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mercoledì 13 febbraio 2013

Roberto de Mattei di fronte allo smarrimento dei cattolici delle dimissioni del Papa


vaticano 

Considerazioni sull’atto di rinuncia di Benedetto XVI

di Roberto de Mattei

 L’11 febbraio, giorno della Festa della Madonna di Lourdes, il Santo Padre Benedetto XVI ha comunicato al Concistoro dei cardinali e a tutto il mondo la sua decisione di rinunziare al Pontificato. L’annuncio è stato accolto dai cardinali, «quasi del tutto increduli», «con senso di smarrimento», «come un fulmine a ciel sereno», secondo le parole subito dopo rivolte al Papa dal cardinale decano Angelo Sodano.
Se così grande è stato lo smarrimento dei cardinali, si può immaginare quanto forte sia in questi giorni il disorientamento dei fedeli, soprattutto di coloro che hanno sempre visto in Benedetto XVI un punto di riferimento e che ora si sentono in qualche modo “orfani”, se non addirittura abbandonati, di fronte alle gravissime difficoltà che affronta la Chiesa nell’ora presente.
Eppure l’ipotesi della rinuncia di un Papa al soglio pontificio non giunge del tutto inattesa. Il presidente della Conferenza Episcopale tedesca Karl Lehmann e il primate del Belgio Godfried Danneels, avevano avanzato l’ipotesi di «dimissioni» di Giovanni Paolo II, quando le sue condizioni di salute si erano aggravate. Il cardinale Ratzinger nel libro-intervista del 2010 Luce del mondo aveva detto al giornalista tedesco Peter Seewald, che se un Papa si rende conto che non è più in grado «fisicamente, psicologicamente e spiritualmente, di assolvere ai doveri del suo ufficio, allora ha il diritto e, in alcune circostanze, anche l’obbligo, di dimettersi». Nel 2010 poi, cinquanta teologi spagnoli avevano espresso la loro adesione alla Lettera aperta ai vescovi di tutto il mondo del teologo svizzero Hans Küng con queste parole: «Crediamo che il pontificato di Benedetto XVI si sia esaurito. Il Papa non ha l’età né la mentalità per rispondere adeguatamente ai gravi e urgenti problemi che la Chiesa cattolica si trova a dover affrontare. Pensiamo quindi, con il dovuto rispetto per la sua persona, che debba presentare le dimissioni dalla sua carica». E quando, tra il 2011 e il 2012, alcuni giornalisti. come Giuliano Ferrara ed Antonio Socci, avevano scritto sulle possibili dimissioni del Papa, questa ipotesi aveva suscitato tra i lettori più disapprovazione che consensi.
Sul diritto di un Papa a dimettersi, non ci sono dubbi in proposito. Il nuovo Codice di Diritto canonico disciplina l’eventualità della rinuncia del Papa nel canone 332, secondo paragrafo, con queste parole: «Se accada che il Romano Pontefice rinunzi al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinunzia sia fatta liberamente e sia manifestata ritualmente, non dunque che sia accettata da uno qualsiasi». Negli articoli 1 e 3 della costituzione apostolica del 1996 Universi Dominicis Gregis, sulla vacanza della Santa Sede, è prevista del resto la possibilità che la vacanza della Sede apostolica sia determinata non solo dalla morte del Papa, ma anche dalla sua valida rinuncia.
Nella storia non sono moltissimi gli episodi documentati di abdicazione. Il caso più noto resta quello di san Celestino V, il monaco Pietro da Morrone, eletto in Perugia il 5 luglio 1294 e incoronato a L’Aquila il 29 agosto successivo. Dopo un pontificato di solo cinque mesi, credette opportuno dimettersi, non ritenendosi all’altezza dell’ufficio assunto. Preparò quindi la sua abdicazione consultando dapprima i cardinali ed emanando poi una costituzione con la quale riconfermava la validità delle norme già stabilite da Gregorio X per la conduzione del prossimo Conclave. Il 13 dicembre a Napoli pronunciò la propria abdicazione al cospetto del collegio dei cardinali, depose le insegne e gli indumenti papali e riprese l’abito di eremita. Il 24 dicembre 1294 venne eletto Papa in sua veceBenedetto Caetani, con il nome di Bonifacio VIII. Un ulteriore caso di rinuncia papale – l’ultimo sino ad oggi – si ebbe durante lo svolgimento del Concilio di Costanza (1414-1418). Gregorio XII (1406-1415), Papa legittimo, al fine di ricomporre il Grande Scisma d’Occidente (1378-1417), inviò a Costanza il suo plenipotenziario Carlo Malatesta per rendere nota la sua volontà di ritirarsi dall’ufficio papale; le dimissioni furono ufficialmente accolte il 4 luglio 1415 dall’assemblea sinodale che contemporaneamente depose l’antipapa Benedetto XIII. Gregorio XII venne reintegrato nel Sacro Collegio col titolo di cardinale vescovo di Porto e con il primo rango dopo il Papa. Abbandonato il nome e l’abito pontificio e ripreso il nome di cardinale Angelo Correr, egli si ritirò nelle Marche come legato pontificio e morì a Recanati il 18 ottobre 1417.
Il caso di rinuncia dunque, in sé, non scandalizza: è contemplato dal diritto canonico e si è storicamente verificato nei secoli. Va notato però che il Papa può rinunciare, e talvolta ha storicamente rinunciato al Pontificato, in quanto esso è considerato un «ufficio giurisdizionale della Chiesa», non legato indelebilmente alla persona di chi lo occupa. La gerarchia apostolica esercita infatti due poteri misteriosamente uniti nelle stesse persone: la potestà di ordine e la potestà di giurisdizione (cfr. ad esempio san Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, II-IIae, q. 39, a. 3, resp.; III, q. 6. a. 2). Entrambi i poteri sono diretti a realizzare i fini peculiari della Chiesa, ma ciascuno con caratteristiche proprie, che lo distinguono profondamente dall’altro: la potestas ordinis è il potere di distribuire i mezzi della grazia divina e si riferisce all’amministrazione dei sacramenti e all’esercizio del culto ufficiale; la potestas iurisdictionis è il potere di governare l’istituto ecclesiastico e i singoli fedeli.
La potestà di ordine si distingue dalla potestà di giurisdizione non solo per diversità di natura e di oggetto, ma anche per il modo con cui è conferita, in quanto essa ha come sua proprietà di essere data con la consacrazione, cioè per mezzo di un sacramento e con l’impressione di un carattere sacro. Il possesso della potestas ordinis è assolutamente indelebile in quanto i suoi gradi non sono uffici temporanei, ma imprimono carattere in chi ne è insignito. Secondo il Codice di Diritto Canonico, una volta che un battezzato diventa diacono, presbitero o vescovo, lo è per sempre e nessuna autorità umana può cancellare tale condizione ontologica. La potestà di giurisdizione invece non è indelebile ma è temporanea e revocabile; i suoi uffici, a cui sono preposte persone fisiche, terminano con la cessazione del mandato.
Un’altra importante caratteristica della potestà di ordine è la non territorialità, poiché i gradi della gerarchia di ordine sono assolutamente indipendenti da ogni circoscrizione territoriale, almeno per quanto riguarda la validità dell’esercizio. Gli uffici della potestà di giurisdizione, al contrario, sono sempre circoscritti nello spazio ed hanno nel territorio uno degli elementi costitutivi, eccettuato quello del Supremo Pontefice, il quale non è sottoposto ad alcuna limitazione spaziale.
Nella Chiesa la potestà di giurisdizione compete, iure divino al Papa e ai Vescovi. La pienezza di questo potere risiede tuttavia solo nel Papa che, quale fondamento, sorregge tutto l’edificio ecclesiastico. In lui si trova tutto il potere pastorale, e nella Chiesa non se ne può concepire altro indipendente.
La teologia progressista sostiene invece, in nome del Concilio Vaticano II, una riforma della Chiesa, in senso sacramentale e carismatico, che oppone la potestà d’ordine alla potestà di giurisdizione, la chiesa della carità a quella del diritto, la struttura episcopale a quella monarchica. Al Papa, ridotto a primus inter pares all’interno del collegio dei vescovi spetterebbe solo una funzione etico-profetica, un primato di «onore» o di «amore», ma non di governo e di giurisdizione. In questa prospettiva è stata evocata da Hans  Küng, e da altri, l’ipotesi di un pontificato “a termine”  e non più a vita, come forma di governo richiesta dalla velocità di cambiamento del mondo moderno e dalla continua novità dei suoi problemi. «Non possiamo avere un Pontefice di 80 anni che non è più pienamente presente dal punto di vista fisico e psichico», ha dichiarato all’ emittente “Südwestrundfunk” Küng, che vede nella limitazione del mandato del Papa un passo necessario per la riforma radicale della Chiesa. Il Papa sarebbe ridotto a presidente di un Consiglio di amministrazione, ad una figura meramente arbitrale, con a fianco una struttura ecclesiastica “aperta”, quale un sinodo permanente, con poteri deliberativi.
Se però si ritiene che l’essenza del Papato sia nel potere sacramentale di ordine e non in quello supremo di giurisdizione, il Pontefice non potrebbe mai dimettersi; se lo facesse, perderebbe con la rinuncia solo l’esercizio della suprema potestà, ma non la potestà stessa, che sarebbe indelebile come l’ordinazione sacramentale da cui scaturisce   Chi ammette l’ipotesi della rinuncia deve ammettere con ciò che il Papa deriva la sua summa potestas dalla giurisdizione che esercita e non dal sacramento che riceve. La teologia progressista è dunque in contraddizione con sé stessa quando pretende di fondare il Papato sulla sua natura sacramentale, e poi rivendica le dimissioni di un Papa, che possono invece essere ammesse solo se il suo incarico è fondato sul potere di giurisdizione. Per la stessa ragione non ci potranno essere, dopo la rinuncia di Benedetto XVI, “due papi”, uno in carica e uno “emerito”, come è stato impropriamente detto. Benedetto XVI tornerà ad essere sua eminenza il cardinale Ratzinger e non potrà più esercitare prerogative, come l’infallibilità, che sono intimamente legate al potere di giurisdizione pontificio.
Il Papa dunque può dimettersi. Ma è opportuno che lo faccia? Un autore non certo “tradizionalista”, Enzo Bianchi, su “La Stampa” del 1 luglio 2002, scriveva: «Secondo la grande tradizione della chiesa d’Oriente e d’Occidente, nessun Papa, nessun patriarca, nessun vescovo dovrebbe dimettersi solo a causa del raggiungimento di un limite di età. È vero che da una trentina d’anni nella chiesa cattolica vi è una norma che invita i vescovi a offrire le proprie dimissioni al pontefice al compimento dei settantacinque anni, ed è vero che tutti i vescovi accolgono nell’obbedienza questo invito e le presentano, ed è vero anche che normalmente vengono esauditi e le dimissioni accolte. Ma questa resta una norma e una prassi recente, fissata da Paolo VI e confermata da Giovanni Paolo II: nulla esclude che in futuro possa essere rivista, dopo aver pesato vantaggi e problemi che essa ha prodotto in questi decenni di applicazione». La norma per cui i vescovi si dimettono a 75 anni dalle loro diocesi è una fase recente della storia della Chiesa, che sembra contraddire le parole di san Paolo, per cui il Pastore è nominato «ad convivendum et ad commoriendum» (2 Cor 7, 3), per vivere e per morire accanto al suo gregge. La vocazione di un Pastore, come quella di ogni battezzato, vincola infatti non fino ad una certa età, e ad una buona salute, ma fino alla morte.
Sotto questo aspetto la rinuncia dal pontificato di Benedetto XVI appare come un gesto legittimo dal punto di vista teologico e canonico, ma sul piano storico, in assoluta discontinuità con la tradizione e la prassi della Chiesa. Dal punto di vista di quelle che potrebbero essere le conseguenze si tratta di un gesto non semplicemente “innovativo”, ma radicalmente «rivoluzionario», come lo ha definito Eugenio Scalfari su “La Repubblica” del 12 febbraio. L’immagine dell’istituzione pontificia, agli occhi dell’opinione pubblica di tutto il mondo, viene infatti spogliata della sua sacralità per essere consegnata ai criteri di giudizio della modernità. Non a caso, sul “Corriere della Sera” dello stesso giorno, Massimo Franco parla del «sintomo estremo, finale, irrevocabile della crisi di un sistema di governo e di una forma di papato».
Non si può fare un paragone né con Celestino V, che si dimise dopo essere stato strappato a forza dalla sua cella eremitica, né con Gregorio XII, che fu costretto a sua volta a rinunciare per risolvere la gravissima questione del Grande Scisma d’Occidente. Si trattava di casi di eccezione. Ma qual è l’eccezione nel gesto di Benedetto XVI? La ragione, ufficiale, scolpita nelle sue parole dell’11 febbraio esprime, più che l’eccezione, la normalità: «Nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia del’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità».
Non ci troviamo di fronte ad una grave inabilità, come era il caso di Giovanni Paolo II nel suo ultimo scorcio di pontificato. Le facoltà intellettuali di Benedetto XVI sono pienamente integre, come ha dimostrato in una delle sue ultime e più significative meditazioni al Seminario Romano, e la sua salute è «complessivamente buona», come ha precisato il portavoce dalla Santa Sede, padre Federico Lombardi, secondo cui però il Papa ha avvertito negli ultimi tempi «lo squilibrio tra i compiti, tra i problemi da affrontare e le forze di cui si sente di non disporre».
Eppure, fin dal momento dell’elezione, ogni pontefice prova un comprensibile sentimento di inadeguatezza, avvertendo la sproporzione tra le capacità personali e il peso dell’incarico a cui è chiamato. Chi può dire di essere in grado di poter sostenere con le sue sole forze il munus di Vicario di Cristo? Lo Spirito Santo assiste però il Papa non solo al momento dell’elezione, ma fino alla morte, in ogni momento, anche il più difficile, del suo pontificato. Oggi lo Spirito Santo viene spesso invocato a sproposito, come quando si pretende che esso copra ogni atto e ogni parola di un Papa o di un Concilio. In questi giorni però è il grande assente dai commenti sui mass-media che valutano il gesto di Benedetto XVI seguendo un criterio puramente umano, come se la Chiesa fosse una multinazionale, guidata in termini di pura efficienza, a prescindere da ogni influsso soprannaturale.
Ma c’è da chiedersi: in duemila anni di storia, quanti sono i Papi che hanno regnato in buona salute e non hanno avvertito il declino delle forze e non hanno sofferto per malattie e prove morali di ogni genere? Il benessere fisico non è mai stato un criterio di governo della Chiesa. Lo sarà a partire da Benedetto XVI? Un cattolico non può non porsi queste domande e se non se le pone, esse saranno poste dai fatti, come nel prossimo conclave, quando la scelta del successore di Benedetto si orienterà fatalmente verso un cardinale giovane e nel pieno delle forze perché possa essere ritenuto adeguato alla grave missione che lo attende. A meno che il cuore del problema non sia in quelle«questioni di grande rilevanza per la vita della fede», a cui ha fatto riferimento il Pontefice, e che potrebbero alludere alla situazione di ingovernabilità in cui sembra trovarsi oggi la Chiesa.
Sarebbe poco prudente, sotto questo aspetto, considerare già “chiuso” il pontificato di Benedetto XVI, dedicandosi a prematuri bilanci, prima di attendere la fatidica scadenza da lui annunciata: la sera del 28 febbraio 2013, una data che rimarrà impressa nella storia della Chiesa. Prima, ma anche dopo quella data, Benedetto XVI potrebbe essere ancora protagonista di nuovi e imprevisti scenari. Il Papa infatti ha annunciato le sue dimissioni, ma non il suo silenzio, e la sua scelta gli restituisce una libertà di cui forse si sentiva privato. Che cosa dirà e farà Benedetto XVI, o il cardinale Ratzinger, nei prossimi giorni, settimane e mesi? E soprattutto, chi guiderà, e in che maniera, la navicella di Pietro nelle nuove tempeste che inevitabilmente l’attendono?

Fonte:
http://www.corrispondenzaromana.it/considerazioni-sullatto-di-rinuncia-di-benedetto-xvi/