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mercoledì 20 gennaio 2016

Crisi della confessione. Si torni all'antica formula

 Dagli Amici di Campari e de Maistre


di Satiricus



La situazione è grave, non c’è che dire. Vi è un limite oggettivo e storico - quello che suggerì già a Pio XII e definitivamente a Giovanni XXIII la necessità di una grande Assise della Catholica in cui svolgere critica ed autocritica dello status quo -, si riscontra cioè da anni una crisi di incidenza della Chiesa nel mondo moderno e contemporaneo. Specificamente poi è innegabile una crisi del sacramento della Confessione e del senso di peccato e conseguente bisogno di salvezza. Da parte sua il dialogo interreligioso, nella misura in cui si attardi ad affermare che tutti sarebbero figli di Dio dalla nascita e che per ciò stesso la loro salvezza sarebbe fuori discussione (salvo scelte morali particolarmente eclatanti), non aiuta certo a sanare la dimensione oggettiva della crisi. 

A ciò si aggiungano i frutti del presente pontificato, ormai più facili da vagliare, sebbene sia prudente attendere altre annate per una giudizio che si voglia fermo e certo: sembrano definitivamente tramontati i mesi dell’entusiasmo iniziale, quelli in cui un fedelissimo come Massimo Introvigne si peritava di informarci a riguardo dell’incremento di confessioni suscitato dallo stile pastorale di Sua Santità Francesco. “Che l'"effetto Francesco" abbia indotto molte persone a tornare in chiesa e a confessarsi, specie nel periodo di Pasqua, non è più solo un'impressione ma un dato di fatto. Anche in Italia. Lo ha confermato una ricerca del CESNUR, l’istituto di ricerca sulle religioni diretto dal sociologo torinese Massimo Introvigne, presentata il 15 aprile a Torino”.

Si trattasse di effetto Francesco o di effetto Benedetto XVI (leggasi a riguardo il finale dell’articolo appena citato), allo scoccare del 2016, ad Anno giubilare pienamente e saldamente avviato, altre sembrano le risposte del popolo cristiano.

I fatti sono questi. Dall’apertura dell’Anno Santo voluto da papa Francesco e in occasione delle festività natalizie del 2015 – così come da quando Jorge Mario Bergoglio siede sulla cattedra di Pietro – il numero dei fedeli che si è accostato al confessionale non è aumentato, né nei tempi ordinari, né in quelli festivi. Il trend di una progressiva, rapida diminuzione della frequenza della riconciliazione sacramentale che ha caratterizzato gli ultimi decenni non si è arrestato. Anzi: mai come in prossimità di questo Natale i confessionali della mia chiesa sono stati ampiamente disertati”. Viene scritto in una lettera pubblicata da Magister.

Ciò che turba è che i fedeli si appoggino al Magistero, o almeno alle dichiarazioni quotidiane del Pontefice, per giustificare l’uso magico della fede e l’arresto di un serio cammino interiore di conversione (che è quanto di meno antropocentrico si potesse immaginare). Sono persuaso che non siano questi gli esiti auspicati dal Papa, ma di essi il Santo Padre porta ahilui la prima responsabilità.

“Due esempi valgano per tutti. Un signore di mezza età, al quale ho chiesto, con discrezione e delicatezza, se era pentito di una ripetuta serie di peccati gravi contro il settimo comandamento "non rubare", dei quali si era accusato con una certa leggerezza e quasi scherzando sulle circostanze non certo attenuanti che li avevano accompagnati, mi ha risposto riprendendo una frase di papa Francesco: “La misericordia non conosce limiti” e mostrandosi sorpreso che ricordassi a lui la necessità del pentimento e del proposito di evitare in futuro di ricadere nello stesso peccato: “Quel che ho fatto ho fatto. Quel che farò lo deciderò quando uscirò da qui. Come la penso su ciò che ho compiuto è questione tra me e Dio. Sono qui solo per avere quello che spetta a tutti almeno a Natale: poter fare la comunione a mezzanotte!” E ha concluso parafrasando l’ormai celeberrima espressione di papa Francesco: “Chi è lei per giudicarmi?”.

Una giovane signora, alla quale avevo proposto come gesto penitenziale, legato all’assoluzione sacramentale di un grave peccato contro il quinto comandamento "non uccidere", la preghiera in ginocchio davanti al Santissimo Sacramento esposto sull’altare della chiesa e un atto di carità materiale verso un povero nella misura delle sue possibilità, mi ha risposto seccata che il papa aveva detto pochi giorni prima che “nessuno deve chiederci nulla in cambio della misericordia di Dio, perché è gratis”, e che non aveva né tempo per fermarsi in chiesa a pregare (doveva “correre a fare gli acquisti natalizi in centro città”), né soldi da dare ai poveri (“che tanto non ne hanno bisogno perché ne hanno più di noi”)”. (Ibidem)

Ecco il mio consiglio, tra il serio e il faceto. Nell’attesa che Roma parli per risolvere almeno il chaos ingeneratosi tra i fedeli, i sacerdoti più zelanti sono invitati a tornare all’antica formula assolutoria, pienamente valida e altamente istruttiva. Leggiamola come si presenta nel Rituale Romanum:

“Quando il Sacerdote vuole assolvere un penitente, dopo avergli imposto una salutare penitenza e dopo che il penitente l’ha accettata, dice dapprima:  
Misereatur tui omnipotens Deus, et dimissis peccatis tuis, perducat te ad vitam æternam. Amen.
Quindi con la mano destra elevata verso il penitente, dice:  
Indulgentiam, absolutionem, et remissionem peccatorum tuorum tribuat tibi omnipotens et misericors Dominus. Amen.
Dominus noster Jesus Christus te absolvat: et ego auctoritate ipsìus te absolvo ab omni vinculo excommunicationis, (suspensionis), et interdicti, in quantum possum, et tu ìndiges. Deinde ego te absolvo a peccatis tuis, in nomine Patris, et Filii, + et Spiritus Sancti. Amen.
Se il penitente è un laico, omette la parola suspensionis.
Il Vescovo nell’assolvere i fedeli fa tre segni di croce.
Passio Domini nostri Jesu Christi, merita beatæ Mariæ Virginis, et omnium Sanctorum, quidquid boni feceris, et mali sustinueris, sint tibi in remissionem peccatorum, augmentum gratiæ, et præmium vitæ æternæ. Amen”.

E così ci ricordiamo al contempo: che se il fedele rifiuta la giusta penitenza è lecito negargli l’assoluzione (non per ripicca, ma per trasparenza: nessuna assoluzione in assenza di contrizione); che il sacerdote pur sempre assolve nei limiti del proprio potere (in quantum possum), che sono fissati anzitutto dalla Legge Divina, con buona pace delle Conferenze Episcopali e dei Sinodi e tanto più delle riletture arbitrarie che il laicato realizza a partire da interviste del Pontefice; che peraltro, laddove ci sia reale pentimento, la Misericordia divina agisce con frutto, superando addirittura i limiti umani di confessore e penitente, la loro ignoranza, la loro pusillanimità (in quantum… tu indiges).

1 commento:

  1. La nuova formula esprime con chiarezza, "per ministerium Ecclesiae indulgentiam tibi tribuat et pacem", che il Confessore opera "in Persona Christi" e ha donato alla Chiesa Cristo il potere "ligandi atque solvendi". Le parole di assoluta essenza del Sacramento sono "Ego te absolvo". Cosi si sprimono i migliori moralisti ( ho consultato il Compendio de Teologia Moral del Beato Juan Bautista Ferreres, martire della guerra civile spagnola ) Ma anche a me e' cara l'antica formula che io stesso ho ascoltato da fanciullo " Dominus Noster Iesus Christus te absolvat et ego auctoritate Ipsius..." Ma come diceva il beato Schuster non diamo la preferenza. Ci conformiamo con il " sensus Ecclesiae".

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