Dall'interessante rivista Cultura e Identità. un interessante e approfondito saggio dello studioso Oscar Sanguinetti con un ' addenda su Roger Scruton.
L
L
di Oscar Sanguinetti, n. 11 del 9-3-2016,
Il significato
del termine “conservatore” si può dire abbia riportato un numero
inverosimile di torsioni e di distorsioni — basti ricordare i “comunisti
conservatori”, nemici di Mikhail Gorbaciov al tempo del tentato golpe contro
la perestrojka nel 1991 — nel corso del tempo. Vediamo se è possibile,
in questa sede, anche se poco propizia per ragioni di spazio e di corredo
critico necessariamente scarno, fare un minimo di chiarezza in materia.
1.
Chi non è conservatore
Il termine “conservatore”
fa la sua comparsa nel 1818 come titolo di un periodico monarchico francese, Le
conservateur, che si prefiggeva di «[...] sostenere la religione, il Re,
la libertà, la Carta e la gente rispettabile»[1]:
esprimeva dunque un orientamento spiccatamente e prioritariamente legittimistico, costituzionalistico e “d’ordine”. Tre elementi — la legittimità di origine e di esercizio del potere, un framework di libertà garantite da una carta fondamentale e il desiderio di ripristinare un ordine violato — che si ritroveranno, più o meno accentuati, in tutti i fenomeni di tipo conservatore.
esprimeva dunque un orientamento spiccatamente e prioritariamente legittimistico, costituzionalistico e “d’ordine”. Tre elementi — la legittimità di origine e di esercizio del potere, un framework di libertà garantite da una carta fondamentale e il desiderio di ripristinare un ordine violato — che si ritroveranno, più o meno accentuati, in tutti i fenomeni di tipo conservatore.
Se questo dice
già parecchio, quella di conservatore — come capita con i sostantivi mutuati da
verbi di azione — è una nozione il cui contenuto si focalizza meglio per differenza
e per contrasto.
Conservatore,
ieri come oggi, non è il reazionario, né il legittimista, né il
tradizionalista, né il liberale “di destra”, né il “nazionalista” — più o meno
“popolare” —, né il fascista, né — in tempi più recenti — il “golpista”, né —
invece da sempre — lo xenofobo e nemmeno il populista — che sta oggi tornando
in grande spolvero.
Se brandelli di
conservatorismo, anche di principio, si rinvengono in forma più o meno
consistente in ciascuna di queste posizioni, nessuna di esse però si può
ritenere autenticamente conservatrice. S’impone, anzi, una distinzione netta
fra l’atteggiamento conservatore in quanto tale e l’oggetto nei cui confronti
questo atteggiamento si esplica. Oggi con tutta evidenza il termine viene usato
per “coprire” realtà assai diverse e distanti fra loro, ovvero capita che il
termine sia utilizzato in senso puramente dialettico per connotare
negativamente o “tecnicamente” chi nel frangente concreto si oppone a una
determinata posizione “ulteriore”, indipendentemente dalle idee realmente in
questione. Il conservatorismo vero nomine privilegia un patrimonio ben
preciso di princìpi e di valori e si differenzia dal puro conservatorismo come habitus
psicologico. A esemplificare questo secondo fenomeno, vi è stato chi — e non
si è trattato di pochi esagitati —, nel 1943 ha ritenuto di preferire la
Repubblica Sociale Italiana, guidata dall’astro ormai al suo tramonto di Benito
Mussolini (1883-1945), al Regno del Sud, perché in maggiore “continuità” con il
regime fascista decaduto…
In generale, se
vediamo l’età contemporanea come una dinamica pluriforme di mutamenti a
carattere processuale — da un “meno” a un “più” per i fautori del “progresso” e
da un “più” a un “meno” per chi vi si oppone —, in essa si nota come ogni
stadio del suo sviluppo tende costantemente a generare atteggiamenti radicali,
di “fuga in avanti”, che hanno come contraccolpo atteggiamenti “conservatori”.
Si pensi, per fare un esempio, al liberalismo conservatore della fine del
secolo XIX, in cui prevale il desiderio di difendere le conquiste della sua
fase “aurea”, quella “rivoluzionaria”, che a metà del secolo ha smantellato ciò
che restava del “vecchio regime”, contro l’avanzante socialismo[2].
Oppure al bonapartismo storico, come forma di moderazione ma, nel contempo, di
conservazione e di dilatazione delle conquiste del 1789-1793.
2.
Chi è conservatore
Allora, se si
vuole realmente comprendere il senso della parola “conservatore”, corre
l’obbligo di ancorarne il senso a qualcosa di non transeunte o di soggettivo o
di meramente relativo.
2.1 Il
conservatore
In questa
prospettiva, allora, conservatore, è chi, persona o dottrina, si sente legato in qualche misura a un
determinato retaggio di cultura e di modelli di rapporti sociali che considera
universale e perenne e che, in aggiunta, preferisce, almeno “in prima battuta”,
accedere e sfruttare tale retaggio, mettendosi in continuità con il passato,
per progettare e per governare la società presente e per progettare e
promuovere lo sviluppo della società futura, piuttosto che desiderare la
palingenesi della società del proprio passato, in forme rivoluzionarie o
riformistiche radicali, e la sua riprogettazione in base a criteri nuovi e
razionali, presunti perenni e universali.
È questa
una definizione — ovviamente criticabile e sempre suscettibile di
arricchimento — che contiene tre elementi fondamentali:
a) un
preciso insieme di princìpi e di valori,
b) oggetto di ricezione,
ancorché con “beneficio d’inventario”, dal passato e di trasmissione,
arricchito, alla generazione futura (metodo della tradizione),
c) nonché un modo
di esercitare l’autorità e di progettare la società, ispirato alla riforma
nella continuità con tale nucleo di principi e di valori.
Il conservatore,
come dirà bene Edmund Burke (1729-1797), non vede solo la società fatta dai
viventi suoi contemporanei, ma quella costituita da chi è vissuto prima e da
chi vivrà dopo di lui[3].
Il conservatore
autentico, dunque, non è un misoneista, né un fissista, bensì un riformista che
vuole il progresso, ma nel perfezionamento continuo dell’organismo sociale così
come esso è e nella fedeltà ai suoi princìpi fondativi originari.
Papa Benedetto
XVI (2005-2013), pur con riferimento a realtà di altro ordine, ha utilizzato
una triade di termini esplicativi che mi pare, servata distantia, assai
felicemente applicabile al conservatorismo. Parlando dell’ermeneutica del
Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), egli ha affermato che la lettura
autentica degli insegnamenti di quel concilio è quella che si pone nell’ottica
della «riforma nella continuità del medesimo soggetto-Chiesa»[4].
Dunque, l’innovazione introdotta dal Vaticano II avrebbe comportato tre
elementi: a) una riforma, cioè un mutamento di forma, b) operato da un soggetto
— nella fattispecie la Chiesa fondata da Gesù Cristo —, che è rimasto il
medesimo di prima, perché c) il cambiamento attuato, anche in profondità, si è
posto in continuità con il passato, ovvero non ne ha mutato la natura,
ma l’ha adattata al nuovo tempo.
In analogia — si
badi bene: solo in analogia e allo scopo di meglio intendere — con questo magistrale
e conciso insegnamento teologico — in fin dei conti, frutto di puro buon senso
—, conservatore è allora chi comprende che il tempo che scorre esige
cambiamenti di maggiore o minore rilevanza nell’organismo collettivo di cui fa
parte, sia esso la famiglia o la società nel suo complesso, ma li attua, così
come avviene nella crescita degli organismi naturali, in continuità con il
passato dello stesso organismo e senza mai mutarne la costituzione formale o
implicita.
2.2 Il
progressista
Il contrario del
conservatore è il progressista: questi, se non
adora il cambiamento per il cambiamento, esprime un apprezzamento pregiudiziale
per ciò che viene dopo, per il presente, per il “moderno”, ovvero erige a
criterio di valore non tanto quello che l’“età moderna” contiene — e nell’età
moderna vi è tutto e il contrario di tutto —, bensì, in coerenza con la
semantica del termine, solo ciò che è recente, “nuovo”, “alla moda”. Assume ciè
per definizione che ciò che viene dopo sia superiore in qualità a ciò che era
prima, sottintendendo che quanto è oggi è necessariamente migliore di
ciò che era ieri.
Non solo:
siccome l’oggi muta in continuazione, il progressista si pone quindi in una
logica valoriale perpetuamente mutevole, perennemente in stato di transizione.
Se il conservatore “pende” dal lato dell’essere, di ciò che è permanente,
stabile, che può variare nel modo ma non nella sostanza, il progressista
“pende” dal lato del divenire e, nelle forme estreme dei suoi assunti, come nel
caso del nichilismo e del de-costruzionismo tardo-novecenteschi arriva al punto
da negare non solo il primato dell’essere, ma anche la possibilità stessa di
essere, smette di rivendicare l’assolutezza della soggettività e la
relativizza.
Il progressista
svaluta il passato in quanto tale — non per nulla, per i rivoluzionari francesi
tutto quanto di politico era esistito prima del 1789: la monarchia, i
parlamenti, i ceti, i pays, un millennio di storia della nazione francese,
è indistintamente “antico regime” —; antepone l’apprezzamento del cambiamento a
quello di ciò che esiste e che è stato vissuto,
capitalizzato, arricchito, individualmente e socialmente, nel tempo;
privilegia, al contrario, un futuro idealizzato, quasi sempre pensato in
ricollegamento con una “origine” presunta e idealizzata — ergo utopistica
—, al passato sperimentato e collaudato, nel bene e nel male.
L’opposto del
conservatore predilige la deduzione teorica e astratta — nel senso comune del
termine — rispetto all’analisi empirica del reale e del reale storico; vive in
una perenne tensione verso un nuovo e diverso status quo; l’eredità dei princìpi e dei
valori del passato gli pare inutile; ama forme di azione “di rottura”, siano
esse a modalità “pacifica” e a moto lento — riformismo “rivoluzionario” —
oppure adottino un’andatura veloce — rivoluzionarismo tout court: dai
“giacobini” ai “rivoluzionari di professione”.
2.3 Le
condizioni del conservatorismo e del progressismo
Affinché si
originino posizioni e forze conservatrici in senso proprio — così come forze
progressiste —, occorre che vi sia un “ambiente” che lo consenta, una
condizione preliminare, un humus in cui esse possano prendere
liberamente forma. In àmbito politico, cioè nella sede dove vengono prese le
decisioni in nome e per conto dei membri della società, ciò può avvenire quando
il sistema preveda il libero confronto di forze portatrici di visioni diverse
del presente e del futuro della società, ossia vi sia un relativo pluralismo.
Senza escludere
che ciò possa avvenire in modalità particolari e attraverso canali informali —
quanto meno in assetti sociali complessi —, quindi, al limite, anche
all’interno di regimi autocratici o “assoluti”, più tipicamente questo ambiente
si concretizza negli ordinamenti di tipo costituzionale-parlamentare, come
quelli britannici successivi al 1688 e quelli che nascono nella e all’indomani
della Rivoluzione del 1789 in Francia. Nei parlamenti pre-moderni come quello
britannico, vi è sempre stata una polarità fra “partito del re” e “partito del
parlamento”, in cui si rifletteva la dialettica fra potere monarchico, corpi
del regno — le aristocrazie — e rappresentanza dei corpi della nazione. In
genere, il “partito del re” aveva tendenze più marcatamente continuistiche e
quello del “parlamento” coltivava maggiori istanze libertarie, in entrambi i
casi con riferimento a patti sociali e a “carte di diritti” originari, scriti o
non scritti. Altrettanto avveniva nei parlamenti, centrali o regionali, delle
altre monarchie europee, dove la dialettica in genere era ristretta a quella
fra potere monarchico e poteri dell’aristocrazia terriera.
Ma, in entrambi
i contesti, non era detto che il “partito del re” fosse il partito
conservatore: specialmente quando si entra nell’età dell’assolutismo monarchico, più o meno illuminato, i
parlamenti attuano forme di resistenza — se non di conflitto — sempre più
intense, rivendicando i diritti sociali negati o limitati dalla dilatazione del
potere del sovrano.
Quello che
distingue le forme parlamentari e i processi di decisione per consenso esteso
di prima del 1789 da quelle del parlamentarismo moderno è la presenza di un pluralismo
ideologico accentuato fra i vari gruppi assembleari; l’esistenza di una carta
fondamentale formalmente redatta e promulgata che fa da cornice e da limite al
gioco politico; regole formali rigide; e una rappresentanza su base individuale
e più o meno egualitaria ed estesa.
Tutto questo
breve excursus eziologico serve a dire che di conservatorismo — così
come di liberalismo — vero nomine si può cominciare a parlare solo dopo
la Rivoluzione francese.
3.
Che cosa comporta essere conservatore
3.1 Il
“decalogo” del conservatore
L’essenza del
pensiero conservatore — di quello fiorito negli Stati Uniti d’America, ma con
buona approssimazione anche di quello europeo — è riassunta dal politologo e
letterato americano del secolo scorso Russell Amos Kirk
(1918-1994) in dieci caratteri principali[5]: a)
la fede in un ordine morale perenne; b) la fiducia nelle usanze, nelle
convenzioni e nella continuità; c) la dispensa dal dovere di giustificare determinati istituti e valori,
cui basta la loro antichità; d) la pratica del “principio di precauzione” in
politica; e) la propensione per la varietà e non per l’uniformità; f) la
diffidenza verso il “perfettismo” e verso chi sostiene l’infinita
perfezionabilità della natura umana; g) la credenza che esista un legame
strutturale fra proprietà e libertà; h) l’amore per la comunità e l’avversione
per il collettivismo; i) la preferenza per un potere politico ridotto rispetto
alla società; l) il riconoscimento della necessità di conciliare elementi di
permanenza ed elementi di cambiamento in relazione alla società.
3.2 Conservatore
e contro-rivoluzionario
Come nel caso di
altri termini — si pensi alla stessa espressione, già menzionata, di “antico regime”
—, la semantica di “conservatore” appare oggi influenzata nettamente in senso
negativo dal paradigma dinamico-dialettico che domina nel pensiero moderno in
Occidente, almeno a partire dall’Illuminismo. Chi professa un determinato
insieme di idee non è giudicato in base a esse, bensì dal suo atteggiamento,
favorevole o contrario, dal suo posizionamento, positivo o negativo,
all’interno del flusso unidirezionale e fatalmente ascendente cui è ridotta la
storia umana. Sicuramente, chi alla fine del Settecento coltivava idee
“conservatrici” non si sentiva, né si autodefiniva conservatore. Magari
“partigiano del re”, lealista, filo-aristocratico o semplicemente “uomo
d’ordine”, con propensione a fare “come i nostri vecchi”: il vecchio mondo nel
suo empirismo rifuggiva dai concetti e dalle terminologie generali e astratte.
Storicamente,
per quanto detto prima, la figura del “conservatore” prende corpo in un
contesto di alta pressione rivoluzionaria, in una condizione in cui la
negazione del passato e la volontà di fare tabula rasa dell’intero mondo
“antico”, dagli Egizi o dai Sumeri fino a Luigi XVI di Borbone (1754-1793),
sono espresse non più in forme accademiche o nel chiuso apparentemente innocuo
delle logge, ma si trovano incarnate in movimenti concreti, che a poco a poco
smantellano la vecchia Francia e la vecchia Europa per creare un ordine nuovo.
Per questo l’atteggiamento del conservatore a quel tempo non può non essere
prioritariamente reattivo e contro-rivoluzionario e, sotto questo profilo, la
vicenda umana di Edmund Burke è esemplare.
La parola
“contro-rivoluzionario” pone maggiormente l’accento, appunto, sul momento
“insorgente” e autodifensivo, diagnostico e terapeutico immediato, ma negli
anni della tragica dittatura giacobina imporsi un atteggiamento diverso è
davvero impensabile.
E lo stesso
avverrà, tutto sommato, ancora nel corso della Restaurazione, quando i pochi
uomini politici conservatori, quali Antonio Capece Minutolo (1768-1838),
principe di Canosa — in seno alla monarchia napoletana —, e, più tardi, il
conte Clemente Solaro della Margarita (1792-1869) — nel regno sabaudo — si
accorgeranno che la reazione dei sovrani era ben lungi dal voler realmente
soffocare tutti i fermenti rivoluzionari manifestatisi del trentennio
precedente e inibiva la ricostruzione dei “tessuti connettivi” sociali e
religiosi corrosi e bruciati dalla Rivoluzione.
Ma, a mio
avviso, anche se nell’Età Moderna i fenomeni rivoluzionari, grandi e piccoli,
costituiscono senza ombra di dubbio la dominante, l’atteggiamento
contro-rivoluzionario si pone al conservatorismo come la specie al genere.
3.3 La
“ragione conservatrice” e l’ordine naturale
Osservando più
da vicino i contenuti, le idee conservatrici, fra gli elementi che formano la
continuità eretta a principio, privilegiano specialmente quelli che la ragione
concepisce come “naturali”, cioè tutti quei presìdi e sussidi organizzati e
riconosciuti — ovvero istituzionalizzati —, di cui l’esistenza materiale e
morale, individuale e comunitaria, dell’umanità necessita assolutamente. La
logica che anima il conservatore non è riconducibile a quella ragione che
“costruisce” il reale, come nel caso dell’idealismo, o lo “de-costruisce”, come
nel caso del pensiero “debole” postmoderno, ma della ragione “realista”, capace
cioè di riconoscere che è altro rispetto al soggetto — le cose e le altre
persone —, di conoscerlo in maniera sufficiente, ancorché non perfetta, di
riconoscervi impresso altresì un logos, un criterio, un ordine, che non
è l’uomo — bensì il Logos divino — a instaurare e regolare. Una ragione
che non si limita alla logica delle scienze esatte, ma si lascia illuminare
dalla logica ordinaria, dal common sense, dal comune lume di ragione
naturale, dalla “ragione allargata”[6],
che tiene conto dell’ordine naturale — rammentando che “naturale” viene da “nascor”,
cioè dice riferimento a qualcosa di nativo che non dipende da noi — e di quanto
è costante nella storia, quindi nell’identità, di un popolo e di tutti i
popoli.
Il conservatore è attento
per prima cosa ai delicati capisaldi immateriali e materiali
che presiedono alla vita dell’individuo nella collettività: i costumi e i riti
religiosi; il diritto a nascere e a vivere; il retto uso di ragione;
l’esistenza, l’organicità e la personalità dei vincoli sociali; gli istituti di
vita collettiva sperimentati nel tempo; l’anteriorità dell’individuo e della
società rispetto allo Stato; la proprietà del frutto del proprio lavoro e dei
beni ereditati; la libertà economica; la sussidiarietà dei ruoli sociali;
l’onestà dei costumi; l’autonomia di governo del territorio e la sovranità
relativa dei corpi intermedi; il primato delle appartenenze corporate rispetto
ai diritti individuali; un amore di patria non astratto, né sentimentale —
l’amor patrio dei “giacobini” o dei romantici
—, né autoreferenziale; l’autorità e la gerarchia; il rispetto
dell’uomo religioso e del miles.
A questa mini-summa
di princìpi e di valori — che non ha alcuna pretesa di essere completa o
definitiva — il conservatore associa il metodo della tradizione, ovvero la trasmissione
preferenziale dei valori, dei saperi e delle tecniche umani attraverso i legami
che si creano fra le diverse generazioni, soprattutto lungo le delicate
nervature parentali, prima articolazione del nucleo primordiale della società,
cioè della famiglia.
Anzi, quello
familiare è in certa misura il modello che tutte le altre articolazioni della
società umana devono ricalcare, dall’autorità politica alle professioni,
all’impresa, alla scuola. Il Medioevo, una età in cui l’atteggiamento
conservatore è stato dominante, ha posto — con le debite eccezioni, che però
non inficiano l’analogia — al vertice della società politica una famiglia
regnante e una dinastia; ha governato le attività economiche attraverso la
corporazione, dove il magister artium era per i giovani apprendisti il
sostituto temporaneo del padre; ha dato all’educazione intellettuale, tanto
elementare, quanto universitaria, la forma dell’affido da famiglia a famiglia —
naturale o spirituale —; ha costruito le sue gerarchie sul rapporto vassallatico,
e così via.
Ciò detto,
paiono necessarie almeno due puntualizzazioni.
3.4 «La
tradizione è critica»
La prima è che
il pregiudizio favorevole nei confronti dell’esistente che anima il
conservatore non è, comunque, il criterio determinante e ultimo delle sue scelte. Il leader dell’Action Française
— movimento, che per più di un aspetto, anche se non per tutti, si può
ascrivere al mondo conservatore —,
Charles Maurras (1868-1952), scriveva nel 1937 che «la
tradizione è critica»[7], vale a dire che mantenere la
continuità con quanto ci precede è la miglior regola, purché però quanto viene
trasmesso — per inerzia generazionale o volontariamente — e ricevuto sia
qualcosa meritevole di essere mantenuto: attaccarsi, per esempio, a un regime
totalitario solo perché c’è o perché c’era prima non può essere assunto come
esempio di sano conservatorismo...
Nel depositum
di princìpi e di valori, di giudizi e di credenze capitalizzato dalle
generazioni e che arriva fino al suo presente il conservatore dunque scevera il
“grano” dal “loglio”, ciò che è buono da ciò che è cattivo, ciò che è perenne
da ciò che è accumulo accidentale e transeunte, e da ciò che è
solo vetusto: in altre parole,
trattiene ciò che è vivente e abbandona ciò che è
“morto”. Questa azione di discernimento e di discriminazione può
avvenire tuttavia solo in presenza di un criterio che svincoli dal contingente.
Il conservatore rinviene l’elemento di continuità nell’ordine del creato, nella
retta nozione di umanità e nella conformità al diritto naturale,
nell’attenzione una rivelazione originaria: dimensioni tutte che sfuggono al
perpetuo mutamento che avviene nella storia.
Tutto ciò che è
abusivo, frutto di convenzione caduca, di stereotipo, di conformismo o cliché
inverificato, interesse personale, prassi abitudinaria, cade invece al di
fuori di questo nucleo “duro e puro” ed esula dalla sfera di un corretto
atteggiamento conservativo.
3.5 Conservatorismo,
religione, forma politica e opzione economica
La seconda
puntualizzazione dice che il patrimonio di princìpi e valori del
conservatorismo non è determinato strettamente
da scelte di fede — cristiana o di altra natura — o preferenze di regime
politico — monarchia o repubblica — o di sistemi economici — liberismo o
solidarismo —, e così via. Vi sono stati cristiani rivoluzionari, monarchici
eversivi, pseudo-solidarismi che hanno affamato il popolo. Così come vi sono
stati e vi sono protestanti che hanno conservato vivo il senso della tradizione,
repubblicani nemici del radicalismo anti-monarchico, liberisti politicamente
non relativisti.
4.
Breve digressione sull’oggi e sull’Italia
Mi permetto a
questo punto una breve digressione rivolta all’oggi.
Se in Europa il
conservatorismo rimanda in essenza a un nucleo di princìpi — ovviamente non di
forme — risalente a prima dell’Ottantanove, nel mondo nord-americano il
conservatorismo si esprime in riferimento ai diritti umani perenni, alla
tradizione e alla simbologia bibliche, nel quadro “laico” di valori e di limiti
fissati dalla Costituzione federale: la lotta politica, il confronto fra
conservatori e liberal, si sviluppa per lo più intorno al tentativo di
dare maggior o minor risalto a questo o a quel punto del dettato delle Carte
fondamentali. In America non è neppure
pensabile di contrapporre la Costituzione al disegno conservatore — o presunto
tale — al fine di “stopparlo”, anzi i conservatori reagiscono contro ogni
“torsione” in senso progressista della carta federale.
In Italia,
viceversa, ogni fondata critica al regime politico sotteso alla Costituzione
repubblicana del 1948, nonostante i sempre più netti limiti che questa
evidenzia, cozza contro la Costituzione, venendo censurata preventivamente, in
un evidente gioco “conservatore” alla rovescia, che cioè difende gl’ideologismi
inscritti nella Carta come frutto del compromesso fra cattolici-democratici,
comunisti e liberali contro ogni evidenza empirica dei suoi limiti. Quanto la
Costituzione, nei valori e nei meccanismi politici identificati, sia “afona” o
equivoca o disattesa rispetto al mutare della realtà lo dimostra in maniera
incontrovertibile il numero ormai incalcolabile di forzature che il suo dettato
ha subìto, dal ruolo esorbitante del presidente della Repubblica, alla pratica
auto-referenzialità della magistratura,
alle prassi parlamentari coartate, al ruolo mai disciplinato dei sindacati dei
lavoratori, all’istituto della famiglia naturale mai veramente tutelata e
sostenuta.
In Italia un
programma conservatore difficilmente può pensare di prescindere, almeno sul
lungo periodo, da un riallineamento “progressista” — che cioè tenga conto del
tempo trascorso — e un sano “aggiornamento” della Carta fondamentale dello
Stato, fin dalla nascita troppo “asimmetrica” rispetto all’ethos profondo
di una delle più antiche nazioni e culture del mondo; eccessivamente affollata
di paradigmi propri di ideologie che hanno dichiarato bancarotta dopo il 1989;
e anche tecnicamente piena di lacune e di elementi cautelativi oggi privi di
senso.
Al contrario, la
strategia conservatrice statunitense sottolineare gli aspetti della Costituzione americana più libertari, più
favorevoli al singolo, più ostili allo statalismo, che riflettono meglio la
cultura anglo-sassone delle origini, una cultura ancora largamente ispirata da
paradigmi premoderni, che le successive incrostazioni progressiste hanno a poco
a poco nascosto, almeno fino alla metà del secolo scorso. Mentre i progressisti
si adoperano per scardinare gli impedimenti che la vecchia Carta libertaria, ma
fondata sul common sense e sul riconoscimento “laico” del dato religioso
e dell’ordine creato, pone al progetto del Big Government e del dirigismo dei
“puri”[8].
La società,
l’ordine collettivo, che i fondatori degli Stati Uniti hanno delineato e i
conservatori americani vero nomine del Novecento si sono sforzati di far
riaffiorare e di salvaguardare, almeno nelle sue linee portanti può essere
forse giudicata da un conservatore europeo un regime spurio, troppo pieno di
elementi “democratici”, eccessivamente individualistico e troppo pluralistico
in campo religioso.
In realtà, le
conseguenze della presenza e delle virtualità conservatrici insite nella
costituzione degli Stati Uniti, in virtù del loro anti-assolutismo genuino e
radicale, del loro nativo federalismo statale e sociale[9],
sono molte e dirompenti.
A differenza
dell’Europa, negli Stati Uniti la religione è
la sostanza, il substrato dell’ethos pubblico laico;
sebbene controverso, vi è il diritto per il cittadino di portare liberamente le
armi; non esistono i prefetti; i pubblici accusatori; i giudici; i poliziotti e
gli sceriffi; gl’insegnanti; persino i pastori delle comunità religiose, sono
tutte cariche o funzioni pubbliche a nomina popolare.
La
rappresentanza politica nazionale è su base individuale, ma viene abbondantemente corretta dalla rappresentatività
dei singoli Stati. Le legislazioni, anche le norme fiscali, a livello degli
Stati non sono tutte identiche. Gli Stati Uniti non conoscono carta d’identità,
né coscrizione obbligatoria, né cimiteri municipali. Non vi sono monopoli, né
tasse sui petroli e sui tabacchi. Fino ad anni recenti non esistevano
assicurazioni — previdenziali o civili — obbligatorie. Le tasse non sono ad
aliquota progressiva e non sono trattenute in anticipo — che il datore di
lavoro possa essere il “sostituto d’imposta” è letteralmente impensabile —, ma
pagate ex post: non sono esose, ma la loro esazione è rigorosa e pesanti
sono le pene per gli evasori. Non esiste liquidazione di fine-rapporto di
lavoro. L’assistenza sanitaria è stata per secoli — fino alla contestata
riforma “Obamacare” (ovvero il Patient Protection and Affordable Care Act del
marzo 2010) — in larghissima misura privata, così come la scuola pubblica “di
ogni ordine e grado”, dall’asilo al collegio universitario. Addirittura, è una
realtà diffusa e riconosciuta la prassi dell’homeschooling, ovvero
l’istruzione primaria impartita dalla famiglia o da gruppi di famiglie a casa propria. Il diritto civile e
penale è di tipo consuetudinario: non esistono codici, in perenne riforma e in
cangiante ermeneutica. La maggior parte dei servizi pubblici, dai telefoni ai
trasporti, è affidata a soggetti non statali. E
l’elenco potrebbe continuare...
In conclusione,
in America le strutture pubbliche sono mantenute al livello del minimo
necessario e lo Stato — autentico “sogno proibito” del conservatore europeo —
vi si mantiene incomparabilmente più “leggero”, nonostante gli sforzi verso il
“big government” — cioè la dilatazione della sfera governativa nella
prospettiva di uno Stato sociale all’europea — dei liberal.
5.
Concludendo...
Concludendo, un
conservatorismo che voglia dire la sua nel futuro del nostro Paese dovrebbe
tornare a riconsiderare la propria identità nei termini che ho cercato di
descrivere e che mi paiono il cardine di un qualunque programma politico con
esso coerente; inoltre dovrebbe far tesoro delle esperienze fatte oltre
Atlantico, sia nel momento fondativo, sia nella vicenda politica ormai
plurisecolare che ruota intorno alla difesa critica dell’eredità del passato da
ogni abusivismo “progressista” e alla edificazione di una società del terzo
millennio in continuità con le origini e con l’identità autentiche della
nazione.
Omar Ebrahime presenta l’ultimo saggio dello scrittore
conservatore inglese Roger Scruton, da poco apparso in traduzione italiana. Una
mappa aggiornata del suo pensiero e un compendio ordinato dei molteplici spunti
e riflessioni di intonazione conservatrice che l’autore ha disseminato nei
numerosi volumi da lui editi
Come e perché essere conservatori secondo Roger
Scruton
di Omar Ebrahime
La collana Biblioteca
di studi conservatori diretta da Oscar Sanguinetti per l’editore D’Ettoris,
dopo i due profili ragionati sul sacerdote intransigente ligure don Giacomo
Margotti (1823-1887) (cfr. O. Sanguinetti,
Cattolici e Risorgimento. Appunti per una biografia di don Giacomo Margotti,
D’Ettoris Editori, Crotone 2012) e sul pensatore cattolico convertito
statunitense Orestes A. Brownson (1803-1876) (cfr. Idem, Alle origini del conservatorismo americano. Orestes
Augustus Brownson: la vita, le idee, prefazione di Antonio Donno, D’Ettoris
Editori, Crotone 2013) — già recensite a firma del sottoscritto su
questa rivista — si arricchisce ora di un vero e proprio manifesto
programmatico a tutto tondo della cultura conservatrice contemporanea, intesa lato
sensu e non solo in senso politico-partitico.
Ne è autore il
filosofo inglese, già accademico e scrittore, Roger Scruton e l’edizione
italiana è a cura ancora di Sanguinetti (cfr. R.
Scruton, Essere conservatore [titolo originale: How to be a
Conservative], trad. it., D’Ettoris Editori, Crotone 2015, 296 pp., €
20,90).
* * *
Nella Premessa
al saggio (pp. 7-14) è lo stesso Sanguinetti a spiegare infatti i «[...]
Leitmotiv che intessono la sua
multiforme e ricca argomentazione: la credenza che vi siano nella
tradizione “cose buone”, che vale la pena di conservare — o, almeno, di
valutare criticamente prima di disfarsene —; quindi che la società è un
organismo, che comprende i viventi, ma anche le spesso corpose vestigia di
coloro che sono vissuti prima, nonché i diritti di chi ancora deve nascere;
infine, che la comunità politica per essere tale deve prima essere una
comunità, un soggetto collettivo strutturato: il potere politico viene dopo,
essendone solo una emanazione, sì che la società non può imporre a un organismo
creatosi spontaneamente nella storia nulla che non sia in perfetta linea con le
tradizioni e i desiderata di questo» (pp. 12-13).
Esplicitato in
termini ancora più estesi, con le parole dell’Autore nell’Introduzione (pp.
5-18), questo significa che «il conservatorismo […] afferma che noi,
in quanto collettività, abbiamo ereditato delle cose buone e dobbiamo sforzarci
di conservarle. Noi, eredi della parte anglofona della civiltà occidentale,
sappiamo bene che cosa sono queste cose buone nella condizione in cui oggi ci
troviamo: l’opportunità di vivere la nostra vita come vogliamo; la certezza
dell’imparzialità del diritto, che fa sì che le nostre istanze di giustizia
trovino risposta e le offese subìte siano riparate; la tutela dell’ambiente
come patrimonio di tutti e che non può essere espropriato o distrutto a
capriccio degl’interessi dei potenti; una cultura aperta e viva, che ha
plasmato le nostre scuole e università; il metodo democratico, che ci permette
di eleggere chi ci rappresenta e di promuovere quelle leggi che vogliamo siano
promulgate: queste e molte altre cose ci sono ormai familiari e le diamo per
scontate. Ma tutte queste cose sono oggi in pericolo e il conservatorismo è la
risposta razionale a tale pericolo. Forse si tratta di una risposta che
richiede doti di comprensione maggiori di quelle che la gente comune è disposta
a dedicarle. Ma il conservatorismo è l’unica risposta alle realtà che oggi ci
si prospettano: in questo libro cercherò di dire, quanto più succintamente mi riuscirà,
perché sarebbe irrazionale darne una diversa» (p. 17).
Scruton è ben
consapevole del fatto che — nonostante il termine “conservatorismo” sia
radicato da tempo nelle culture anglosassone e statunitense, se non altro in
ragione di partiti e movimenti popolari che usano definirsi così pubblicamente —
argomentare in favore delle ragioni del conservatorismo e dirsi onestamente
conservatori è tutt’altro che accettato ai giorni nostri, anche e soprattutto a
livello educativo e culturale, dal momento che in quei campi, come in altri, ma
lì particolarmente, i vertici istituzionali sono tutti di estrazione
ultra-progressista e/o radical chic. Tuttavia, il conservatorismo
resiste sempre e comunque a ogni tentativo di cancellazione, violenta e non,
persino quando non trova un’adeguata rappresentanza politica, proprio perché
rimanda istintivamente a un abito naturale prima ancora che a qualcosa di
costruito intellettualmente. La prova ne è che quando amiamo qualcosa,
qualsiasi cosa, in quel campo siamo tutti conservatori, per il semplice fatto
che quando amiamo una cosa non la vogliamo mai perdere, né cambiare. A un
livello lievemente più alto possiamo
osservare, poi, che ciò che ci garantisce le conquiste fondamentali della
nostra società, quelle a cui siamo più attaccati nel vivere quotidiano, come
l’esercizio personale della libertà e la tutela della proprietà, ci vengono
anch’esse da molto lontano: in questo senso la giurisprudenza britannica del common
law — con le sue secolari tradizioni medievali valide per l’oggi —
per esempio, è essa stessa un simbolo parlante del valore perenne del
conservatorismo (giuridico, in quel caso).
Così, si può
dire che il conservatorismo rimanda anzitutto al reale e alle evidenze
circostanti della realtà: ci dice chi siamo, famigliarmente, comunitariamente,
collettivamente e dove abbiamo avuto origine dichiarando al contempo, ergo
che cosa non siamo e che cosa non fa parte di noi. Un’ovvietà innegabile quindi
dovrebbe essere che il nostro spirito profondo e la nostra civiltà — anche
in tempi di globalizzazione “2.0” — restano ancora e sempre cristiani e
non, per dirne una, atei, agnostici o musulmani. Beninteso, non è solo un dato
estetico di interpretazioni gius-filosofiche dotte o un corpo di note
archeologico-museali particolarmente colte a piè di pagina: è il fatto che la
tradizione sociale della nostra civiltà si è costruita stabilmente intorno ai
due atti principali che connotano da sempre la natura del sacrificio cristiano,
ovvero la confessione e il perdono: «Chi si confessa, sacrifica il suo
orgoglio, mentre chi perdona sacrifica il suo rancore, rinunciando a qualcosa
che gli è caro. Confessione e perdono sono le due abitudini che hanno
contribuito alla nascita della nostra civiltà» (p. 41), in cui la
responsabilità personale non a caso è diventata il criterio trasversale di
giudizio pubblico unanimemente riconosciuto, nell’agone propriamente politico,
dove evidentemente i “governi” rispondono del loro operato al corpo elettorale,
come più in generale nell’agire sociale. Per questo, chi —
istituzionalmente o religiosamente — si pone in oggettivo contrasto con
l’identità di questa tradizione assume per Scruton il volto inquietante del
nemico, che sia l’agnostica Unione Europea, riflesso di «una classe
politica tendente ad autoperpetuarsi» (p. 71), “costituzionalmente”
negazionista verso la sua eredità cristiana, o che sia la variegata galassia
dell’islam, che per ovvi motivi la
aggredisce e la combatte radicalmente, dentro e fuori i confini geografici del
Vecchio Continente.
* * *
Restano tuttavia
ancora inevase le domande su come si qualifichi teoricamente il patrimonio
dottrinale conservatore e che cosa lo contraddistingua in sostanza come quadro
intellettuale, giacché darne una definizione rigorosa anche per uno studioso di
scienza politica non risulta affatto facile. Anzi, con un paradosso, si
potrebbe dire che mentre è relativamente facile definire il pensiero
socialista, radicale o in ogni caso, “di sinistra”, resta, ieri come oggi,
quanto mai complicato fare la stessa operazione “a destra”, se con questo
termine ci si riferisce per l’appunto non alle teorie economiche liberistiche —
che hanno evidentemente un loro corpus ideale storicamente ben noto —
e nemmeno al liberalismo moderno, nelle sue varie accezioni anglosassoni o
francesi originarie, quanto piuttosto al conservatorismo sociopolitico vero
nomine, che si richiama allo scrigno “silenzioso” della tradizione
culturale e spirituale ricevuta in eredità dai propri padri e dalle generazioni
precedenti: «Quando si parla di tradizione, non s’intende un insieme di
regole e di convenzioni arbitrarie: si parla delle risposte che sono state
trovate a domande perenni. Queste risposte sono tacite, condivise, incarnate in
pratiche sociali e in aspettative implicite. Coloro che le fanno proprie non
sono necessariamente capaci di spiegarle e ancor meno di giustificarle. Per
questo Burke le descriveva come “pregiudizi” e le difendeva sulla base del
fatto che, anche se la provvista di ragione in ogni individuo è limitata, nella
società esiste un “capitale” di ragione che si può mettere in discussione e
rifiutare solo a proprio rischio e pericolo. La ragione si manifesta in ciò di
cui non si ragiona, e forse non si può ragionare, ed è proprio questo che
scorgiamo nelle tradizioni, comprese quelle che hanno al loro cuore
l’abnegazione, come l’onore militare, i vincoli familiari, le forme e i
percorsi formativi, le istituzioni caritative e le regole della buona
educazione» (pp. 47-48).
A questo straordinario
patrimonio “immateriale” si sono opposte, soprattutto negli ultimi due secoli,
le cosiddette “ideologie”, che, con i loro particolari riduzionismi astratti,
hanno preso progressivamente il sopravvento sulle esigenze della realtà: così,
dal nazionalismo al socialismo, dal liberalismo al multiculturalismo,
dall’ambientalismo all’internazionalismo, il saggio di Scruton è dedicato
proprio a mettere sotto la lente d’ingrandimento — capitolo per capitolo
— le singole interpretazioni parziali del reale, che, nel corso del
tempo della modernità — poi post-modernità —, sono penetrate
nondimeno nel corpo sociale occidentale — un tempo cristiano, anzi
coincidente tout court con la civitas christiana, cioè l’Europa —,
trasformandone idee, gusti e soprattutto comportamenti, i modi di vivere e
d’intendere lo “stare insieme” e la grammatica stessa dei rapporti sociali fino
a delineare quella vera e propria “società liquida”, “atomizzata”, o “a
coriandoli”, per riprendere tre recenti definizioni di successo di altrettanti
sociologi contemporanei in relazione alla composizione — o, meglio e più
precisamente, alla “disgregazione” — dell’attuale società occidentale.
Per uscirne,
prima che entrare direttamente nel campi di battaglia della politica
parlamentare, Scruton suggerisce allora di riconquistare gli spazi di libertà
perduti, anzitutto partendo dal basso, perché il conservatore si preoccupa in
primis di salvaguardare l’autonomia dei corpi intermedi e
dell’associazionismo locale rispetto allo Stato, il “senso comune” naturalmente
presente nella società civile, a partire dalla famiglia e dalle relazioni, che
si costruiscono da questa, e quindi tutto ciò che di “bello” esiste intorno a
noi e contribuisce a rendere questo mondo, pur con i suoi limiti, più vivibile
e “a misura d’uomo”. è appena il
caso di ricordare che sul tema Scruton scrisse già anni addietro un saggio
filosofico notevolissimo, apparso poi anche in italiano, La bellezza.
Ragione ed esperienza estetica (Vita e Pensiero, Milano 2011) e ha realizzato
un documentario televisivo di indubbio valore, riproposto non a caso più volte on
demand (Why beauty matters) per la serie Modern beauty della
principale televisione britannica, la BBC.
L’“essere
conservatore” implica, insomma, un’accettazione fondamentale della natura umana
così come essa è, senza alcuna pretesa di ri-farla, o ri-formarla ad libitum
secondo i propri gusti: «Il conservatorismo non si preoccupa di correggere
la natura umana o di modellarla secondo una data concezione dell’uomo come
ideale soggetto capace di scelte razionali. Tenta invece di capire come le
società funzionano e di dare loro lo spazio necessario per funzionare bene. Il
suo punto di partenza è la psicologia profonda della persona umana» (p.
193).
Quindi, in
secondo luogo, il battersi per quello che Scruton chiama il «regno dei
valori» (p. 215), in opposizione al materialismo di massa che deriva
ultimamente dall’affermazione dello stile di vita dell’homo oeconomicus per
cui solo quello che si misura ha un prezzo e un rilievo sociale. In realtà, «le
cose che hanno per noi veramente un valore sono proprio le cose — come la vita,
l’amore e la conoscenza —, cui siamo restii a dare un prezzo. Il valore inizia
là dove finisce il calcolo, dal momento che ciò che conta di più per noi sono
le cose che non metteremo mai in vendita. [...] I nostri valori non
esistono, se prima non li scopriamo. Noi non viviamo con obiettivi chiari e non
usiamo la ragione solo per raggiungerli. I valori emergono dai nostri
sforzi di cooperare l’uno con l’altro: le cose a cui diveniamo più attaccati
non si possono spesso prevedere prima che ci coinvolgano, come l’amore erotico,
l’amore per i figli, la devozione religiosa, l’esperienza della bellezza. E
tutte queste cose sono radicate nella nostra natura sociale: s’impara a
comprenderle e a concentrarsi su di esse quali fini in sé solo attraverso il
dialogo con gli altri e di rado ciò accade prima di averle provate. L’economia
è la scienza del ragionamento strumentale e non può che rimanere in silenzio
davanti ai valori e, se fa finta di occuparsene, lo fa però mettendo l’homo
oeconomicus al posto che dovrebbe essere occupato dagli esseri umani veri.
Il valore si dà perché noi esseri umani lo creiamo attraverso le tradizioni, i
costumi e le istituzioni che sanciscono e promuovono la mutua responsabilità»
(p. 217).
E la prima di
queste “istituzioni”, neanche a dirlo, è la religione, che «[...] accende
una luce che parte dai nostri sentimenti sociali e si spinge fino al lontano
cosmo inconoscibile» (p. 218), come avevano intuito già due dei maestri di
sempre del miglior pensiero conservatore, ossia lo statista anglo-irlandese
Edmund Burke (1729-1797) e il filosofo e diplomatico sabaudo Joseph de Maistre
(1753-1821), i quali — studiando la Rivoluzione francese dall’inizio
alla fine, in tutte le sue fasi — avevano compreso lucidamente come la
sua cifra dominante fosse proprio quello «zelo anti-religioso» (p. 218),
che mirava a impossessarsi delle anime dei francesi, piuttosto che e prima ancora
di abbattere il potere sociale delle strutture ecclesiastiche o le sue
proprietà visibili.
Una lezione,
tuttavia, non compresa purtroppo appieno dai loro discepoli e da quanti —
da allora in poi —, in un modo o nell’altro, si sono richiamati pubblicamente,
in Gran Bretagna come nel resto d’Europa, al loro ricco magistero intellettuale
con il risultato — fra l’altro — di smarrire drammaticamente
anche a livello popolare, oltre che delle élite, quei riferimenti autorevoli
che pure parte della cultura anti-progressista della modernità aveva prodotto.
Omar
Ebrahime
* In
questo articolo riprendo, rielaborandola, parte della mia premessa al volume Alle
origini del conservatorismo americano. Orestes Augustus Brownson: la vita, le
idee, D’Ettoris Editori, Crotone 2013.
[1] Le Roi, la Charte, et les Honnêtes Gens è il
sottotitolo della testata; cfr. Jerry Z.
Muller, Conservatism. An Anthology of Social and
Political Thought from David Hume to the Present, Princeton University Press,
Princeton (New Jersey) 1997, p. 26, cit. in Brian
R. Farmer, American Conservatism. History, Theory, and Practice,
Cambridge Scholars Press, Newcastle (Regno Unito) 2005, p. 7. Le Conservateur esce
a Parigi dall’ottobre del 1818 al marzo del 1820, dopo la caduta del governo di
Élie Decazes (1780-1860) e il ristabilimento della censura, con l’aiuto del
fratello di re Luigi XVIII di Borbone (1755-1824); tra i fondatori Jules
Auguste Armand Marie de Polignac (1780-1847), Mathieu Jean Félicité de
Montmorency-Laval (1766-1826), Joseph de Villèle (1773-1854) e l’abbé Hugues-Félicité
Robert de Lamennais (1782-1854). François-René de Chateaubriand (1768-1848) non
fa parte dei fondatori, ma è la guida intellettuale della rivista (cfr. Le
Conservateur, Le Normant Fils, Parigi 1818-1820; della rivista vennero
pubblicati 78 numeri: i sei volumi in cui sono stati raccolti sono visibili — e
scaricabili — in forma digitalizzata sia da Googlebooks, sia da Internet
Archive).
[2] Sul concetto di “destra di riporto”, che caratterizza
le principali fasi del processo rivoluzionario, cfr. specialmente Giovanni Cantoni, L’Italia fra
Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, saggio introduttivo a Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), Rivoluzione
e Contro-Rivoluzione, trad. it., 3a ed. it. accresciuta,
Cristianità, Piacenza 1977, pp. 7-50 (p. 20) (del testo di De Oliveira, Cantoni
ha curato anche una Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali
della “fabbrica” del testo e documenti integrativi (Sugarco, Milano 2009),
in cui il saggio introduttivo da cui cito è omesso).
[3] Cfr. «È vero che la società è un contratto, ma un
contratto di ordine superiore. [...] Bisogna guardare allo Stato con ben
altra riverenza, perché è questo un contratto che riguarda ben altre esigenze
di quelle pertinenti agli interessi animali di una natura effimera e
corruttibile. È questo un contratto che ha in sé tutte le arti, tutte le
scienze, tutte le virtù e la più grande perfezione. E siccome il fine di tale
contratto non è perseguibile che nel corso di molte generazioni, ecco che
questo contratto non vincola solo i vivi, ma i vivi, i morti e coloro non
ancora nati» (Edmund Burke, Riflessioni
sulla Rivoluzione francese e sulle deliberazioni di alcune società di Londra ad
essa relative: in una lettera destinata ad un gentiluomo parigino, in Idem, Scritti politici, a cura di
Anna Martelloni, UTET. Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1963, pp.
144-443 (p. 268)).
[4] Benedetto XVI,
Il Concilio Vaticano II quarant’anni dopo. Discorso di Sua Santità Benedetto
XVI ai cardinali, agli arcivescovi, ai vescovi e ai prelati della Curia Romana
per la presentazione degli auguri natalizi [del 22 dicembre 2005], Libreria
Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006, pp. 12-13.
[5] Cfr. Russell A.[mos] Kirk, Ten
Conservatives Principles, in Idem,
The Politics of Prudence, ISI Books, Bryn Mawr (Pennsylvania) 1993, pp.
15-29; trad. it., L’essenza del conservatorismo, in Cultura&Identità.
Rivista di studi conservatori, anno IV, n. 18, Roma luglio-agosto 2012, pp. 31-36.
[6] Cfr. «Non ritiro, non critica negativa [...]
si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso
di essa. Perché con tutta la gioia di fronte alle possibilità dell’uomo,
vediamo anche le minacce che emergono da queste possibilità e dobbiamo
chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e fede si
ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata
della ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento, e dischiudiamo ad essa
nuovamente tutta la sua ampiezza» (Benedetto
XVI, Discorso pronunciato in occasione dell’incontro con i
rappresentanti della scienza nell’aula magna dell’Università di Regensburg, in
occasione del suo viaggio apostolico a München, Altötting e Regensburg [Germania](9/14-9-2006),
alla pagina
,
consultata il 3-3-2016).
[7] Cfr. «La vera tradizione è
critica e, senza
distinguo, il passato non serve più a niente, i suoi
successi cessano d’essere esempi, i suoi rovesci d’essere lezioni»; nonché:
«In ogni tradizione, come in
ogni eredità,
un essere ragionevole fa e deve fare la defalcazione del passivo» (Charles Maurras,
Mes idées politiques, 1937, con una prefazione di Pierre Gaxotte
(1893-1982), Fayard, Parigi 1968, p. 134; trad. it., Le mie idee politiche,
Volpe, Roma 1969).
[8] Sull’involuzione dirigistica ed elitistica in atto
nella ruling class americana, cfr. l’acuta e “fresca” analisi dello
studioso italoamericano Angelo M.[aria]
Codevilla, La classe dominante, trad. it., Grantorino, Torino
2011.
[9] Per una illuminante trattazione del tema del
federalismo e della differenza essenziale tra federalismo politico e federalismo
sociale, cfr. Gonzague de Reynold
(1880-1970), Conscience de la Suisse. Billets a ces Messieurs de
Berne, 5a ed. definitiva, Éditions de La Baconnière, Neuchâtel
1941 (1a ed. 1938), pp. 85-126; il brano è tradotto in Cristianità,
anno XXIV, n. 256-257, Piacenza agosto-settembre 1996, pp. 7-16.
Il termine 'conservatore' evoca, da sempre, l'opposizione ad ogni cambiamento, che si rivela poi quasi sempre illusorio ( 'si stava meglio quando si stava peggio!'), che dovrebbe migliorare una situazione giudicata negativa. Nella Chiesa ( 'rimasta indietro di 200 anni' ?!?, Martini)l'ideologia modernista del 'tutto sbagliato' esplosa con il CVII con il suo odio contro la tradizione, ha prodotto effetti devastanti. La gerarchia adeguata e carrierista dovrebbe avere l'onesta intellettuale di meditare sui dati statistici che mostrano l' inarrestabile perdita della fede cattolica e l'abbandono .
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