutavano il gesto di inginocchiarsi. Di fronte agli dei
faziosi e divisi che venivano presentati dal mito, questo atteggiamento era
senz’altro giustificato: era troppo chiaro che questi dei non erano Dio, anche
se si dipendeva dalla loro lunatica potenza e per quanto possibile ci si doveva
comunque procacciare il loro favore. Si diceva che inginocchiarsi era cosa
indegna di un uomo libero, non in linea con la cultura della Grecia; era una
posizione che si confaceva piuttosto ai barbari. Plutarco e Teofrasto
definiscono l’atto di inginocchiarsi come un’espressione di superstizione;
Aristotele ne parla come di un atteggiamento barbarico (Retorica, 1361
a 36). Agostino gli dà per un certo verso ragione: i falsi dei non sarebbero
infatti altro che maschere di demoni, che sottomettono l’uomo all’adorazione del
denaro e del proprio egoismo, che in questo modo li avrebbero resi «servili» e
superstiziosi. L’umiltà di Cristo e il suo amore che è giunto sino alla croce,
ci hanno liberato – continua Agostino – da queste potenze ed è davanti a questa
umiltà che noi ci inginocchiamo.
In effetti, l’atto di inginocchiarsi
proprio dei cristiani non si pone come una forma di inculturazione in
costumi[181] preesistenti, ma, al contrario, è espressione
della cultura cristiana che trasforma la cultura esistente a partire da una
nuova e più profonda conoscenza ed esperienza di Dio.
L’atto di inginocchiarsi non proviene da
una cultura qualunque, ma dalla Bibbia e dalla sua esperienza di
Dio.L’importanza centrale che l’inginocchiarsi ha nella Bibbia la si
può desumere dal fatto che solo nel Nuovo Testamento la
parolaproskynein compare 59 volte, di cui 24 nell’Apocalisse, il libro
della liturgia celeste, che viene presentato alla Chiesa come modello e criterio
per la sua liturgia.
***
Osservando più attentamente possiamo
distinguere tre atteggiamenti strettamente imparentati tra di loro.
Il primo di essi è la prostratio: il distendersi fino a
terra davanti alla predominante potenza di Dio; soprattutto nel Nuovo
Testamento c’è, poi, il cadere ai piedi e, infine, il
mettersi in ginocchio. I tre atteggiamenti non sono sempre facili da
distinguere, anche sul piano linguistico. Essi possono legarsi tra di loro,
sovrapporsi l’uno all’altro.
Per ragioni di brevità vorrei citare, a
proposito della prostratio, due testi, uno tratto dall’Antico
Testamento, l’altro dal Nuovo.
Quello tratto dall’Antico Testamento è la
teofania a Giosuè prima della conquista di Gerico, che dallo scrittore
biblico è posta in stretto parallelo con la teofania a Mosè presso il roveto
ardente. Giosuè vede «il capo dell’esercito del Signore» e, dopo aver
riconosciuto la sua identità, si getta a terra davanti a lui. In quel momento
ode le parole che, in precedenza, erano già state rivolte a Mosè: «Togli i
calzari dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è santo» (Gs 5,14s). Nella
figura misteriosa del «capo dell’esercito del Signore» il Dio nascosto parla a
Giosuè e davanti a Lui questi si getta a terra. È bella l’in[182]terpretazione
di questo testo data da Origene: «C’è un altro capo delle potenze del Signore
oltre al nostro Signore Gesù Cristo?». Giosuè adora dunque Colui che doveva
venire, il Cristo veniente.
Per quanto riguarda, invece il Nuovo
Testamento, a cominciare dai Padri è divenuta particolarmente importante la
preghiera di Gesù al monte degli Ulivi. Secondo Matteo (26,39) e Marco
(14,35) Gesù si prostra a terra, anzi, cade a terra (Mt); Luca, invece, che in
tutta la sua opera – Vangelo e Atti degli Apostoli – è in maniera particolare il
teologo del pregare in ginocchio, ci racconta che Gesù pregava in ginocchio.
Questa preghiera, come preghiera
introduttiva alla Passione, è esemplare, sia per quanto riguarda il gesto che
per i suoi contenuti. I gesti: Gesù fa sua la caduta dell’uomo, si lascia cadere
nella sua caducità, prega il Padre dal più profondo abisso della solitudine e
del bisogno umani. Ripone la sua volontà nella volontà del Padre: Non la mia
volontà sia fatta, ma la Tua. Ripone la volontà umana nella volontà divina. Fa
sua ogni negazione della volontà dell’uomo e la soffre con il suo dolore;
proprio l’uniformare la volontà umana alla volontà divina è il cuore stesso
della redenzione.
Difatti la caduta dell’uomo si poggia
sulla contraddizione delle volontà, sulla contrapposizione della volontà umana
alla volontà divina, che il tentatore dell’uomo fa ingannevolmente passare come
condizione della sua libertà. Solo la volontà autonoma, che non si sottomette ad
alcuna altra volontà, sarebbe, secondo lui, libertà. Non la mia volontà, ma la
tua – è questa la parola della verità, poiché la volontà di Dio non è il
contrario della nostra libertà, ma il suo fondamento e la sua condizione di
possibilità. Solo rimanendo nella volontà di Dio la nostra volontà diventa vera
volontà ed è realmente libera. La sofferenza e la lotta del
monte degli Ulivi è la lotta per questa verità liberante, per l’unità di ciò che
[183] è diviso, per una unione che è la comunione di
Dio.
Comprendiamo così che in questo passo si trova anche l’invocazione d’amore del Figlio Padre: Abbà (Mc 14,36). Paolo vede in questo grido la preghiera che lo Spirito Santo pone sulle nostre labbra (Rm 8,15; Gal 4,6) e àncora così la nostra preghiera spirituale alla preghiera del Signore sul monte degli Ulivi.
Nella liturgia della Chiesa la
prostratio appare oggi in due occasioni: il venerdì santo e nelle
consacrazioni.
Il venerdì santo, giorno della crocifissione, essa è espressione adeguata del nostro sconvolgimento per il fatto di essere, con i nostri peccati, corresponsabili della morte in croce di Cristo. Ci gettiamo a terra e prendiamo parte alla sua angoscia, alla sua discesa nell’abisso del bisogno. Ci gettiamo a terra e riconosciamo così dove siamo e chi siamo: caduti, che solo Lui può sollevare. Ci gettiamo a terra come Gesù davanti al mistero della presenza potente di Dio, sapendo che la croce è il vero roveto ardente, il luogo della fiamma dell’amore di Dio, che brucia, ma non distrugge.
Il venerdì santo, giorno della crocifissione, essa è espressione adeguata del nostro sconvolgimento per il fatto di essere, con i nostri peccati, corresponsabili della morte in croce di Cristo. Ci gettiamo a terra e prendiamo parte alla sua angoscia, alla sua discesa nell’abisso del bisogno. Ci gettiamo a terra e riconosciamo così dove siamo e chi siamo: caduti, che solo Lui può sollevare. Ci gettiamo a terra come Gesù davanti al mistero della presenza potente di Dio, sapendo che la croce è il vero roveto ardente, il luogo della fiamma dell’amore di Dio, che brucia, ma non distrugge.
In occasione delle consacrazioni questo
gesto esprime la consapevolezza della nostra assoluta incapacità di accogliere
con le sole nostre forze il compito sacerdotale di Gesù Cristo, di parlare con
il suo Io. Mentre i candidati all’ordinazione giacciono a terra,
l’intera comunità radunata canta le litanie dei santi. Resta per me
indimenticabile questo gesto compiuto in occasione della mia ordinazione
sacerdotale ed episcopale. Quando venni consacrato vescovo la percezione
bruciante della mia insufficienza, dell’inadeguatezza davanti alla grandezza del
compito fu forse ancora più grande che in occasione della mia ordinazione
sacerdotale. Fu per me meravigliosamente consolante sentire la Chiesa orante
invocare tutti i santi, sentire che la preghiera della Chiesa mi avvol[184]geva
e mi abbracciava fisicamente. Nella propria incapacità, che doveva esprimersi
corporeamente in questo stare prostrati, questa preghiera, questa presenza di
tutti i santi, dei vivi e dei morti, era una forza meravigliosa, e solo essa
poteva sollevarmi, solo lo stare in essa poteva rendere possibile la strada che
mi stava davanti.
***
In secondo luogo bisogna ricordare il
gesto del cadere ai piedi, che nei Vangeli è indicato quattro volte (Mc 1,40;
10,17; Mt 17,14; 27,29) con il termine gonypetein. Partiamo da
Mc 1,40. Un lebbroso va da Gesù e gli chiede aiuto; si getta ai suoi piedi e gli
dice: «Se tu vuoi, puoi guarirmi». Qui è difficile valutare la portata di questo
gesto. Non si tratta sicuramente di un vero atto di adorazione, ma di una
preghiera espressa con fervore, anche con il corpo, in cui le parole manifestano
una fiducia nella potenza di Gesù che va al di là della dimensione puramente
umana. È diverso il caso dell’espressione classica dell’adorazione in ginocchio
– proskynein.
Scelgo ancora una volta due
esempi per chiarire la questione che si pone al traduttore. Anzitutto
la storia di Gesù che, dopo la moltiplicazione dei pani, sosta sulla montagna,
in colloquio con il Padre, mentre i discepoli lottano invano sul mare con il
vento e le onde. Gesù va verso di loro sulle acque; Pietro gli si affretta
incontro, ma impaurito, sprofonda nelle acque e viene salvato dal Signore. Gesù,
allora, sale sulla barca e il vento si placa. Il testo, poi, prosegue: ma
i discepoli sulla barca «gli si prostrarono davanti» e dissero:
«veramente tu sei il Figlio di Dio!» (Mt 14,33). Precedenti traduzioni
scrivevano: i discepoli adorarono Gesù sulla barca e dissero… Ambedue le
traduzioni sono giuste, ambedue mettono in rilievo un aspetto di ciò che accade:
quelle recenti l’espressione corporale, quelle più antiche l’avveni[185]mento
interiore. Difatti, dalla struttura del racconto si desume con estrema chiarezza
che il gesto di riconoscimento di Gesù come Figlio di Dio è adorazione.
Anche nel Vangelo di Giovanni incontriamo
una simile problematica, nel racconto della guarigione del cieco nato.
Questa storia, costruita teo-drammaticamente, si conclude in un dialogo tra Gesù
e la persona sanata, che può essere considerato il prototipo del dialogo di
conversione; inoltre, l’intera storia deve essere intesa come una spiegazione
interiore dell’importanza esistenziale e teologica del battesimo. In questo
dialogo Gesù aveva chiesto all’uomo se credeva nel figlio dell’Uomo. Alla
domanda del cieco nato: «Chi è, Signore?» e alla risposta di Gesù: «Colui che ti
parla», segue la professione di fede: «Io credo, Signore! Ed egli si prostrò
davanti a lui» (Gv 9,35-38). Traduzioni precedenti avevano scritto: «ed egli lo
adorò».Di fatto, tutta la scena mira all’atto di fede e di adorazione di
Gesù, che ne segue: ora non sono aperti solo gli occhi dell’amore, ma anche
quelli del cuore. L’uomo è diventato davvero vedente. Per
l’interpretazione del testo è importante osservare che nel Vangelo di Giovanni
la parola proskynein ricorre undici volte, di cui nove nel dialogo di
Gesù con la Samaritana, presso il pozzo di Giacobbe (Gv 4,19-24). Questa
conversazione è tutta dedicata al tema dell’adorazione ed è fuori discussione
che qui, come del resto in tutto il Vangelo di Giovanni, la parola ha sempre il
significato di «adorare». Anche questo dialogo si conclude comunque – come
quello con il cieco sanato – con l’autorivelazione di Gesù: «Sono io, che ti
parlo».
Mi sono trattenuto a lungo su questo testo perché
in esso compare qualcosa di importante. Nei due passi qui approfonditi
il significato spirituale e quello corporeo della parola
proskynein non sono affatto
separa[186]bili.
II gesto corporale è, come tale, portatore di un senso spirituale – quello, appunto, dell’adorazione, senza del quale esso resterebbe privo di significato – mentre, a sua volta, il gesto spirituale, per sua stessa natura, in forza dell’unità fisico-spirituale della persona umana, deve esprimersi necessariamente nel gesto corporale. Ambedue gli aspetti sono integrati in una sola parola perché si richiamano intimamente l’un l’altro.
II gesto corporale è, come tale, portatore di un senso spirituale – quello, appunto, dell’adorazione, senza del quale esso resterebbe privo di significato – mentre, a sua volta, il gesto spirituale, per sua stessa natura, in forza dell’unità fisico-spirituale della persona umana, deve esprimersi necessariamente nel gesto corporale. Ambedue gli aspetti sono integrati in una sola parola perché si richiamano intimamente l’un l’altro.
Quando l’inginocchiarsi diventa pura
esteriorità, semplice atto corporeo, diventa privo di senso; ma anche quando si
riduce l’adorazione alla sola dimensione spirituale senza incarnazione, l’atto
dell’adorazione svanisce, perché la pura spiritualità non esprime l’essenza
dell’uomo. L’adorazione è uno di quegli atti fondamentali che riguardano l’uomo
tutto intero. Per questo il piegare le ginocchia alla presenza del Dio vivo è
irrinunciabile.
***
Con ciò siamo già arrivati al tipico
atteggiamento dell’inginocchiarsi su uno o su ambedue i ginocchi.
Nell’Antico Testamento ebraico alla parola berek (ginocchio) corrisponde il
verbo barak, inginocchiarsi.
Le ginocchia erano per gli ebrei un
simbolo di forza; il piegarsi delle ginocchia è quindi il piegarsi della nostra
forza davanti al Dio vivente, riconoscimento che tutto ciò che noi siamo, lo
abbiamo da Lui. Questo gesto appare in importanti passi dell’Antico
Testamento come espressione di adorazione. In occasione della consacrazione del
tempio, Salomone «si inginocchiò davanti a tutta l’assemblea di Israele» (2Cr
6,3). Dopo l’esilio, nella situazione di bisogno in cui venne a trovarsi Israele
dopo il ritorno in patria, Esdra ripete lo stesso gesto all’ora del sacrificio
della sera: «Poi caddi in ginocchio e stesi le mani al mio Signore e pregai il
Signore, mio Dio» (Esdra 9,5). Il grande salmo della Passione («Mio Dio, mio Dio
perché mi hai abban[187]donato») si conclude con la promessa: «Davanti a Lui si
piegheranno tutti i potenti della terra, davanti a Lui si prostreranno quanti
dormono sotto terra» (Sal 22,30). Rifletteremo sul passo affine di Is 45,23 in
contesto neotestamentario. Gli Atti degli Apostoli ci raccontano della preghiera
in ginocchio di san Pietro (9,40), di san Paolo (20,36) e di tutta la comunità
cristiana (21,5).
Particolarmente importante per la nostra
questione è il racconto del martirio di santo Stefano. Il primo
martire cristiano viene presentato nella sua sofferenza come perfetta imitazione
di Cristo, la cui passione si ripete nel martirio del testimone fin nei
particolari. Stefano, in ginocchio, fa così sua la preghiera
del Cristo crocifisso: «Signore non imputare loro questo peccato» (At
7,60). Ricordiamo in proposito che Luca, a differenza di Matteo e di Marco,
aveva parlato della preghiera in ginocchio del Signore sul monte degli Ulivi e
osserviamo, quindi, che Luca vuole che l’inginocchiarsi del protomartire sia
inteso come un entrare nella preghiera di Gesù.
L’inginocchiarsi non è solo un gesto
cristiano, è un gesto cristologico. Il passo più importante sulla teologia
dell’inginocchiarsi è e resta per me il grande inno cristologico di Fil 2,6-11.
In questo inno prepaolino ascoltiamo e vediamo la preghiera della
Chiesa apostolica e riconosciamo la sua professione di fede; ma sentiamo anche
la voce dell’Apostolo, che è entrato in questa preghiera e ce l’ha tramandata;
torniamo ancora una volta a percepire la profonda unità interiore di Antico e
Nuovo Testamento, così come l’ampiezza cosmica della fede cristiana.
L’inno ci presenta Cristo in
contrapposizione al primo Adamo: mentre questi cerca di arrivare alla divinità
con le sole sue forze, Cristo non considera come un «tesoro geloso» la divinità,
che pure gli è propria, ma si abbassa fino alla morte di croce. Proprio questa
umiltà, che viene dall’amore, è il propriamente [188] divino e gli procura il
«nome che è al di sopra di tutti i nomi», «perché tutti, in cielo e
sulla terra e sotto terra, pieghino le loro ginocchia davanti al nome di Gesù…».
L’inno della Chiesa apostolica riprende qui la parola profetica di Isaia 45,23:
«Lo giuro su me stesso dalla mia bocca esce la verità, una parola irrevocabile:
davanti a me si piegherà ogni ginocchio…».
Nella compenetrazione di Antico e Nuovo
Testamento è chiaro che Gesù, proprio in quanto è il Crocifisso, porta il «nome
che è al di sopra di tutti i nomi» – il nome dell’Altissimo – ed è Egli stesso
di natura divina. Per mezzo di Lui, il Crocifisso, si compie la profezia
dell’Antico Testamento: tutti si pongono in ginocchio davanti a Gesù, Colui che
è asceso, e si piegano così davanti all’unico vero Dio, al di sopra di tutti gli
dei.
La croce è divenuta il segno universale
della presenza di Dio, e tutto ciò che noi abbiamo finora udito sulla croce
storica e cosmica, deve trovare qui il suo vero senso. La liturgia cristiana è
proprio per questo liturgia cosmica, per il fatto che essa piega le ginocchia
davanti al Signore crocifisso e innalzato. È questo il centro della vera
«cultura» – la cultura della verità. Il gesto umile con cui noi cadiamo ai piedi
del Signore, ci colloca sulla vera via della vita, in armonia con tutto il
cosmo.
***
Si potrebbe aggiungere ancora molto, come, per
esempio, la commovente storia che ci racconta Eusebio di Cesarea nella sua
storia ecclesiastica, riprendendo una tradizione che risale a Egesippo (II
secolo), secondo cui Giacomo, il «fratello del Signore», primo vescovo di
Gerusalemme e «capo» della Chiesa giudeo-cristiana, aveva sulle ginocchia una
sorta di pelle di cammello per il fatto che stava sempre in ginocchio, adorava
Dio e implorava perdono per il suo popolo (II, 23, 6). Oppure il racconto tratto
dalle senten[189]ze dei Padri del deserto, secondo cui il diavolo fu costretto
da Dio a mostrarsi a un certo abate Apollo, e il suo aspetto era nero, orribile
a vedersi, con delle membra spaventosamente magre e, soprattutto, non aveva le
ginocchia. L’incapacità a inginocchiarsi appare addirittura come
l’essenza stessa del diabolico.
Ma non voglio andare troppo in là. Vorrei
aggiungere solo un’osservazione: l’espressione con cui Luca descrive
l’atto di inginocchiarsi dei cristiani (theis ta gonata) è sconosciuta
al greco classico. Si tratta di una parola specificamente cristiana.
Con questa osservazione il cerchio si chiude là dove avevamo cominciato le
nostre riflessioni. Può forse essere vero che l’inginocchiarsi è
estraneo alla cultura moderna – appunto nella misura in cui si tratta di una
cultura che si è allontanata dalla fede e che non conosce più colui di fronte al
quale inginocchiarsi è il gesto giusto, anzi quello interiormente
necessario.
Chi impara a
credere, impara a inginocchiarsi; una fede o una liturgia che non conoscano più
l’atto di inginocchiarsi, sono ammalate in un punto centrale.
Dove questo gesto è andato perduto,
dobbiamo nuovamente apprenderlo, così da rimanere con la nostra preghiera nella
comunione degli apostoli e dei martiri, nella comunione di tutto il cosmo,
nell’unità con Gesù Cristo stesso.[190]
Tratto da Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisello
Balsamo 2001, parte IV – Forma liturgica, cap. II – Il corpo e la liturgia, n. 3
– Atteggiamenti, pp. 181-190.