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mercoledì 16 maggio 2012

La strana diplomazia della Commissione Ecclesia Dei


La notizia che abbiamo ieri riportato, inerente un conato censorio piuttosto pesante nei confronti di Disputationes Theologicae (blog gestito da esponenti dell'Istituto Buon Pastore, ma non voce ufficiale di quest'ultimo), non è che l'ultimo capitolo di un comportamento non del tutto comprensibile della pontificia commissione Ecclesia Dei.

Sembra che i rapporti tra alcuni istituti tradizionali e la Commissione creata per gestirli non siano così buoni come per il passato, per usare l'espressione con cui Napoleone III annunziava all'ambasciatore austriaco la seconda guerra d'indipendenza.

Ricorderete che, appena un mese fa, una lettera di mons. Pozzo all'abbé Laguerie, superiore del Buon Pastore, se la prendeva col fatto che l'Istituto considerasse la Messa tradizionale suo "rito esclusivo" e proponeva di sostituire quest'espressione, pur presente negli statuti, con quella assai più ambigua di "rito proprio". Non solo: benché tali statuti consacrino il diritto di critica "seria e costruttiva" dei testi del Concilio, la lettera ingiungeva che "più che su una critica, sia pure “seria e costruttiva”, del Vaticano II, gli sforzi dei formatori dovranno volgersi alla trasmissione dell’integralità del patrimonio della Chiesa, insistendo sull’ermeneutica del rinnovamento nella continuità e prendendo come base l’integrità della dottrina cattolica esposta nel Catechismo della Chiesa Cattolica".

Analoghi concetti sono contenuti nella versione originaria del Preambolo dottrinale che l'Ecclesia Dei e la Congregazione per la Dottrina della Fede hanno allungato a mons. Fellay lo scorso 14 settembre. Che cosa conteneva quel famoso Preambolo? Pensiamo ormai di poterlo dire apertamente: insieme ad alcune ottime cose, come l'affermazione della criticabilità dei testi conciliari, c'è anche il riconoscimento del valore vincolante del codice di diritto canonico del 1983 (e fin qui: sarebbe ben difficile dare il riconoscimento canonico a un ente che pretendesse l'applicazione del codice pio-benedettino del 1917!), ma pure il riconoscimento sia della legalità della nuova Messa, sia dei testi del Concilio Vaticano II, interpretati secondo la Tradizione, ossia come riportati dal Catechismo della Chiesa Cattolica di Giovanni Paolo II.

Ora, chiunque abbia un minimo di conoscenza e frequentazione degli ambienti tradizionalisti (FSSPX o IBP) sa che sollevare questioni del genere è come agitare un drappo rosso davanti a un toro. Quella è gente che da decenni combatte, e magari fa pure la fame, perché rifiuta assolutamente di celebrare la nuova Messa; e ora si viene invece a mettere in dubbio quell'uso "esclusivo"? Lo stesso dicasi per il concetto di 'legittimità' della nuova Messa. Per noi italiani il termine è sostanzialmente un tutt'uno con validità: indica più precisamente il fatto che la nuova Messa è stata regolarmente emanata conformemente alla legge canonica. Ma i tradizionalisti francofoni (e la Tradizione, piaccia o meno, è francofona) da decenni si scannano su quei concetti: le guerre di religione ce le han del resto nel sangue. La nuova Messa è sì valida, riconoscono, ma non legittima; il che significa, almeno secondo una delle loro scuole di pensiero, che Paolo VI non avrebbe potuto introdurla dati i difetti intrinseci del nuovo rito, pur se questi non inficiano la validità. Il fatto che già l'art. 19 dell'Istruzione Universae Ecclesiae imponga anch'esso di riconoscere la 'legittimità' della Messa paolina non sposta certo il problema.

Ancor peggio è l'avere svolto nel Preambolo quel curioso sillogismo: 1) il Concilio va riconosciuto (e passi, salvo capire che cosa significa 'riconoscere'); 2) in continuità con la Tradizione (bene!); 3) ossia come ha fatto Giovanni Paolo II nel suo Catechismo. Quest'ultimo passaggio, evidentemente, andrebbe dimostrato, tanto più che detto Catechismo non fa che parafrasare i passaggi conciliari che invece i Tradizionalisti contestano (ecumenismo, libertà religiosa, ecc.). Sicché, dire che nel Catechismo si trova il Concilio interpretato secondo Tradizione, è un'affermazione assiomatica che si potrebbe magari imporre con la forza dell'autorità, ma non necessariamente con quella della logica.

Ed allora: perché aprire questi vasi di Pandora. Perché cercare di imporre ai lefebvriani, che già tentennano sulla strada per Roma, l'accettazione di affermazioni che cozzano completamente con tutta la loro storia e con la loro stessa ragion d'essere, allorché ad ogni altro cattolico non si richiede né più né meno che di accettare la professio fidei, dove quelle dichiarazioni non figurano? E' un po' come pretendere da un luterano, che volesse tornare in comunione con Roma, di riconoscere che era santa e ottima cosa vendere le indulgenze dietro corresponsione di moneta sonante...

E ancora: perché angariare l'Istituto del Buon Pastore con richieste che sembrano preludere ad un obbligo di biritualismo e ad una mordacchia imposta al diritto di critica 'seria e costruttiva' del Concilio? E tutto questo proprio nel corso di complesse trattative con la FSSPX, che certo può temere di subire domani quel che il Buon Pastore sopporta oggi? Non a caso l'abbé Simoulin, pur favorevole agli accordi con Roma, qualifica come "funesta" la Commissione Ecclesia Dei; e lo fa proprio in riferimento al trattamento inflitto ultimamente al Buon Pastore, che risveglia sgradevoli ricordi delle vessazioni nei confronti della Fraternità San Pietro, allorché la funzione dell'Ecclesia Dei (correvano gli anni '90) era quella di cercare di far scoprire gradualmente ai 'nostalgici' la 'straordinaria ricchezza' della liturgia rinnovata.

Non ci stupisce allora che il testo dell'ultima risposta di mons. Fellay sia stato fatto passare, preliminarmente, nelle mani del Papa per avere il suo placet (sì, sì, vi confermo l'indiscrezione anticipata l'altro giorno: del resto era il segreto di Pulcinella, visto che, una volta ottenuto il via libera ai massimi livelli, bisogna pur che la cosa si risappia, affinché raggiunga il suo effetto). A volte, gli ostacoli è meglio sormontarli, piuttosto che affrontarli.

Enrico

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