di Don Mauro Gagliardi, docente all'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, Roma, e Consultore per le celebrazioni liturgiche del S. Pontefice. Il testo qui di seguito è riportato senza note: l'articolo completo è stato pubblicato su Sacrum Ministerium 15 (2009/2), pp. 65-99.
Link alla prima parte.
2. L’insegnamento del Concilio Vaticano II
Il Vaticano II tocca il tema del presbiterato in diversi documenti, ma lo tratta in modo particolare in Lumen Gentium (= LG) 28 e nel Decreto Presbyterorum Ordinis (= PO). Il testo di LG 28 è stato pubblicato più di un anno prima di quello di PO. Esso, benché molto più breve, è più importante, perché si trova all’interno di una delle quattro Costituzioni conciliari, i documenti più significativi del Vaticano II. In ragione di ciò, cominciamo la nostra breve analisi da LG 28, per poi passare a PO.
2.1 L’insegnamento sui presbiteri di LG 28
Il testo di LG 28 esordisce ricordando l’istituzione del ministero ad opera di Cristo e la trasmissione di esso dagli apostoli ai vescovi, loro successori. Questi ultimi «a loro volta hanno legittimamente trasmesso, secondo vari gradi, l’ufficio del loro ministero a diversi soggetti nella Chiesa. In tal modo il ministero divinamente istituito viene esercitato in ordini diversi da coloro che già in antico vengono chiamati vescovi, presbiteri e diaconi» .
Poi si passa a trattare dei presbiteri e il testo insegna: «Presbyteri, quamvis pontificatus apicem non habeant et in exercenda sua potestate ab Episcopis pendeant, cum eis tamen sacerdotali honore coniuncti sunt et vi sacramenti Ordinis, ad imaginem Christi, summi atque aeterni Sacerdotis, ad Evangelium praedicandum fidelesque pascendos et ad divinum cultum celebrandum consecrantur, ut veri sacerdotes Novi Testamenti» (AAS 57 [1965], p. 34). In questo testo vi sono due insegnamenti principali: a) i presbiteri non possiedono l’apice dell’ufficio di pontefici – che viene conferito ai vescovi – eppure sono veri sacerdoti del Nuovo Testamento ad immagine di Cristo Sacerdote; b) i loro compiti corrispondono ai tria munera dei vescovi, che evidentemente essi esercitano con minore autorità e potere spirituali: predicazione, governo, santificazione (munus docendi, regendi, sanctificandi).
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2. L’insegnamento del Concilio Vaticano II
Il Vaticano II tocca il tema del presbiterato in diversi documenti, ma lo tratta in modo particolare in Lumen Gentium (= LG) 28 e nel Decreto Presbyterorum Ordinis (= PO). Il testo di LG 28 è stato pubblicato più di un anno prima di quello di PO. Esso, benché molto più breve, è più importante, perché si trova all’interno di una delle quattro Costituzioni conciliari, i documenti più significativi del Vaticano II. In ragione di ciò, cominciamo la nostra breve analisi da LG 28, per poi passare a PO.
2.1 L’insegnamento sui presbiteri di LG 28
Il testo di LG 28 esordisce ricordando l’istituzione del ministero ad opera di Cristo e la trasmissione di esso dagli apostoli ai vescovi, loro successori. Questi ultimi «a loro volta hanno legittimamente trasmesso, secondo vari gradi, l’ufficio del loro ministero a diversi soggetti nella Chiesa. In tal modo il ministero divinamente istituito viene esercitato in ordini diversi da coloro che già in antico vengono chiamati vescovi, presbiteri e diaconi» .
Poi si passa a trattare dei presbiteri e il testo insegna: «Presbyteri, quamvis pontificatus apicem non habeant et in exercenda sua potestate ab Episcopis pendeant, cum eis tamen sacerdotali honore coniuncti sunt et vi sacramenti Ordinis, ad imaginem Christi, summi atque aeterni Sacerdotis, ad Evangelium praedicandum fidelesque pascendos et ad divinum cultum celebrandum consecrantur, ut veri sacerdotes Novi Testamenti» (AAS 57 [1965], p. 34). In questo testo vi sono due insegnamenti principali: a) i presbiteri non possiedono l’apice dell’ufficio di pontefici – che viene conferito ai vescovi – eppure sono veri sacerdoti del Nuovo Testamento ad immagine di Cristo Sacerdote; b) i loro compiti corrispondono ai tria munera dei vescovi, che evidentemente essi esercitano con minore autorità e potere spirituali: predicazione, governo, santificazione (munus docendi, regendi, sanctificandi).
Va qui notato che una diffusa traduzione italiana dei documenti del Concilio, l’Enchiridion Vaticanum, non ha tradotto alla lettera la prima parte del testo. La traduzione corretta è questa: «I presbiteri, pur non possedendo l’apice del pontificato e dipendendo dai vescovi nell’esercizio della loro potestà, sono tuttavia ad essi congiunti per l’onore sacerdotale». Invece, l’Enchiridion Vaticanum ha tradotto come segue: «I presbiteri, pur non possedendo il vertice del sacerdozio, ma dipendendo dai vescovi nell’esercizio della loro potestà, sono tuttavia congiunti a loro nell’onore sacerdotale». Come si nota dai nostri corsivi, questa versione rende il latino pontificatus con «sacerdozio». [..]
Se, dunque, si traduce il brano di LG 28 come fa l’Enchiridion Vaticanum, si perde un’importante distinzione. Quando i Padri conciliari affermano che i presbiteri non posseggono l’apex pontificatus, intendono distinguere i presbiteri dai vescovi, non distinguere il sacerdozio degli uni da quello degli altri. Al contrario il testo, mentre distingue vescovi e presbiteri quanto al pontificatus, li accomuna quanto al sacerdotium . Cosa debba intendersi con sacerdotium, il testo lo dice subito dopo, richiamando il sacramento dell’Ordine ricevuto dai presbiteri, che li abilita a svolgere i tria munera nel grado loro proprio «ad immagine di Cristo Sommo ed Eterno Sacerdote». Qui LG 28 cita Eb 5,1-10; 7,24; 9,11-28. Si tratta di brani classici, che qui è impossibile esaminare in dettaglio, i quali esprimono l’indole del sacerdozio di Cristo in base alla categoria di sacrificio e di permanenza. LG 28, in linea con la tradizione di sempre, sia magisteriale che teologica, intende il munus sacerdotale soprattutto come compito di offrire a Dio il santo sacrificio: ciò fa innanzitutto Cristo con il suo sacrificio perfetto e definitivo, che stabilisce la nuova ed eterna alleanza, e ciò fanno i sacerdoti ordinati – come dice il Concilio – ad immagine di Lui.
LG 28 riprende poi di nuovo la dottrina dei tria munera e, tra questi, riconosce esplicitamente l’eccellenza della celebrazione all’altare: i presbiteri «esercitano al massimo grado il loro sacro munus nel culto eucaristico o sinassi, nella quale, agendo in persona di Cristo [in persona Christi] e proclamando il suo mistero, uniscono i voti dei fedeli al sacrificio del loro Capo, e nel sacrificio della Messa rappresentano ed applicano l’unico sacrificio della nuova alleanza, cioè di Cristo che si offrì al Padre una volta per sempre come Vittima immacolata, fino alla venuta del Signore» (AAS 57 [1965], p. 34). Segue l’enumerazione di altri compiti: il ministero della riconciliazione, il presentare al Padre le necessità e preghiere dei fratelli, il raccogliere la comunità e condurla a Dio essendo, in mezzo al gregge, adoratori del Padre in Spirito e verità, il ministero dell’insegnamento dottrinale impartito con la parola e con l’esempio (ibid.).
LG 28 riprende poi di nuovo la dottrina dei tria munera e, tra questi, riconosce esplicitamente l’eccellenza della celebrazione all’altare: i presbiteri «esercitano al massimo grado il loro sacro munus nel culto eucaristico o sinassi, nella quale, agendo in persona di Cristo [in persona Christi] e proclamando il suo mistero, uniscono i voti dei fedeli al sacrificio del loro Capo, e nel sacrificio della Messa rappresentano ed applicano l’unico sacrificio della nuova alleanza, cioè di Cristo che si offrì al Padre una volta per sempre come Vittima immacolata, fino alla venuta del Signore» (AAS 57 [1965], p. 34). Segue l’enumerazione di altri compiti: il ministero della riconciliazione, il presentare al Padre le necessità e preghiere dei fratelli, il raccogliere la comunità e condurla a Dio essendo, in mezzo al gregge, adoratori del Padre in Spirito e verità, il ministero dell’insegnamento dottrinale impartito con la parola e con l’esempio (ibid.).
[..]
La sacra Ordinazione, assieme alla missione, rappresenta anche il perno di un’altra, importante affermazione della Costituzione ecclesiologica: «In forza della comune sacra Ordinazione e della missione, tutti i presbiteri sono legati tra loro da intima fraternità» (ibid.): è il tema della fraternità presbiterale, fondata ontologicamente sul sacramento dell’Ordine, oltre che funzionalmente sulla comune missione. PO recepirà abbondamentemente l’insegnamento qui proposto in brevi parole. Dopo diverse indicazioni concrete, il testo conclude con un riferimento alla situazione del mondo odierno: «Poiché il genere umano oggi organizza sempre più la propria unità civile, economica e sociale, tanto più bisogna che i sacerdoti, unendo la sollecitudine e l’azione, sotto la guida dei vescovi e del Sommo Pontefice, sopprimano ogni ragione di dispersione, affinché tutto il genere umano sia condotto all’unità della famiglia di Dio» (AAS 57 [1965], pp. 35-36).
2.2 Il Decreto conciliare sul ministero e la vita dei presbiteri
Il Decreto Presbyterorum Ordinis, emanato il 7 dicembre 1965, si colloca consapevolmente all’interno dell’ininterrotta tradizione magisteriale e teologica della Chiesa cattolica . La finalità del documento è dichiarata al n. 1: il testo viene pubblicato «affinché nelle attuali circostanze pastorali e umane, tanto radicalmente mutate, i presbiteri possano trovare un sostegno più valido al loro ministero, e affinché si provveda adeguatamente alla loro vita» (AAS 58 [1966], p. 991). Va dunque subito ricollegato l’intero Decreto alle affermazioni finali di LG 28, che sottolineava l’hodie: le odierne condizioni della società, che spingono la Chiesa a riconsiderare, più che la dottrina teologica sul sacerdozio ordinato, le scelte concrete, organizzative e pratiche, che toccano la vita dei presbiteri, in modo da metterli nelle condizioni di svolgere adeguatamente il loro ministero di sempre nelle mutate condizioni del mondo attuale. Anche qui si rivela, dunque, l’indole eminentemente pastorale che il Vaticano II si è voluta dare e che ogni interprete del Concilio deve rispettare, se vuole essere fedele al suo spirito ed ai suoi testi.
Naturalmente, pur dedicandosi soprattutto ad aspetti concreti, il Decreto PO espone in modo compendioso anche la dottrina sul presbiterato, che è in perfetta continuità con la bimillenaria tradizione della Chiesa e, da questa, mette in risalto alcuni aspetti che possono costituire una solida base per attuare quello stile presbiterale che il Vaticano II ha voluto additare quale possibile approccio alla situazione esistente nel difficile tempo in cui viviamo. Dati i limiti di questo studio, noi non possiamo fornire un’analisi dettagliata di PO, dovendoci limitare ad indicarne i temi principali a riguardo della dottrina sul sacerdozio cattolico.
Il presbitero viene considerato come servitore di Cristo e dei fratelli. Il presbiterato viene inteso dunque cristocentricamente ed ecclesiologicamente. Il sacerdozio viene infatti descritto come partecipazione al ministero di Cristo (nn. 1 e 13). Per ben tre volte, il Decreto riprende dalla tradizione teologica e magisteriale l’espressione tecnica o la dottrina dell’in persona Christi (nn. 2; 12; 13) . Anche per quanto riguarda l’essenza del sacerdozio ordinato, il Decreto si colloca nella linea della tradizione, individuandola nella potestà di offrire il sacrificio e di rimettere i peccati (n. 2). Questa verità viene declinata da PO in accordo all’ecclesiologia di LG, cioè mettendo in evidenza anche l’importanza del sacerdozio comune dei fedeli e ricordando che le potestà proprie ed esclusive dei sacerdoti ministri sono a servizio della Chiesa, ossia della congiunzione dei fedeli in un solo corpo. La declinazione della dottrina secondo quella che è stata poi definita «ecclesiologia di comunione» , rappresenta una conferma della dottrina di sempre operata in un modo nuovo, ritenuto più adatto ai tempi attuali. Vi è, dunque, continuità e novità. Per quanto riguarda, poi, il tema dell’essenza del sacerdozio ministeriale cristiano come ufficio di offrire il sacrificio eucaristico, tale dottrina viene ripetuta ancora al n. 14, sempre con un richiamo all’attuale situazione e con la menzione di una categoria che farà poi fortuna, quella di «carità pastorale». Scrive dunque PO 14: «La carità pastorale scaturisce soprattutto dal sacrificio eucaristico, il quale risulta pertanto il centro e la radice di tutta la vita del presbitero, sicché l’anima del sacerdote si sforzi di ripetere in sé ciò che si compie sull’ara del sacrificio» (AAS 58 [1966], p. 1013).
Il Decreto riprende anche la dottrina della chiara distinzione tra il sacerdozio comune e quello ministeriale, che si riceve con il sacramento dell’Ordine sacro: «Il sacerdozio dei presbiteri, pur supponendo i sacramenti dell’iniziazione cristiana, viene conferito da quel particolare sacramento per il quale i presbiteri, per l’unzione dello Spirito Santo, sono segnati da uno speciale carattere e così sono configurati a Cristo Sacerdote, in modo da poter agire in persona di Cristo Capo» (PO 2: AAS 58 [1966], p. 992). Per questo motivo, i presbiteri posseggono una speciale autorità sacerdotale, che non posseggono i fedeli non ordinati (nn. 2; 6; 9). Ciò non significa, però, che essi siano autorizzati ad agire in maniera dispotica in mezzo al popolo di Dio. Il Decreto, anzi, tra le varie virtù proprie del presbitero, enumera la gentilezza (n. 3) e l’esimia umanità (n. 6), sebbene ciò non significhi venir meno alla fer-mezza d’animo e all’assidua sollecitudine per la giustizia (n. 3), né trattare gli uomini in ba-se ai loro gusti (n. 6) .
Diverse conseguenze derivano dalla ricordata dottrina della distinzione essenziale tra il sacerdozio comune dei fedeli e quello ministeriale dei presbiteri. Si possono indicare tuttavia cinque conseguenze principali:
1) Innanzitutto il Concilio afferma l’eccellenza, la necessità e l’indefettibilità del sacerdozio ministeriale (n. 11).
2) In secondo luogo, i presbiteri sono riconosciuti in possesso delle facoltà, o dei ministeri, che derivano dal proprio status e che li mettono in stretta connessione con i vescovi, ossia dei tria munera. Queste funzioni sono riconosciute come compito anche dei presbiteri, sebbene esse non siano espletate con quella pienezza che appartiene solo ai vescovi. Abbiamo già notato che il più importante tra i munera è il munus sanctificandi, in modo particolare la celebrazione della Messa, che segna la radice più profonda del sacerdozio dei presbiteri. PO parla del ministero sacramentale dei sacerdoti in diversi brani, e in modo particolare ai nn. 2; 5; 13. Al n. 13 si ribadisce ancora che nel mistero del sacrificio eucaristico «i sacerdoti esercitano il loro munus principale» (AAS 58 [1966], p. 1011). Ampio spazio viene dato dal Decreto anche all’importante munus docendi, il ministero della predicazione nei suoi diversi livelli. È noto che i presbiteri non posseggono tale munus con perfezione: essi non posseggono l’autorità – propria dei vescovi – di definire la dottrina. Tuttavia il munus docendi del presbitero, sebbene non sia connotato dalla potestas determinandi, possiede – sempre in unione e sottomissione al collegio episcopale guidato dal Papa – la potestas praedicandi. I presbiteri hanno ricevuto l’autorità per insegnare la dottrina della Chiesa nelle forme ordinarie dell’omiletica, della catechesi, dell’istruzione e di tutte le altre forme conosciute nella prassi ecclesiale. PO dedica al ministero della Parola di Dio in particolare i nn. 2; 4; 13. Il Decreto precisa che la predicazione del Vangelo di Cristo si fa sia con parole, attenendosi alla sana dottrina, sia con la testimonianza della vita. Infine, per il munus regendi, si può vedere in particolare il n. 6.
3) Da questi elementi, i Padri conciliari traggono anche l’insegnamento sulle finalità del presbiterato, che è la terza conseguenza della chiara affermazione della sua sacramentalità. Nel Decreto in analisi, emergono in particolare due finalità. I presbiteri sono ordinati innanzitutto per la gloria di Dio Padre in Cristo (n. 2) e per servire Cristo, Maestro, Sacerdote e Re (n. 1). In secondo luogo, essi vengono scelti per edificare la Chiesa, ossia per radunarla e condurla al Padre per mezzo di Cristo nello Spirito Santo (nn. 1; 6; 8). Pertanto, il presbiterato è finalizzato alla santificazione degli uomini (n. 2), la quale è impossibile senza conversione (nn. 4; 5; 6). Operando per favorirla, i presbiteri si mostreranno ministri di quel Vangelo che, sin dai suoi esordi, è stato predicato dal Signore stesso come invito alla conversione, cioè al cambiamento di vita per quanto riguarda i costumi disordinati (cf. Mc 1,15).
4) Una quarta conseguenza che scaturisce dalla sottolineatura del carattere sacramentale del presbiterato consiste nell’insegnamento offerto da PO sulla fraternità sacramentale dei presbiteri, fondata proprio sul sacramento da essi ricevuto. Dice il n. 8: «I presbiteri, costituiti nell’Ordine del presbiterato mediante l’ordinazione, sono legati tra loro nella profonda [intima] fraternità sacramentale; ma in modo speciale essi formano un solo presbiterio nella diocesi al cui servizio sono ascritti sotto il proprio vescovo» (AAS 58 [1966], p. 1003). Questa fraternità è «profonda» perché fondata sull’ordinazione sacramentale, ma si manifesta poi anche a livello funzionale, con la collaborazione e l’aiuto reciproco tra i presbiteri, in particolare quelli che formano il presbiterio di una Chiesa locale. Questa comunione sacerdotale non si restringe all’ambito diocesano: i presbiteri sono uniti in fraternità sacramentale in modo ontologico e non solo giuridico. Il Concilio perciò ricorda che «il dono spirituale che i presbiteri hanno ricevuto nell’ordinazione, non li prepara ad una missione limitata e ristretta, bensì ad una missione di salvezza vastissima ed universale [...], infatti qualsiasi ministero sacerdotale partecipa della stessa ampiezza universale della missione affidata da Cristo agli apostoli» (PO 10: AAS 58 [1966], p. 1008). Questo insegnamento è molto importante e si coordina col precedente: il presbitero (in particolare il presbitero diocesano) vive ed opera radicato in una Chiesa particolare – che comunque non avrebbe senso separata dalla Chiesa universale – e legato al suo vescovo ed al suo presbiterio, ma ciò non implica affatto una visione ristretta o persino localistica del ministero presbiterale. PO, al contrario, insegna a più riprese che i presbiteri devono coltivare uno sguardo universale (si vedano in particolare i nn. 6; 10; 14; 17).
Il Decreto tocca di nuovo il tema della fraternità sacramentale ed operativa ai nn. 12; 15 e 22. Questo tema è di grande importanza ed è stato ampiamente studiato dopo il Concilio. Esso influisce certamente anche su ciò che PO dice sul rapporto tra i presbiteri e i vescovi (nn. 5; 7; 12; 15); tra i presbiteri e la Chiesa (nn. 3; 9; 14); e tra i presbiteri e il mondo (nn. 3; 9; 17): tutti aspetti molto interessanti, che qui non è possibile esaminare in modo ade-guato.
5) Una quinta ed ultima conseguenza, che deriva dalla sottolineatura del carattere sacramentale del presbiterato, riguarda la vita spirituale dei presbiteri, che deve tendere alla perfezione della santità. I riferimenti sono numerosi, ma il paragrafo più importante è il n. 12. Vi si dice che i sacerdoti, già in forza della grazia del Battesimo, hanno l’obbligo di ten-dere alla santità, al pari di tutti gli altri fedeli. «Ma i sacerdoti sono tenuti ad acquisire questa perfezione per una speciale ragione: poiché, consacrati da Dio in modo nuovo con la ricezione dell’Ordine, essi sono costituiti strumenti vivi di Cristo Eterno Sacerdote, affinché possano proseguire attraverso i tempi l’opera mirabile di Lui, che ha reintegrato con superna efficacia l’intera comunità degli uomini» (AAS 58 [1966], pp. 1009-1010). Si tratta di un’applicazione del detto evangelico: «A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto» (Lc 12,48). D’altro canto, il Concilio ricorda che, nella dotazione fatta al presbitero, v’è anche la grazia di stato sacerdotale, «in virtù della quale, mentre è a servizio della gente a lui affidata e dell’intero popolo di Dio, egli può avvicinarsi più efficacemente alla perfezione di Lui [Cristo], del quale fa le veci [partes sustinet]» (AAS 58 [1966], p. 1010).
Si conferma di nuovo, così, la dottrina della maggiore eccellenza dello stato sacerdotale, che PO aveva già ripreso dalla tradizione magisteriale e teologica: un’eccellenza che purtroppo non si verifica de facto in tutti i singoli casi, ma che è di per sé consistente, perché fondata sulla differenza «di essenza e non solo di grado» che esiste tra il sacerdozio comune dei fedeli ed il sacerdozio ministeriale. Il n. 12 di PO precisa che i ministri realizzano la propria vocazione non solo pascendo il gregge, ossia nell’esercizio del munus pastorale, ma anche coltivando la santità personale. Si dice che i presbiteri «mortificano in se stessi le opere della carne e si dedicano totalmente al servizio degli uomini, e così possono progredire nella santità di cui sono stati dotati in Cristo, fino all’uomo perfetto» (ibid.). Non basta dunque, per la santità del presbitero, l’esercizio della carità pastorale; essa deve coniugarsi con la conformazione a Cristo, con la continua conversione a Lui, che passa anche per la mortificazione in se stessi delle opere della carne. Questa ricerca della santità è di grande importanza: «Sebbene infatti la grazia di Dio possa realizzare l’opera della salvezza anche attraverso ministri indegni, tuttavia Dio preferisce ordinariamente manifestare le sue meraviglie attraverso coloro che, fattisi più docili all’impulso ed alla guida dello Spirito Santo, per la loro intima unione con Cristo e la santità di vita, possono dire con l’Apostolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”» (ibid.).
Questa autospoliazione dei presbiteri – per la quale non opera più in essi principalmente il loro io, bensì quello di Cristo, la cui Persona essi portano in se stessi – si verifica nell’attitudine a non agire, nella vita presbiterale, secondo il proprio gusto o le proprie inclinazioni, o peggio ancora per propria utilità, ma facendo in modo che, attraverso il proprio ministero, appaiano ed agiscano sempre più Cristo e la Chiesa. A questi aspetti il Decreto dedica diversi riferimenti, tra i quali si possono segnalare i nn. 4; 6; 9; 13; 15.
Dobbiamo qui rinunciare a presentare numerosi altri aspetti, in particolare le indicazioni pratiche, presenti in PO. Facciamo notare, in conclusione, che il Decreto non si distacca in nulla dalla dottrina ecclesiale tradizionale sul presbiterato, che anzi riprende con convinzione e ampiezza. Questo è il tratto di grande continuità. Vi è anche un tratto di novità, declinato in chiave pastorale, cioè in relazione alle concrete esigenze dei presbiteri nel nostro tempo. Coerentemente col modello ecclesiologico conciliare, poi definito «ecclesiologia di comunione», PO sottolinea particolarmente l’aspetto comunionale della vita presbiterale. Lo si vede già dalle prime due parole, che rappresentano anche il titolo del Decreto: l’Ordine dei Presbiteri. Si tratta qui non solo del sacerdote considerato in sé, ma del sacerdote all’interno dell’Ordine presbiterale e, nel caso egli appartenga al clero secolare, all’interno di un presbiterio diocesano. Ciò si vede anche dal fatto che i termini «presbitero» e «sacerdote» ricorrono poche volte al singolare, mentre il Decreto si riferisce in genere ai «presbiteri» e «sacerdoti» al plurale, come a sottolineare il carattere di corpo dell’insieme dei presbiteri . Come abbiamo avuto modo di illustrare, la fraternità sacerdotale e l’unità nel corpo presbiterale è intima, ossia si fonda in primo luogo sulla sacramentalità del presbiterato e non soltanto su una motivazione estrinseca, ossia su aspetti funzionali. Il Decreto conciliare, dunque, apporta questo interessante elemento di novità nella continuità, inserendo la dottrina tradizionale sul sacerdote in una visione pastorale sui sacerdoti. Non v’è opposizione tra questi due aspetti. La dottrina pastorale sui sacerdoti non si regge senza quella teologica sul sacerdote e quest’ultima trova nell’altra feconde applicazioni e conseguenze pratiche per la vita e la missione dei presbiteri (oggetto del Decreto), conseguenze puntualmente tirate dal testo conciliare.
La sacra Ordinazione, assieme alla missione, rappresenta anche il perno di un’altra, importante affermazione della Costituzione ecclesiologica: «In forza della comune sacra Ordinazione e della missione, tutti i presbiteri sono legati tra loro da intima fraternità» (ibid.): è il tema della fraternità presbiterale, fondata ontologicamente sul sacramento dell’Ordine, oltre che funzionalmente sulla comune missione. PO recepirà abbondamentemente l’insegnamento qui proposto in brevi parole. Dopo diverse indicazioni concrete, il testo conclude con un riferimento alla situazione del mondo odierno: «Poiché il genere umano oggi organizza sempre più la propria unità civile, economica e sociale, tanto più bisogna che i sacerdoti, unendo la sollecitudine e l’azione, sotto la guida dei vescovi e del Sommo Pontefice, sopprimano ogni ragione di dispersione, affinché tutto il genere umano sia condotto all’unità della famiglia di Dio» (AAS 57 [1965], pp. 35-36).
2.2 Il Decreto conciliare sul ministero e la vita dei presbiteri
Il Decreto Presbyterorum Ordinis, emanato il 7 dicembre 1965, si colloca consapevolmente all’interno dell’ininterrotta tradizione magisteriale e teologica della Chiesa cattolica . La finalità del documento è dichiarata al n. 1: il testo viene pubblicato «affinché nelle attuali circostanze pastorali e umane, tanto radicalmente mutate, i presbiteri possano trovare un sostegno più valido al loro ministero, e affinché si provveda adeguatamente alla loro vita» (AAS 58 [1966], p. 991). Va dunque subito ricollegato l’intero Decreto alle affermazioni finali di LG 28, che sottolineava l’hodie: le odierne condizioni della società, che spingono la Chiesa a riconsiderare, più che la dottrina teologica sul sacerdozio ordinato, le scelte concrete, organizzative e pratiche, che toccano la vita dei presbiteri, in modo da metterli nelle condizioni di svolgere adeguatamente il loro ministero di sempre nelle mutate condizioni del mondo attuale. Anche qui si rivela, dunque, l’indole eminentemente pastorale che il Vaticano II si è voluta dare e che ogni interprete del Concilio deve rispettare, se vuole essere fedele al suo spirito ed ai suoi testi.
Naturalmente, pur dedicandosi soprattutto ad aspetti concreti, il Decreto PO espone in modo compendioso anche la dottrina sul presbiterato, che è in perfetta continuità con la bimillenaria tradizione della Chiesa e, da questa, mette in risalto alcuni aspetti che possono costituire una solida base per attuare quello stile presbiterale che il Vaticano II ha voluto additare quale possibile approccio alla situazione esistente nel difficile tempo in cui viviamo. Dati i limiti di questo studio, noi non possiamo fornire un’analisi dettagliata di PO, dovendoci limitare ad indicarne i temi principali a riguardo della dottrina sul sacerdozio cattolico.
Il presbitero viene considerato come servitore di Cristo e dei fratelli. Il presbiterato viene inteso dunque cristocentricamente ed ecclesiologicamente. Il sacerdozio viene infatti descritto come partecipazione al ministero di Cristo (nn. 1 e 13). Per ben tre volte, il Decreto riprende dalla tradizione teologica e magisteriale l’espressione tecnica o la dottrina dell’in persona Christi (nn. 2; 12; 13) . Anche per quanto riguarda l’essenza del sacerdozio ordinato, il Decreto si colloca nella linea della tradizione, individuandola nella potestà di offrire il sacrificio e di rimettere i peccati (n. 2). Questa verità viene declinata da PO in accordo all’ecclesiologia di LG, cioè mettendo in evidenza anche l’importanza del sacerdozio comune dei fedeli e ricordando che le potestà proprie ed esclusive dei sacerdoti ministri sono a servizio della Chiesa, ossia della congiunzione dei fedeli in un solo corpo. La declinazione della dottrina secondo quella che è stata poi definita «ecclesiologia di comunione» , rappresenta una conferma della dottrina di sempre operata in un modo nuovo, ritenuto più adatto ai tempi attuali. Vi è, dunque, continuità e novità. Per quanto riguarda, poi, il tema dell’essenza del sacerdozio ministeriale cristiano come ufficio di offrire il sacrificio eucaristico, tale dottrina viene ripetuta ancora al n. 14, sempre con un richiamo all’attuale situazione e con la menzione di una categoria che farà poi fortuna, quella di «carità pastorale». Scrive dunque PO 14: «La carità pastorale scaturisce soprattutto dal sacrificio eucaristico, il quale risulta pertanto il centro e la radice di tutta la vita del presbitero, sicché l’anima del sacerdote si sforzi di ripetere in sé ciò che si compie sull’ara del sacrificio» (AAS 58 [1966], p. 1013).
Il Decreto riprende anche la dottrina della chiara distinzione tra il sacerdozio comune e quello ministeriale, che si riceve con il sacramento dell’Ordine sacro: «Il sacerdozio dei presbiteri, pur supponendo i sacramenti dell’iniziazione cristiana, viene conferito da quel particolare sacramento per il quale i presbiteri, per l’unzione dello Spirito Santo, sono segnati da uno speciale carattere e così sono configurati a Cristo Sacerdote, in modo da poter agire in persona di Cristo Capo» (PO 2: AAS 58 [1966], p. 992). Per questo motivo, i presbiteri posseggono una speciale autorità sacerdotale, che non posseggono i fedeli non ordinati (nn. 2; 6; 9). Ciò non significa, però, che essi siano autorizzati ad agire in maniera dispotica in mezzo al popolo di Dio. Il Decreto, anzi, tra le varie virtù proprie del presbitero, enumera la gentilezza (n. 3) e l’esimia umanità (n. 6), sebbene ciò non significhi venir meno alla fer-mezza d’animo e all’assidua sollecitudine per la giustizia (n. 3), né trattare gli uomini in ba-se ai loro gusti (n. 6) .
Diverse conseguenze derivano dalla ricordata dottrina della distinzione essenziale tra il sacerdozio comune dei fedeli e quello ministeriale dei presbiteri. Si possono indicare tuttavia cinque conseguenze principali:
1) Innanzitutto il Concilio afferma l’eccellenza, la necessità e l’indefettibilità del sacerdozio ministeriale (n. 11).
2) In secondo luogo, i presbiteri sono riconosciuti in possesso delle facoltà, o dei ministeri, che derivano dal proprio status e che li mettono in stretta connessione con i vescovi, ossia dei tria munera. Queste funzioni sono riconosciute come compito anche dei presbiteri, sebbene esse non siano espletate con quella pienezza che appartiene solo ai vescovi. Abbiamo già notato che il più importante tra i munera è il munus sanctificandi, in modo particolare la celebrazione della Messa, che segna la radice più profonda del sacerdozio dei presbiteri. PO parla del ministero sacramentale dei sacerdoti in diversi brani, e in modo particolare ai nn. 2; 5; 13. Al n. 13 si ribadisce ancora che nel mistero del sacrificio eucaristico «i sacerdoti esercitano il loro munus principale» (AAS 58 [1966], p. 1011). Ampio spazio viene dato dal Decreto anche all’importante munus docendi, il ministero della predicazione nei suoi diversi livelli. È noto che i presbiteri non posseggono tale munus con perfezione: essi non posseggono l’autorità – propria dei vescovi – di definire la dottrina. Tuttavia il munus docendi del presbitero, sebbene non sia connotato dalla potestas determinandi, possiede – sempre in unione e sottomissione al collegio episcopale guidato dal Papa – la potestas praedicandi. I presbiteri hanno ricevuto l’autorità per insegnare la dottrina della Chiesa nelle forme ordinarie dell’omiletica, della catechesi, dell’istruzione e di tutte le altre forme conosciute nella prassi ecclesiale. PO dedica al ministero della Parola di Dio in particolare i nn. 2; 4; 13. Il Decreto precisa che la predicazione del Vangelo di Cristo si fa sia con parole, attenendosi alla sana dottrina, sia con la testimonianza della vita. Infine, per il munus regendi, si può vedere in particolare il n. 6.
3) Da questi elementi, i Padri conciliari traggono anche l’insegnamento sulle finalità del presbiterato, che è la terza conseguenza della chiara affermazione della sua sacramentalità. Nel Decreto in analisi, emergono in particolare due finalità. I presbiteri sono ordinati innanzitutto per la gloria di Dio Padre in Cristo (n. 2) e per servire Cristo, Maestro, Sacerdote e Re (n. 1). In secondo luogo, essi vengono scelti per edificare la Chiesa, ossia per radunarla e condurla al Padre per mezzo di Cristo nello Spirito Santo (nn. 1; 6; 8). Pertanto, il presbiterato è finalizzato alla santificazione degli uomini (n. 2), la quale è impossibile senza conversione (nn. 4; 5; 6). Operando per favorirla, i presbiteri si mostreranno ministri di quel Vangelo che, sin dai suoi esordi, è stato predicato dal Signore stesso come invito alla conversione, cioè al cambiamento di vita per quanto riguarda i costumi disordinati (cf. Mc 1,15).
4) Una quarta conseguenza che scaturisce dalla sottolineatura del carattere sacramentale del presbiterato consiste nell’insegnamento offerto da PO sulla fraternità sacramentale dei presbiteri, fondata proprio sul sacramento da essi ricevuto. Dice il n. 8: «I presbiteri, costituiti nell’Ordine del presbiterato mediante l’ordinazione, sono legati tra loro nella profonda [intima] fraternità sacramentale; ma in modo speciale essi formano un solo presbiterio nella diocesi al cui servizio sono ascritti sotto il proprio vescovo» (AAS 58 [1966], p. 1003). Questa fraternità è «profonda» perché fondata sull’ordinazione sacramentale, ma si manifesta poi anche a livello funzionale, con la collaborazione e l’aiuto reciproco tra i presbiteri, in particolare quelli che formano il presbiterio di una Chiesa locale. Questa comunione sacerdotale non si restringe all’ambito diocesano: i presbiteri sono uniti in fraternità sacramentale in modo ontologico e non solo giuridico. Il Concilio perciò ricorda che «il dono spirituale che i presbiteri hanno ricevuto nell’ordinazione, non li prepara ad una missione limitata e ristretta, bensì ad una missione di salvezza vastissima ed universale [...], infatti qualsiasi ministero sacerdotale partecipa della stessa ampiezza universale della missione affidata da Cristo agli apostoli» (PO 10: AAS 58 [1966], p. 1008). Questo insegnamento è molto importante e si coordina col precedente: il presbitero (in particolare il presbitero diocesano) vive ed opera radicato in una Chiesa particolare – che comunque non avrebbe senso separata dalla Chiesa universale – e legato al suo vescovo ed al suo presbiterio, ma ciò non implica affatto una visione ristretta o persino localistica del ministero presbiterale. PO, al contrario, insegna a più riprese che i presbiteri devono coltivare uno sguardo universale (si vedano in particolare i nn. 6; 10; 14; 17).
Il Decreto tocca di nuovo il tema della fraternità sacramentale ed operativa ai nn. 12; 15 e 22. Questo tema è di grande importanza ed è stato ampiamente studiato dopo il Concilio. Esso influisce certamente anche su ciò che PO dice sul rapporto tra i presbiteri e i vescovi (nn. 5; 7; 12; 15); tra i presbiteri e la Chiesa (nn. 3; 9; 14); e tra i presbiteri e il mondo (nn. 3; 9; 17): tutti aspetti molto interessanti, che qui non è possibile esaminare in modo ade-guato.
5) Una quinta ed ultima conseguenza, che deriva dalla sottolineatura del carattere sacramentale del presbiterato, riguarda la vita spirituale dei presbiteri, che deve tendere alla perfezione della santità. I riferimenti sono numerosi, ma il paragrafo più importante è il n. 12. Vi si dice che i sacerdoti, già in forza della grazia del Battesimo, hanno l’obbligo di ten-dere alla santità, al pari di tutti gli altri fedeli. «Ma i sacerdoti sono tenuti ad acquisire questa perfezione per una speciale ragione: poiché, consacrati da Dio in modo nuovo con la ricezione dell’Ordine, essi sono costituiti strumenti vivi di Cristo Eterno Sacerdote, affinché possano proseguire attraverso i tempi l’opera mirabile di Lui, che ha reintegrato con superna efficacia l’intera comunità degli uomini» (AAS 58 [1966], pp. 1009-1010). Si tratta di un’applicazione del detto evangelico: «A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto» (Lc 12,48). D’altro canto, il Concilio ricorda che, nella dotazione fatta al presbitero, v’è anche la grazia di stato sacerdotale, «in virtù della quale, mentre è a servizio della gente a lui affidata e dell’intero popolo di Dio, egli può avvicinarsi più efficacemente alla perfezione di Lui [Cristo], del quale fa le veci [partes sustinet]» (AAS 58 [1966], p. 1010).
Si conferma di nuovo, così, la dottrina della maggiore eccellenza dello stato sacerdotale, che PO aveva già ripreso dalla tradizione magisteriale e teologica: un’eccellenza che purtroppo non si verifica de facto in tutti i singoli casi, ma che è di per sé consistente, perché fondata sulla differenza «di essenza e non solo di grado» che esiste tra il sacerdozio comune dei fedeli ed il sacerdozio ministeriale. Il n. 12 di PO precisa che i ministri realizzano la propria vocazione non solo pascendo il gregge, ossia nell’esercizio del munus pastorale, ma anche coltivando la santità personale. Si dice che i presbiteri «mortificano in se stessi le opere della carne e si dedicano totalmente al servizio degli uomini, e così possono progredire nella santità di cui sono stati dotati in Cristo, fino all’uomo perfetto» (ibid.). Non basta dunque, per la santità del presbitero, l’esercizio della carità pastorale; essa deve coniugarsi con la conformazione a Cristo, con la continua conversione a Lui, che passa anche per la mortificazione in se stessi delle opere della carne. Questa ricerca della santità è di grande importanza: «Sebbene infatti la grazia di Dio possa realizzare l’opera della salvezza anche attraverso ministri indegni, tuttavia Dio preferisce ordinariamente manifestare le sue meraviglie attraverso coloro che, fattisi più docili all’impulso ed alla guida dello Spirito Santo, per la loro intima unione con Cristo e la santità di vita, possono dire con l’Apostolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”» (ibid.).
Questa autospoliazione dei presbiteri – per la quale non opera più in essi principalmente il loro io, bensì quello di Cristo, la cui Persona essi portano in se stessi – si verifica nell’attitudine a non agire, nella vita presbiterale, secondo il proprio gusto o le proprie inclinazioni, o peggio ancora per propria utilità, ma facendo in modo che, attraverso il proprio ministero, appaiano ed agiscano sempre più Cristo e la Chiesa. A questi aspetti il Decreto dedica diversi riferimenti, tra i quali si possono segnalare i nn. 4; 6; 9; 13; 15.
Dobbiamo qui rinunciare a presentare numerosi altri aspetti, in particolare le indicazioni pratiche, presenti in PO. Facciamo notare, in conclusione, che il Decreto non si distacca in nulla dalla dottrina ecclesiale tradizionale sul presbiterato, che anzi riprende con convinzione e ampiezza. Questo è il tratto di grande continuità. Vi è anche un tratto di novità, declinato in chiave pastorale, cioè in relazione alle concrete esigenze dei presbiteri nel nostro tempo. Coerentemente col modello ecclesiologico conciliare, poi definito «ecclesiologia di comunione», PO sottolinea particolarmente l’aspetto comunionale della vita presbiterale. Lo si vede già dalle prime due parole, che rappresentano anche il titolo del Decreto: l’Ordine dei Presbiteri. Si tratta qui non solo del sacerdote considerato in sé, ma del sacerdote all’interno dell’Ordine presbiterale e, nel caso egli appartenga al clero secolare, all’interno di un presbiterio diocesano. Ciò si vede anche dal fatto che i termini «presbitero» e «sacerdote» ricorrono poche volte al singolare, mentre il Decreto si riferisce in genere ai «presbiteri» e «sacerdoti» al plurale, come a sottolineare il carattere di corpo dell’insieme dei presbiteri . Come abbiamo avuto modo di illustrare, la fraternità sacerdotale e l’unità nel corpo presbiterale è intima, ossia si fonda in primo luogo sulla sacramentalità del presbiterato e non soltanto su una motivazione estrinseca, ossia su aspetti funzionali. Il Decreto conciliare, dunque, apporta questo interessante elemento di novità nella continuità, inserendo la dottrina tradizionale sul sacerdote in una visione pastorale sui sacerdoti. Non v’è opposizione tra questi due aspetti. La dottrina pastorale sui sacerdoti non si regge senza quella teologica sul sacerdote e quest’ultima trova nell’altra feconde applicazioni e conseguenze pratiche per la vita e la missione dei presbiteri (oggetto del Decreto), conseguenze puntualmente tirate dal testo conciliare.
segue
Il n. 12 di PO precisa che i ministri realizzano la propria vocazione non solo pascendo il gregge, ossia nell’esercizio del munus pastorale, ma anche coltivando la santità personale. Si dice che i presbiteri «mortificano in se stessi le opere della carne e si dedicano totalmente al servizio degli uomini, e così possono progredire nella santità di cui sono stati dotati in Cristo, fino all’uomo perfetto» (ibid.).
RispondiEliminaNon basta dunque, per la santità del presbitero, l’esercizio della carità pastorale; essa deve coniugarsi con la conformazione a Cristo, con la continua conversione a Lui, che passa anche per la mortificazione in se stessi delle opere della carne. Questa ricerca della santità è di grande importanza:...
coltivare la santità personale;
conformazione a Cristo, mediante la mortificazione delle opere della carne.
finalmente!
Non si tornerà mai troppo presto e troppe volte a ricordare queste verità, che un tempo erano convinzioni radicate e inattaccabili, sia nel clero che tra i laici, riguardo alla santità necessaria alla persona del Sacerdote.
<span><span>Q</span><span><span>uesta comunione sacerdotale non si restringe all’ambito diocesano: </span>i presbiteri sono uniti in fraternità sacramentale in modo ontologico e non solo giuridico<span>. Il Concilio perciò ricorda che «il dono spirituale che i presbiteri hanno ricevuto nell’ordinazione, </span>non li prepara ad una missione limitata e ristretta, bensì ad una missione di salvezza vastissima ed universale<span> [...], </span>infatti qualsiasi ministero sacerdotale partecipa della stessa ampiezza universale della missione affidata da Cristo agli apostoli<span>» (PO 10: AAS 58 [1966], p. 1008). Questo insegnamento è molto importante e si coordina col precedente: il presbitero (in particolare il presbitero diocesano) vive ed opera radicato in una Chiesa particolare – che comunque non avrebbe senso separata dalla Chiesa universale – e legato al suo vescovo ed al suo presbiterio, ma ciò non implica affatto una visione ristretta o persino localistica del ministero presbiterale. PO, al contrario, insegna a più riprese che i presbiteri devono coltivare uno sguardo universale (si vedano in particolare i nn. 6; 10; 14; 17).</span></span></span>
RispondiEliminaquesto è il grande respiro cattolico, di universalità... e tra l'altro non si disdegna di parlare di "unione <span>ontologica</span>" (ontologico è un termine che ci porta direttamente al Soprannaturale, che quasi non si nomina più), che è unione in Cristo Signore e comporta anche e soprattutto per il sacerdote la 'conformazione' a Lui... com'è lontano questo dalla visione limitata, particolaristica, limitata alla comunità o all'ambito di appartenenza -che in essa radica in maniera esclusiva-, molto più diffusa di quanto si possa immaginare!!!!
<span><span><span>Q</span><span><span>uesta comunione sacerdotale non si restringe all’ambito diocesano: </span>i presbiteri sono uniti in fraternità sacramentale in modo ontologico e non solo giuridico<span>. Il Concilio perciò ricorda che «il dono spirituale che i presbiteri hanno ricevuto nell’ordinazione, </span>non li prepara ad una missione limitata e ristretta, bensì ad una missione di salvezza vastissima ed universale<span> [...], </span>infatti qualsiasi ministero sacerdotale partecipa della stessa ampiezza universale della missione affidata da Cristo agli apostoli<span>» (PO 10: AAS 58 [1966], p. 1008). Questo insegnamento è molto importante e si coordina col precedente: il presbitero (in particolare il presbitero diocesano) vive ed opera radicato in una Chiesa particolare – che comunque non avrebbe senso separata dalla Chiesa universale – e legato al suo vescovo ed al suo presbiterio, ma ciò non implica affatto una visione ristretta o persino localistica del ministero presbiterale. PO, al contrario, insegna a più riprese che i presbiteri devono coltivare uno sguardo universale (si vedano in particolare i nn. 6; 10; 14; 17).</span></span></span>
RispondiEliminaquesto è il grande respiro cattolico, di universalità... e tra l'altro non si disdegna di parlare di "unione<span>ontologica</span>" (ontologico è un termine che ci porta direttamente al Soprannaturale, che quasi non si nomina piu'), che è unione in Cristo Signore e comporta anche e soprattutto per il sacerdote la 'conformazione' a Lui... com'è lontano questo dalla visione limitata, particolaristica, limitata alla comunità o all'ambito di appartenenza -che in essa radica in maniera esclusiva-, molto più diffusa di quanto si possa immaginare!!!!</span>