di MASSIMO VIGLIONE
Secondo il calendario liturgico cristiano, stiamo vivendo i giorni di Pentecoste, il “battesimo della Chiesa”, come lo ha definito qualche giorno fa il Santo Padre. Proprio in questi giorni però stiamo assistendo a una dirompente crisi delle gerarchie della Chiesa, quelle specificamente “romane”. Ma questa crisi non è “romana”; è universale, come la Chiesa. È la società umana che è in crisi (esiste qualche campo dell’attività umana che non sia in crisi?), sembra che tutto stia per crollare intorno a noi, specie in Occidente, specie in Europa, soprattutto in Italia.
Ma la crisi è universale anzitutto all’interno della Chiesa stessa. Pensare che il peggio stia a Roma, in Vaticano, è pura illusione. Le gerarchie di altri Paesi, specie europei e americani, così come il semplice clero e i religiosi, vivono una crisi ben più profonda e grave di quella specificamente vaticana: non mi riferisco solo all’aspetto morale (scandali, pedofilia, latrocini, miserie umane), ma anzitutto alla spaventosa ribellione teologica e liturgica che ovunque da decenni, come un cancro incontenibile, sta infettando il corpo mistico di Cristo nella sua parte umana.
Tutti lo sanno, pochi lo dicono: decine di vescovi, cardinali, teologi e pseudotali, religiosi cialtroni, suore femministe, preti sindacalisti e insurrezionalisti, molto poco hanno ormai conservato del Depositum Fidei, anzi, lo contrastano quotidianamente, aderendo, in differenti maniere e a differenti livelli, al mondo laicista e anticristiano dei loro rispettivi Paesi.
Parecchi lo sanno, nessuno lo dice: Austria, Germania, Francia, Belgio, Canada, parte degli USA, zone dell’America Latina (e altrove): in questi Paesi per una consistente parte del clero lo scisma da Roma non è più solo una prospettiva concreta, è ormai una realtà quotidiana, di cui ogni tanto giungono echi devastanti. Molto probabilmente, c’è chi attende solo di vedere chi sarà il futuro pontefice per compiere il passo definitivo e ufficiale della rottura con Roma.
E a Roma, che tutti e tutto sanno, dove dovrebbero essere tutti uniti intorno al Santo Padre per fronteggiare la principale vera terribile minaccia che sovrasta la Chiesa, quella dello sgretolamento teologico e dottrinale, quella dello scisma ripetuto e mondiale, che fanno? Fanno Vatileaks. Fanno Kara hiri. In un accecamento collettivo generale da ultimi giorni di Costantinopoli.
Sembra che un destino avverso rovini i festeggiamenti delle grandi “conquiste della modernità” in Italia.
Nel 2011 siamo stati costretti a festeggiare i 150 anni dell’unificazione statuale italiana con una caterva di retorica patriottarda degna del miglior fascismo ventennale. In questo stesso anno, negli stessi giorni dei festeggiamenti e delle chiacchiere, poteri sovrastatuali e incogniti hanno spodestato il governo eletto dal popolo italiano e posto un nuovo governo non eletto da alcun italiano, sancendo di fatto ciò che già da decenni stava avvenendo sotto i nostri occhi: la fine progressiva della sovranità nazionale degli italiani sul loro Stato, quindi dell’Italia sovrana. Vale a dire, il fallimento evidente dello scopo dichiarato del Risorgimento.
Il 2012 segna i 50 anni dal Concilio Vaticano II. Ma sembra che la Chiesa stia vivendo, proprio in questi giorni, momenti di dissoluzione spirituale, morale e anche politico-strutturale. A 50 anni dal Concilio viviamo una crisi devastante, che solo la certezza delle parole di Cristo stesso (“… e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa”) può aiutarci ad affrontare e superare.
In un suo articolo di qualche giorno fa, il prof. Roberto de Mattei ha denunciato il legame ideale e in qualche modo umano che esiste fra la crisi attuale del clero e della Chiesa stessa e la grande opera di rinnovamento voluta dal Concilio (sintetizzata nell’Enciclica Gaudium et Spes) e concretata in maniera ancor più radicale dei suoi presupposti negli anni del post-concilio.
Qualcuno si è subito lamentato, asserendo che non vi sarebbe alcun legame fra gli errori degli uomini attuali e il Concilio e che non si può incolpare il Concilio di tutto. Asserendo che in tutti i tempi gli uomini di Chiesa “ne hanno combinate di tutti i colori”, che non vi è nulla di nuovo sotto al sole.
Queste osservazioni sono in sé vere, ovviamente: chiunque conosca anche poco la storia della Chiesa, sa benissimo quanto marcio umano vi sia stato anche nei secoli passati, al punto da far divulgare la celebre asserzione secondo la quale la prima prova della indistruttibilità della Chiesa risiede proprio nel fatto che essa resiste perfino alle malefatte dei suoi uomini.
Ma se sono vere, non sono però affatto sufficienti a spiegare i nostri giorni. Oggi, in rapporto alla Chiesa dei secoli trascorsi (la famigerata “Chiesa Costantiniana”, cioè in realtà la Chiesa dei più grandi Pontefici, teologi, santi, fondatori e mistici di tutti i tempi), c’è qualcosa di differente, di drammaticamente e profondamente differente dal passato. Oltre al fatto che nel passato vi erano, oltre a grandi peccatori di ogni genere, anche, come appena detto, schiere di santi e teologi a tutt’oggi insuperati e se si vuole inimmaginabili per i nostri giorni, non si può non notare che la differenza essenziale consiste proprio nel “fatto innovativo”, nel “quid novi”, del Concilio in sé.
Non è assolutamente mia intenzione voler entrare nella vexata quaestio della “ermeneutica della continuità”. Costituisce evidenza storica e teologica il fatto che la gran parte dei documenti conciliari possono e devono essere letti alla luce della continuità della millenaria Tradizione della Chiesa, come Benedetto XVI ci ha chiaramente indicato. Ma costituisce altrettanta evidenza storica e teologica (e pure liturgica) il fatto che – per un numero forse minoritario ma sicuramente rumoroso, potente e prepotente dei padri conciliari durante, e di decine e decine di ecclesiastici e teologi dopo il Concilio – questo stesso (e parte dei suoi documenti) doveva divenire momento di rottura definitiva con quella che veniva ormai sancita come la “Chiesa del passato”, con il suo spirito, con la sua tradizione, la sua liturgia, la sua lingua, con la sua storia fatta anzitutto di pecche di cui vergognarsi.
Se l’ermeneutica della continuità può essere necessaria per la comprensione “positiva” del Concilio, la comprensione piena e reale di questo non sarebbe possibile chiudendo gli occhi sulla realtà dei fatti dei decenni post-conciliari, ancora in corso. Realtà che noi tutti, al di là di quello che diciamo, scriviamo e facciamo, conosciamo molto bene (la viviamo ogni giorno).
L’immenso, devastante, sconcertante, tentativo di questi ultimi 45 anni di scardinare non solo tutta la tradizione della Chiesa di sempre ma anche la sua stessa dottrina, teologia e perfino struttura umana, non può non aver pesato e pesare drammaticamente sui cristiani odierni, a partire proprio dal clero stesso.
Sappiamo tutti molto bene (senza dover riprodurre un elenco interminabile di guai ed eresie sia a livello teologico che pratico) che tutto quanto accaduto finora dopo il Concilio non era mai avvenuto prima in 19 secoli di storia della Chiesa. Mai era accaduto che gran parte della Chiesa sentisse tutto questo bisogno incontrollabile di “novità”: “nuova Chiesa”, “nuova teologia”, nuova morale, nuova politica, “nuova Messa”, nuova lingua, nuova architettura, nuova musica, per un “nuovo uomo” e una “nuova società”. Insomma, proprio quel “prurito di novità” sempre accoratamente denunciato dai pontefici precedenti.
Mai era accaduto tutto questo e per di più in poche decine di anni. Inutile nasconderselo: ciò costituisce il vero “quid novi” dello spirito conciliare e post-conciliare. Se è vero che il Concilio, come insegna Benedetto XVI, deve essere letto alla luce dell’intera Tradizione cattolica, è altrettanto vero che i decenni post-conciliari sono stati infetti da germi eretici e sovversivi che hanno aperto la porta (anzi, “le finestre”) alla dissoluzione teologica, spirituale e morale (e quindi anche “comportamentale”) di cui tutti siamo vittime.
E non si può pensare che tutto questo non pesi sui comportamenti del clero odierno.
Se è vero che in tutti i tempi gli uomini di Chiesa si sono macchiati di gravi colpe, è altrettanto vero che risolvere la situazione odierna con il sorriso ironico di chi vuol far finta di essere troppo smaliziato dalla vita per scandalizzarsi (facendo quindi passare gli altri per ingenui o visionari) è non solo troppo comodo, ma troppo poco serio. Gli uomini sono sempre peccatori, in tutti e tempi e luoghi, ma anche nel peccato risentono dello spirito del loro tempo. “Chi semina vento, raccoglie tempesta”, è sentenziato nelle Sacre Scritture e insegnato da Nostro Signore.
Siamo a Pentecoste. Spirito di Vita, Spirito di Amore, Spirito di Verità. Di Verità, appunto. Iniziamo a dirci la verità, senza infingimenti, che ormai è tempo. L’ottimismo pentecostale di Giovanni XXIII (“Una nuova Pentecoste attende la Chiesa”, e da questa ottimistica previsione partì il Concilio Vaticano II) fu subito drammaticamente smentito come tutti sappiamo dalla realtà dei fatti, al punto che solo dopo dieci anni, a Concilio finito e a Sessantotto in corso, il suo successore, Paolo VI, dovette ricredersi amaramente, ammettendo pubblicamente che “il fumo di Satana” stava entrando dalle finestre della Chiesa, per la quale sembrava ormai essersi avviato – parole sue – un processo di “autodissoluzione” (e tale funesta dichiarazione più volte in altri termini è stata ribadita sia da Giovanni Paolo II che da Benedetto XVI). Un ottimismo irrealistico che si è rivelato una sorta di suicidio assistito del lato umano della Chiesa.
È innegabilmente evidente che l’attuale crisi ha le sue radici anche (non solo) nello spirito di innovazione buonista partito dal Concilio Vaticano II e accresciutosi senza fine nei decenni post-conciliari. Se Dio perdona tutto e tutti, se il mondo in fondo è bello e buono, se dobbiamo divenire graditi al mondo, se dobbiamo smettere di denunciare il male e il peccato, allora il cambiamento diviene anche, come prima detto, antropologico. E riguarda anche gli stessi uomini di Chiesa. Anzi, loro per primi.
Ciò costituisce oggi l’immane e drammatica differenza con il passato, e rende gli errori di oggi più pericolosi di quelli di ieri, perché, come ha scritto quel grandissimo maestro di spiritualità che fu il padre certosino François Pollien, «L’indebolimento della verità porta in mezzo agli uomini la scomparsa della santità» (La vita interiore semplificata, 173).
Un cambiamento così radicato e pervasivo che gli ultimi due pontefici, in oltre 30 anni, poco hanno potuto fare per contrastarlo, nonostante i loro perseveranti e illuminanti sforzi, i loro pressanti richiami (scritti e orali), il loro indiscusso esempio personale fornito, le loro continue inascoltate denunce, i loro (sebbene pochi a dire il vero) provvedimenti disciplinari.
Per festeggiare veramente e positivamente i 50 anni del Concilio Vaticano II, occorre al contrario ritrovare e riproporre quanto di esso, anzitutto nei documenti dottrinali ufficiali, era realmente in “continuità” con la Tradizione della Chiesa di sempre, dell’unica immutabile Chiesa di Gesù Cristo Dio: il Concilio Vaticano II, pastorale non dogmatico, acquista valore solo in ciò per cui (e nella misura in cui) è indissolubilmente legato alla Tradizione perenne delle verità immutabili insegnate dalla Chiesa in tutti i tempi e in tutti i luoghi, in primis dai Papi. E questo non solo a livello teologico, ma anche mentale e comportamentale.
Al contrario di quanto affermano i sostenitori della necessità di un “Concilio Vaticano III” (che ci porterebbe, nelle loro speranze, alle estreme conseguenze di quanto sopra denunciato e quindi alla rovina definitiva), solo ritrovando, con l’aiuto dello Spirito Santo, quello spirito di fede vera e disinteressata, quell’amore sincero alla Chiesa di sempre, ai Papi, alla Tradizione cattolica, alla civiltà cattolica millenaria, che tanti santi hanno avuto nel corso dei secoli trascorsi, solo rivivendo con rinnovata adesione il Depositum Fidei che i nostri antenati ci hanno lasciato intatto dai tempi degli apostoli, solo riscoprendo pienamente l’immutabile e sempre nuovo spirito della Chiesa “magistra gentium”, potremo vivere non una “nuova Pentecoste” per una “nuova Chiesa”, ma un rinnovamento della nostra adesione all’unica Pentecoste, necessario per ritrovare le fila del nostro amore a Cristo e del nostro servizio alla sua unica Chiesa di sempre.
È questa azione invincibile dello Spirito Santo, immutabile in eterno, che nell’ora delle tenebre più nere ci fa già intravedere la Stella del Mattino, che nelle sue apparizioni degli ultimi due secoli ci ha preannunciato questi terribili giorni, ciò che ne seguirà, come anche il trionfo finale del suo Cuore Immacolato nella storia. È questa azione invincibile dello Spirito Santo che ci fa vedere da un lato l’accecamento di tanti uomini di Chiesa che hanno tradito se stessi e il loro Signore, ma dall’altro anche la viva fede di tanti ecclesiastici e religiosi, uomini e donne, noti o sconosciuti, nel mondo o in clausura, fedeli ogni giorno allo spirito della loro chiamata: questi non mancano, tutt’altro, vivono silenziosi e laboriosi in ogni parte del mondo, anche in Vaticano, e a loro deve andare tutto il nostro appoggio spirituale e materiale.
È questa azione invincibile dello Spirito Santo che ci fa vedere, negli ultimi anni, dopo decenni di svuotamento di chiese, di deviazione teologica e spirituale, tra le ciarle eretiche dei dotti e dei sapienti propalate nei loro disertati convegni, nelle loro sovversive riviste e – purtroppo – nei seminari ai giovani in formazione, milioni di fedeli laici popolare ogni giorno i santuari più importanti del mondo, rosario alla mano, per ore in ginocchio dinanzi a Cristo Sacramento, alla ricerca della verità nella carità e nell’umiltà, o centinaia di migliaia di uomini e donne marciare in difesa della vita contro la cultura della morte, segno inequivocabile, come detto, che l’alba non è lontana, e che, ancora una volta, Cristo vincerà tramite gli umili.
Tutto questo richiede il nostro forte sostegno agli sforzi che il Papa compie in tal senso, e l’espressione della nostra piena solidarietà alla sua persona in questi difficilissimi giorni. Che passeranno, però, perché, accada quel che accada, «Portae Inferi non praevalebunt».
Secondo il calendario liturgico cristiano, stiamo vivendo i giorni di Pentecoste, il “battesimo della Chiesa”, come lo ha definito qualche giorno fa il Santo Padre. Proprio in questi giorni però stiamo assistendo a una dirompente crisi delle gerarchie della Chiesa, quelle specificamente “romane”. Ma questa crisi non è “romana”; è universale, come la Chiesa. È la società umana che è in crisi (esiste qualche campo dell’attività umana che non sia in crisi?), sembra che tutto stia per crollare intorno a noi, specie in Occidente, specie in Europa, soprattutto in Italia.
Ma la crisi è universale anzitutto all’interno della Chiesa stessa. Pensare che il peggio stia a Roma, in Vaticano, è pura illusione. Le gerarchie di altri Paesi, specie europei e americani, così come il semplice clero e i religiosi, vivono una crisi ben più profonda e grave di quella specificamente vaticana: non mi riferisco solo all’aspetto morale (scandali, pedofilia, latrocini, miserie umane), ma anzitutto alla spaventosa ribellione teologica e liturgica che ovunque da decenni, come un cancro incontenibile, sta infettando il corpo mistico di Cristo nella sua parte umana.
Tutti lo sanno, pochi lo dicono: decine di vescovi, cardinali, teologi e pseudotali, religiosi cialtroni, suore femministe, preti sindacalisti e insurrezionalisti, molto poco hanno ormai conservato del Depositum Fidei, anzi, lo contrastano quotidianamente, aderendo, in differenti maniere e a differenti livelli, al mondo laicista e anticristiano dei loro rispettivi Paesi.
Parecchi lo sanno, nessuno lo dice: Austria, Germania, Francia, Belgio, Canada, parte degli USA, zone dell’America Latina (e altrove): in questi Paesi per una consistente parte del clero lo scisma da Roma non è più solo una prospettiva concreta, è ormai una realtà quotidiana, di cui ogni tanto giungono echi devastanti. Molto probabilmente, c’è chi attende solo di vedere chi sarà il futuro pontefice per compiere il passo definitivo e ufficiale della rottura con Roma.
E a Roma, che tutti e tutto sanno, dove dovrebbero essere tutti uniti intorno al Santo Padre per fronteggiare la principale vera terribile minaccia che sovrasta la Chiesa, quella dello sgretolamento teologico e dottrinale, quella dello scisma ripetuto e mondiale, che fanno? Fanno Vatileaks. Fanno Kara hiri. In un accecamento collettivo generale da ultimi giorni di Costantinopoli.
Sembra che un destino avverso rovini i festeggiamenti delle grandi “conquiste della modernità” in Italia.
Nel 2011 siamo stati costretti a festeggiare i 150 anni dell’unificazione statuale italiana con una caterva di retorica patriottarda degna del miglior fascismo ventennale. In questo stesso anno, negli stessi giorni dei festeggiamenti e delle chiacchiere, poteri sovrastatuali e incogniti hanno spodestato il governo eletto dal popolo italiano e posto un nuovo governo non eletto da alcun italiano, sancendo di fatto ciò che già da decenni stava avvenendo sotto i nostri occhi: la fine progressiva della sovranità nazionale degli italiani sul loro Stato, quindi dell’Italia sovrana. Vale a dire, il fallimento evidente dello scopo dichiarato del Risorgimento.
Il 2012 segna i 50 anni dal Concilio Vaticano II. Ma sembra che la Chiesa stia vivendo, proprio in questi giorni, momenti di dissoluzione spirituale, morale e anche politico-strutturale. A 50 anni dal Concilio viviamo una crisi devastante, che solo la certezza delle parole di Cristo stesso (“… e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa”) può aiutarci ad affrontare e superare.
In un suo articolo di qualche giorno fa, il prof. Roberto de Mattei ha denunciato il legame ideale e in qualche modo umano che esiste fra la crisi attuale del clero e della Chiesa stessa e la grande opera di rinnovamento voluta dal Concilio (sintetizzata nell’Enciclica Gaudium et Spes) e concretata in maniera ancor più radicale dei suoi presupposti negli anni del post-concilio.
Qualcuno si è subito lamentato, asserendo che non vi sarebbe alcun legame fra gli errori degli uomini attuali e il Concilio e che non si può incolpare il Concilio di tutto. Asserendo che in tutti i tempi gli uomini di Chiesa “ne hanno combinate di tutti i colori”, che non vi è nulla di nuovo sotto al sole.
Queste osservazioni sono in sé vere, ovviamente: chiunque conosca anche poco la storia della Chiesa, sa benissimo quanto marcio umano vi sia stato anche nei secoli passati, al punto da far divulgare la celebre asserzione secondo la quale la prima prova della indistruttibilità della Chiesa risiede proprio nel fatto che essa resiste perfino alle malefatte dei suoi uomini.
Ma se sono vere, non sono però affatto sufficienti a spiegare i nostri giorni. Oggi, in rapporto alla Chiesa dei secoli trascorsi (la famigerata “Chiesa Costantiniana”, cioè in realtà la Chiesa dei più grandi Pontefici, teologi, santi, fondatori e mistici di tutti i tempi), c’è qualcosa di differente, di drammaticamente e profondamente differente dal passato. Oltre al fatto che nel passato vi erano, oltre a grandi peccatori di ogni genere, anche, come appena detto, schiere di santi e teologi a tutt’oggi insuperati e se si vuole inimmaginabili per i nostri giorni, non si può non notare che la differenza essenziale consiste proprio nel “fatto innovativo”, nel “quid novi”, del Concilio in sé.
Non è assolutamente mia intenzione voler entrare nella vexata quaestio della “ermeneutica della continuità”. Costituisce evidenza storica e teologica il fatto che la gran parte dei documenti conciliari possono e devono essere letti alla luce della continuità della millenaria Tradizione della Chiesa, come Benedetto XVI ci ha chiaramente indicato. Ma costituisce altrettanta evidenza storica e teologica (e pure liturgica) il fatto che – per un numero forse minoritario ma sicuramente rumoroso, potente e prepotente dei padri conciliari durante, e di decine e decine di ecclesiastici e teologi dopo il Concilio – questo stesso (e parte dei suoi documenti) doveva divenire momento di rottura definitiva con quella che veniva ormai sancita come la “Chiesa del passato”, con il suo spirito, con la sua tradizione, la sua liturgia, la sua lingua, con la sua storia fatta anzitutto di pecche di cui vergognarsi.
Se l’ermeneutica della continuità può essere necessaria per la comprensione “positiva” del Concilio, la comprensione piena e reale di questo non sarebbe possibile chiudendo gli occhi sulla realtà dei fatti dei decenni post-conciliari, ancora in corso. Realtà che noi tutti, al di là di quello che diciamo, scriviamo e facciamo, conosciamo molto bene (la viviamo ogni giorno).
L’immenso, devastante, sconcertante, tentativo di questi ultimi 45 anni di scardinare non solo tutta la tradizione della Chiesa di sempre ma anche la sua stessa dottrina, teologia e perfino struttura umana, non può non aver pesato e pesare drammaticamente sui cristiani odierni, a partire proprio dal clero stesso.
Sappiamo tutti molto bene (senza dover riprodurre un elenco interminabile di guai ed eresie sia a livello teologico che pratico) che tutto quanto accaduto finora dopo il Concilio non era mai avvenuto prima in 19 secoli di storia della Chiesa. Mai era accaduto che gran parte della Chiesa sentisse tutto questo bisogno incontrollabile di “novità”: “nuova Chiesa”, “nuova teologia”, nuova morale, nuova politica, “nuova Messa”, nuova lingua, nuova architettura, nuova musica, per un “nuovo uomo” e una “nuova società”. Insomma, proprio quel “prurito di novità” sempre accoratamente denunciato dai pontefici precedenti.
Mai era accaduto tutto questo e per di più in poche decine di anni. Inutile nasconderselo: ciò costituisce il vero “quid novi” dello spirito conciliare e post-conciliare. Se è vero che il Concilio, come insegna Benedetto XVI, deve essere letto alla luce dell’intera Tradizione cattolica, è altrettanto vero che i decenni post-conciliari sono stati infetti da germi eretici e sovversivi che hanno aperto la porta (anzi, “le finestre”) alla dissoluzione teologica, spirituale e morale (e quindi anche “comportamentale”) di cui tutti siamo vittime.
E non si può pensare che tutto questo non pesi sui comportamenti del clero odierno.
Se è vero che in tutti i tempi gli uomini di Chiesa si sono macchiati di gravi colpe, è altrettanto vero che risolvere la situazione odierna con il sorriso ironico di chi vuol far finta di essere troppo smaliziato dalla vita per scandalizzarsi (facendo quindi passare gli altri per ingenui o visionari) è non solo troppo comodo, ma troppo poco serio. Gli uomini sono sempre peccatori, in tutti e tempi e luoghi, ma anche nel peccato risentono dello spirito del loro tempo. “Chi semina vento, raccoglie tempesta”, è sentenziato nelle Sacre Scritture e insegnato da Nostro Signore.
Siamo a Pentecoste. Spirito di Vita, Spirito di Amore, Spirito di Verità. Di Verità, appunto. Iniziamo a dirci la verità, senza infingimenti, che ormai è tempo. L’ottimismo pentecostale di Giovanni XXIII (“Una nuova Pentecoste attende la Chiesa”, e da questa ottimistica previsione partì il Concilio Vaticano II) fu subito drammaticamente smentito come tutti sappiamo dalla realtà dei fatti, al punto che solo dopo dieci anni, a Concilio finito e a Sessantotto in corso, il suo successore, Paolo VI, dovette ricredersi amaramente, ammettendo pubblicamente che “il fumo di Satana” stava entrando dalle finestre della Chiesa, per la quale sembrava ormai essersi avviato – parole sue – un processo di “autodissoluzione” (e tale funesta dichiarazione più volte in altri termini è stata ribadita sia da Giovanni Paolo II che da Benedetto XVI). Un ottimismo irrealistico che si è rivelato una sorta di suicidio assistito del lato umano della Chiesa.
È innegabilmente evidente che l’attuale crisi ha le sue radici anche (non solo) nello spirito di innovazione buonista partito dal Concilio Vaticano II e accresciutosi senza fine nei decenni post-conciliari. Se Dio perdona tutto e tutti, se il mondo in fondo è bello e buono, se dobbiamo divenire graditi al mondo, se dobbiamo smettere di denunciare il male e il peccato, allora il cambiamento diviene anche, come prima detto, antropologico. E riguarda anche gli stessi uomini di Chiesa. Anzi, loro per primi.
Ciò costituisce oggi l’immane e drammatica differenza con il passato, e rende gli errori di oggi più pericolosi di quelli di ieri, perché, come ha scritto quel grandissimo maestro di spiritualità che fu il padre certosino François Pollien, «L’indebolimento della verità porta in mezzo agli uomini la scomparsa della santità» (La vita interiore semplificata, 173).
Un cambiamento così radicato e pervasivo che gli ultimi due pontefici, in oltre 30 anni, poco hanno potuto fare per contrastarlo, nonostante i loro perseveranti e illuminanti sforzi, i loro pressanti richiami (scritti e orali), il loro indiscusso esempio personale fornito, le loro continue inascoltate denunce, i loro (sebbene pochi a dire il vero) provvedimenti disciplinari.
Per festeggiare veramente e positivamente i 50 anni del Concilio Vaticano II, occorre al contrario ritrovare e riproporre quanto di esso, anzitutto nei documenti dottrinali ufficiali, era realmente in “continuità” con la Tradizione della Chiesa di sempre, dell’unica immutabile Chiesa di Gesù Cristo Dio: il Concilio Vaticano II, pastorale non dogmatico, acquista valore solo in ciò per cui (e nella misura in cui) è indissolubilmente legato alla Tradizione perenne delle verità immutabili insegnate dalla Chiesa in tutti i tempi e in tutti i luoghi, in primis dai Papi. E questo non solo a livello teologico, ma anche mentale e comportamentale.
Al contrario di quanto affermano i sostenitori della necessità di un “Concilio Vaticano III” (che ci porterebbe, nelle loro speranze, alle estreme conseguenze di quanto sopra denunciato e quindi alla rovina definitiva), solo ritrovando, con l’aiuto dello Spirito Santo, quello spirito di fede vera e disinteressata, quell’amore sincero alla Chiesa di sempre, ai Papi, alla Tradizione cattolica, alla civiltà cattolica millenaria, che tanti santi hanno avuto nel corso dei secoli trascorsi, solo rivivendo con rinnovata adesione il Depositum Fidei che i nostri antenati ci hanno lasciato intatto dai tempi degli apostoli, solo riscoprendo pienamente l’immutabile e sempre nuovo spirito della Chiesa “magistra gentium”, potremo vivere non una “nuova Pentecoste” per una “nuova Chiesa”, ma un rinnovamento della nostra adesione all’unica Pentecoste, necessario per ritrovare le fila del nostro amore a Cristo e del nostro servizio alla sua unica Chiesa di sempre.
È questa azione invincibile dello Spirito Santo, immutabile in eterno, che nell’ora delle tenebre più nere ci fa già intravedere la Stella del Mattino, che nelle sue apparizioni degli ultimi due secoli ci ha preannunciato questi terribili giorni, ciò che ne seguirà, come anche il trionfo finale del suo Cuore Immacolato nella storia. È questa azione invincibile dello Spirito Santo che ci fa vedere da un lato l’accecamento di tanti uomini di Chiesa che hanno tradito se stessi e il loro Signore, ma dall’altro anche la viva fede di tanti ecclesiastici e religiosi, uomini e donne, noti o sconosciuti, nel mondo o in clausura, fedeli ogni giorno allo spirito della loro chiamata: questi non mancano, tutt’altro, vivono silenziosi e laboriosi in ogni parte del mondo, anche in Vaticano, e a loro deve andare tutto il nostro appoggio spirituale e materiale.
È questa azione invincibile dello Spirito Santo che ci fa vedere, negli ultimi anni, dopo decenni di svuotamento di chiese, di deviazione teologica e spirituale, tra le ciarle eretiche dei dotti e dei sapienti propalate nei loro disertati convegni, nelle loro sovversive riviste e – purtroppo – nei seminari ai giovani in formazione, milioni di fedeli laici popolare ogni giorno i santuari più importanti del mondo, rosario alla mano, per ore in ginocchio dinanzi a Cristo Sacramento, alla ricerca della verità nella carità e nell’umiltà, o centinaia di migliaia di uomini e donne marciare in difesa della vita contro la cultura della morte, segno inequivocabile, come detto, che l’alba non è lontana, e che, ancora una volta, Cristo vincerà tramite gli umili.
Tutto questo richiede il nostro forte sostegno agli sforzi che il Papa compie in tal senso, e l’espressione della nostra piena solidarietà alla sua persona in questi difficilissimi giorni. Che passeranno, però, perché, accada quel che accada, «Portae Inferi non praevalebunt».
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