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martedì 16 febbraio 2010

Echi tridentini in letteratura: Giuseppe Gioachino Belli (2)

Nella sua proclamata intenzione di innalzare un monumento
letterario alla plebe romana del primo Ottocento, Giuseppe Gioachino Belli (1791-1863) doveva inevitabilmente confrontarsi e scontrarsi con la cultura ecclesiastica del tempo. Protagonisti indimenticabili dei 2279 sonetti in dialetto romanesco sono – accanto a popolani, artigiani, servitori, osti, nobili, turisti e prostitute – chierici, preti, monsignori, funzionari di curia, papi e cardinali. La lingua dei sonetti risulta da un impasto originalissimo di sguaiataggine plebea e ricercatezza ben oltre i limiti del grottesco; i riferimenti colti scendono da una rilettura popolare della Bibbia, mediata attraverso prediche, canti liturgici in latino, fervorini in confessionale, più o meno mal compresi e confrontati col linguaggio osceno e tenerissimo del teatrino da strada e da
osteria. Chi voglia ricercare echi della liturgia “tridentina” in letteratura e non abbia timore di sottoporsi alla grandine dell’irriverenza, della provocazione satirica, della fustigazione dei valori dominanti, fino al rischio della blasfemia, troverà nei sonetti del Belli una vigna molto ricca, in cui vendemmiare – come è l’uso popolare – ridendo forte e modulando canzonacce.

[Alla saggezza della Chiesa tridentina – e ai suoi Manuali per confessori – è sempre stata chiara l’opportunità di lasciare al popolo, soprattutto nei momenti di maggiore fatica e stress, un’occasione di sfogo, per riprendere fiato e predisporsi poi di nuovo al basto e alla soma. Sant’Alfonso chiedeva ai confessori il massimo della carità e della comprensione per il linguaggio osceno cui trascendevano di solito mietitori e vendemmiatori. Un proverbio contadino dell’Alto Lazio opinava, sornione e iperbolico: “San Spirito nun vale / a velegna (vendemmia) e a carnevale”.]
[I lettori che avessero, invece, lo stomaco debole, sono pregati di interrompere qui la lettura del post. Giuseppe Gioachino Belli, funzionario del governo papale, buon cattolico con rischi di moralismo, in punto di morte chiese a suo figlio e agli amici di distruggere il manoscritto dei suoi sonetti romaneschi, pressoché tutti inediti. Non gli diedero retta e salvarono un grande capolavoro letterario. Se fu una decisione avveduta è giudizio che lasceremo all’unico in grado di distinguere grano buono e zizzania. Personalmente, “io se fossi Dio” - per dirla con Giorgio Gaber - mi divertirei un mondo a rileggere questi sonetti dando grandi pacche sulle spalle all’anima del loro autore e gomitate allusive e affettuose a quella della sua vittima privilegiata, papa Gregorio XVI.]
*

Sul rito della Cresima – e sulla “percossa” di cui parlavamo qui a proposito di Silvio Pellico – il popolano protagonista ha qualche motivo per borbottare:

(...) Capisco er zignatea, er zignacruccia
l’ojjosanto, la mancia, la bbammace,
le cannele, er compare e la fittuccia;
ma, ssi avessi da dí, doppo der baffo
in ner nome-der-padre, nun me piace
quella malacreanza de lo schiaffo.

[Dal Sonetto 301, “Siconno: Cresima”, 5 dicembre 1831. “Zignatea” e “Zignacruccia” stanno per “signo te signo Crucis”, formula pronunciata dal vescovo ungendo al cresimando la fronte - detta “nomederpadre” con traslato del tutto evidente.]

Il rapporto fra il popolano analfabeta e le tantissime misteriose preghiere in lingua latina genera molto spesso equivoci e fraintendimenti, talvolta con effetti comici ma con un retrogusto amaro: come in questo “Er creditore strapazzato” (sonetto 767 del 17 gennaio 1833), in cui, con la scusa dell’Ufficio divino, due prelati riescono a rinviare ad libitum il pagamento del loro debito nei confronti di un poveraccio:

Te ggiuro, Iggnazzio, ch’è ffaccenna seria
co sti du’ prelatacci de la bbua:
è ccosa propio da sputà un’alteria
p’èsse pagati de la robba sua.
Oggniggiorno se trova sta miseria
che stanno in Coro a ccantà ttutt’e ddua:
Dommine mea melappia mea aperia
e ttòssa mea nun z’abbi in laude tua!
Li preti, dichi tu, ssò bburattini!
Sò bburattini un cazzo, perché cquelli
nun rubbeno a ggnisuno li quadrini.
E cquesti hanno li cori e li ciarvelli
pe ffà mmejjo la parte d’assassini,
e bbuggiarà li poveri fratelli.

[E’ una faccenda seria, con questi due prelatacci dell’accidente: roba che un poveretto, per essere pagato della roba sua, è costretto a sputar sangue. Tutti i giorni, pur di non pagare, si fanno trovare in Coro a cantare: “Domine, labia mea aperies et os meum annuntiabit laudem tuam” – Signore, apri le mie labbra e la mia bocca annuncerà la tua lode.]

Effetto più schiettamente comico è, invece, quello che deriva dal fraintendimento della preghiera liturgica del venerdì santo: “Flectamus genua... Levate”. Il popolano capisce fischi per fiaschi e rimane, giustamente, interdetto:

C’averà ffatto Ggenova, ché er frate
tre vvorte, jjeri a mmessa, co cquer laggno
disse: «Affettamus Genova»; e ’r compaggno
tre antre vorte repricò: «Llevate»?
Ma sse ponno sentí ppiú bbuggiarate?
Cristo, si vvedo cuesta, io me li sfraggno!
E cche ssò le città, ttele de raggno,
paste frolle, miggnè, ffichi, patate?! (...)

[Dal sonetto 827 del 25 gennaio 1833, “La Messa der Venardì Ssanto”. “Miggnè” sta per “bignè”.]

Protagonista del sonetto 1313 (21 giugno 1834: “Lo scardino perso” - uno scaldino da letto che il popolo spiritosamente chiama “il marito”) è invece una popolana che suggerisce a una vicina di casa (o forse a una figlia sposata) il metodo infallibile per ritrovare gli oggetti smarriti: recitare il salmo 90 “Qui habitat in adiutorio Altissimi (...) Quoniam ipse liberavit me de laqueo venantium...”. La trappola dei cacciatori che diviene una misteriosa e magica “Acqua de Venanzio” mi pare una trovata niente male.

Cosa cerchi? er marito? E ffai sta spasa
de ciafrujji che ppare un arzenale?!
Quieta: lo troverai. Mica è un detale:
mica un marito è un zeppo de cerasa.
Si ll’avevi oggi, e nun ha mmesso l’ale
pe vvolà vvia, pòi èsse perzuasa,
fijja mia bbenedetta, che la casa
annisconne e nnun rubba: eh? ddico male?
Io puro un giorno m’ero perza un pavolo:
e azzecca indove poi me lo trovai?
In zaccoccia. Eh sse sa: rruzze der diavolo.
Tu ddi’ er zarmo Cqui-abbita, Lonora;
e all’acqua de Venanzio vederai
che sto bbuggero tuo scapperà ffora.

Per difendersi dai temporali la formula popolaresca deriva, invece, niente meno che dal trisagio del Venerdì Santo (Adorazione della Croce: Improperia): “Sanctus Deus, Sanctus fortis, Sanctus immortalis miserere nobis”. Ce lo ricorda l’incipit del sonetto 1424 “Li pericoli der temporale” (13 gennaio 1835):

Santus Deo, Santusfòrtisi, che scrocchio!
Serra, serra li vetri, Rosalia;
ché, ssarv’oggnuno, viè una porcheria,
te sfraggne, nun zia mai, com’un pidocchio.
Puro lo sai quer c’aricconta zia
c’assuccesse a la nonna der facocchio,
c’arrivò un tòno e la pijjò in un occhio,
che mmanco poté ddí ggesummaria. (...)


Recitare il Rosario in famiglia era una bella abitudine popolare. A volte però la preghiera non interrompeva le faccende domestiche, con effetti esilaranti (vedi il sonetto 569, che noi non riportiamo per brevità). E quando si giungeva alle litanie era sempre presente il rischio di lapsus memoriae:

Ora pre nobbi. Ora pre... Attenta, Nanna:
tu aritorni a zzompà. Ddoppo inviolata
viè, scrofa mia, madre arintemerata.
Fede e rrisarca sta ppiú ggiú una canna.
Ora pre nobbi. Ora pre no... Sguajata!
Ma cche Tturris e bbruggna! che, mmalanna,
Domminus àuria e Vvirgo veneranna!
Virgo cremis, bestiaccia sgazzerata.
Di’ cchiaro quelo Spè coll’ojjo stizzia.
Ora pre nobbi... Alò, Ssede e ssapienza.
Avanti su: Ccausa nostr’allettizzia.
Animo, a tté: Arifugg’impeccatòro.
Reggina profettaro?! Oh cche ppazzienza!
Manco male che vviè: Er zantòru moro.

[Sonetto 1479, 4 febbraio 1835, “Le lettanie de Nannarella”. “Zompà” vuol dire “saltare”. Le invocazioni storpiate sono: Mater inviolata; Mater intemerata; Foederis arca; Turris eburnea; Domus aurea; Virgo veneranda; Virgo clemens; Speculum justitiae; Sedes sapientiae; Causa nostrae laetitiae; Refugium peccatorum; Regina prophetarum; Regina sanctorum omnium.]

La confusione fra il linguaggio della comunicazione quotidiana e alcuni elementi della cultura “alta”, derivanti spesso dalla liturgia, giunge al suo acme in una coppia di sonetti dal titolo “Santaccia de Piazza Montanara” (nn. 599 e 600, 12 dicembre 1832). Piazza Montanara era famosa, all’epoca del Belli, soprattutto per due motivi: vi stazionavano, seduti ad appositi panchetti, “scrivani” pronti per pochi centesimi a fare da segretari agli analfabeti che avevano bisogno di scrivere lettere; vi esercitavano pubblicamente la prostituzione donne (e clienti) giunti al gradino più basso della dignità personale e sociale. La piazza non esiste più, demolita nel corso dei lavori di sventramento di alcune zone centrali della Roma popolare, nei pressi del Campidoglio, giusto cento anni fa: su quei detriti fu edificato l’Altare della Patria (il “Vittoriano”) per celebrare il cinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia.
Ma torniamo a Santaccia, una “dama”, cioè una prostituta, originaria di Tarquinia (quondam “Corneto”). Aveva inventato una sorta di catena di montaggio (ma guarda che razza di lapsus freudiano è saltato fuori!) che permetteva di utilizzare contemporaneamente (al prezzo fisso, popolarissimo, di un baiocco) non solo il vas naturale muliebre (qui chiamato “pelo” o, con riferimento alle monete, “l’arma”) ma anche le “grazie posteriori” (dette “soffietto” o, sempre con termine numismatico, “er zanto”) e le due mani, destra e sinistra, e cioè – gulp! – il cornu Epistolae e il cornu Evangelii (il lato dell’altare in cui venivano letti, rispettivamente, i due testi biblici della Santa Messa). L’irriverenza è inaudita ma confina con un’innocenza quasi edenica. Né è da meno il finale del secondo sonetto, con questo incredibile donnone che al giovane e squattrinato guardone offre una prestazione gratis in suffragio delle anime benedette del Purgatorio!

Santaccia era una dama de Corneto
da toccà ppe rrispetto co li guanti;
e ppiú cche ffussi de castagno o abbeto,
lei sapeva dà rresto a ttutti quanti.
Pijjava li bburrini ppiù screpanti
a quattr'a cquattro cor un zu' segreto:
lei stava in piede; e cquelli, uno davanti
faceva er fatto suo, uno dereto.
Tratanto lei, pe ccontentà er villano,
a ccorno pístola e a ccorno vangelo
ne sbrigava antri dua, uno pe mmano.
E ppe ffà a ttutti poi còmmido er prezzo,
dava e ssoffietto, e mmanichino, e ppelo
uno pell'antro a un bajocchetto er pezzo.

A pproposito dunque de Santaccia
che ddiventava fica da ogni parte,
e coll'arma e ccor zanto e cco le bbraccia
t'ingabbiava l'ucelli a cquarte a cquarte;
è dda sapé cc'un giorno de gran caccia,
mentre lei stava assercitanno l'arte,
un burrinello co l'invidia in faccia
s'era messo a ggodéssela in disparte.
Fra ttanti ucelli in ner vedé un alocco,
“Oh, disse lei, e ttu nun pianti maggio?”
“Bella mia, disse lui, nun ciò er bajocco”.
E cquí Ssantaccia : “Alò, vvièccelo a mmette:
sscéjjete er búscio, e tte lo do in zoffraggio
de quell'anime sante e bbenedette”.

Giuseppe

3 commenti:

  1. La doppia romana (moneta d'oro del valore di 3 scudi ossia 300 baiocchi) aveva le armi del Papa sul dritto e San Pietro sul verso:

    http://numismatica-italiana.lamoneta.it/moneta/W-PIOVIIP1/10

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  2. Complimenti per la levità  con cui hai calato in questo contesto il tema scabroso della poesia del Belli.

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  3. a' redaziò, e io avve ringrazio assai ddà dedica
    ma nu' zo degno
    oggi ho chiuso l'osteria. famo er dijuno
    c'artro ve volevo dì, ah mo me ricordo
    alli leoni l'artro giorno
    j'avete servito npiatto pe palati fini
    solo che ppe arrosicarse er teologo
    nce vonno ortre ai denti boni
    cervelli morto più fini de palati
    a mme a ggente che ssa critica mme piace pure
    pero mme piace quella che ccià er tatto e a curtura
    pecchè quelli che sanno solo spara addosso
    li chiameno assassini

    tanti saluti e mme arreccchimanno

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