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sabato 25 marzo 2017

Chi è conservatore?


Dall'interessante rivista Cultura e Identità. un interessante e approfondito  saggio dello studioso Oscar Sanguinetti con un ' addenda su Roger Scruton.
L

di Oscar Sanguinetti, n.  11 del 9-3-2016, 


Il significato del termine “conservatore” si può dire abbia riportato un numero inverosimile di torsioni e di distorsioni — basti ricordare i “comunisti conservatori”, nemici di Mikhail Gorbaciov al tempo del tentato golpe contro la perestrojka nel 1991 — nel corso del tempo. Vediamo se è possibile, in questa sede, anche se poco propizia per ragioni di spazio e di corredo critico necessariamente scarno, fare un minimo di chiarezza in materia.

1. Chi non è conservatore

Il termine “conservatore” fa la sua comparsa nel 1818 come titolo di un periodico monarchico francese, Le conservateur, che si prefiggeva di «[...] sostenere la religione, il Re, la libertà, la Carta e la gente rispettabile»[1]:
esprimeva dunque un orientamento spiccatamente e prioritariamente legittimistico, costituzionalistico e “d’ordine”. Tre elementi — la legittimità di origine e di esercizio del potere, un framework di libertà garantite da una carta fondamentale e il desiderio di ripristinare un ordine violato — che si ritroveranno, più o meno accentuati, in tutti i fenomeni di tipo conservatore.
Se questo dice già parecchio, quella di conservatore — come capita con i sostantivi mutuati da verbi di azione — è una nozione il cui contenuto si focalizza meglio per differenza e per contrasto.
Conservatore, ieri come oggi, non è il reazionario, né il legittimista, né il tradizionalista, né il liberale “di destra”, né il “nazionalista” — più o meno “popolare” —, né il fascista, né — in tempi più recenti — il “golpista”, né — invece da sempre — lo xenofobo e nemmeno il populista — che sta oggi tornando in grande spolvero.
Se brandelli di conservatorismo, anche di principio, si rinvengono in forma più o meno consistente in ciascuna di queste posizioni, nessuna di esse però si può ritenere autenticamente conservatrice. S’impone, anzi, una distinzione netta fra l’atteggiamento conservatore in quanto tale e l’oggetto nei cui confronti questo atteggiamento si esplica. Oggi con tutta evidenza il termine viene usato per “coprire” realtà assai diverse e distanti fra loro, ovvero capita che il termine sia utilizzato in senso puramente dialettico per connotare negativamente o “tecnicamente” chi nel frangente concreto si oppone a una determinata posizione “ulteriore”, indipendentemente dalle idee realmente in questione. Il conservatorismo vero nomine privilegia un patrimonio ben preciso di princìpi e di valori e si differenzia dal puro conservatorismo come habitus psicologico. A esemplificare questo secondo fenomeno, vi è stato chi — e non si è trattato di pochi esagitati —, nel 1943 ha ritenuto di preferire la Repubblica Sociale Italiana, guidata dall’astro ormai al suo tramonto di Benito Mussolini (1883-1945), al Regno del Sud, perché in maggiore “continuità” con il regime fascista decaduto…
In generale, se vediamo l’età contemporanea come una dinamica pluriforme di mutamenti a carattere processuale — da un “meno” a un “più” per i fautori del “progresso” e da un “più” a un “meno” per chi vi si oppone —, in essa si nota come ogni stadio del suo sviluppo tende costantemente a generare atteggiamenti radicali, di “fuga in avanti”, che hanno come contraccolpo atteggiamenti “conservatori”. Si pensi, per fare un esempio, al liberalismo conservatore della fine del secolo XIX, in cui prevale il desiderio di difendere le conquiste della sua fase “aurea”, quella “rivoluzionaria”, che a metà del secolo ha smantellato ciò che restava del “vecchio regime”, contro l’avanzante socialismo[2]. Oppure al bonapartismo storico, come forma di moderazione ma, nel contempo, di conservazione e di dilatazione delle conquiste del 1789-1793.

2. Chi è conservatore

Allora, se si vuole realmente comprendere il senso della parola “conservatore”, corre l’obbligo di ancorarne il senso a qualcosa di non transeunte o di soggettivo o di meramente relativo.

2.1 Il conservatore

In questa prospettiva, allora, conservatore, è chi, persona o dottrina, si sente legato in qualche misura a un determinato retaggio di cultura e di modelli di rapporti sociali che considera universale e perenne e che, in aggiunta, preferisce, almeno “in prima battuta”, accedere e sfruttare tale retaggio, mettendosi in continuità con il passato, per progettare e per governare la società presente e per progettare e promuovere lo sviluppo della società futura, piuttosto che desiderare la palingenesi della società del proprio passato, in forme rivoluzionarie o riformistiche radicali, e la sua riprogettazione in base a criteri nuovi e razionali, presunti perenni e universali.
È questa una definizioneovviamente criticabile e sempre suscettibile di arricchimentoche contiene tre elementi fondamentali:

a) un preciso insieme di princìpi e di valori,
b) oggetto di ricezione, ancorché con “beneficio d’inventario”, dal passato e di trasmissione, arricchito, alla generazione futura (metodo della tradizione),
c) nonché un modo di esercitare l’autorità e di progettare la società, ispirato alla riforma nella continuità con tale nucleo di principi e di valori.

Il conservatore, come dirà bene Edmund Burke (1729-1797), non vede solo la società fatta dai viventi suoi contemporanei, ma quella costituita da chi è vissuto prima e da chi vivrà dopo di lui[3].
Il conservatore autentico, dunque, non è un misoneista, né un fissista, bensì un riformista che vuole il progresso, ma nel perfezionamento continuo dell’organismo sociale così come esso è e nella fedeltà ai suoi princìpi fondativi originari.
Papa Benedetto XVI (2005-2013), pur con riferimento a realtà di altro ordine, ha utilizzato una triade di termini esplicativi che mi pare, servata distantia, assai felicemente applicabile al conservatorismo. Parlando dell’ermeneutica del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), egli ha affermato che la lettura autentica degli insegnamenti di quel concilio è quella che si pone nell’ottica della «riforma nella continuità del medesimo soggetto-Chiesa»[4]. Dunque, l’innovazione introdotta dal Vaticano II avrebbe comportato tre elementi: a) una riforma, cioè un mutamento di forma, b) operato da un soggetto — nella fattispecie la Chiesa fondata da Gesù Cristo —, che è rimasto il medesimo di prima, perché c) il cambiamento attuato, anche in profondità, si è posto in continuità con il passato, ovvero non ne ha mutato la natura, ma l’ha adattata al nuovo tempo.
In analogia — si badi bene: solo in analogia e allo scopo di meglio intendere — con questo magistrale e conciso insegnamento teologico — in fin dei conti, frutto di puro buon senso —, conservatore è allora chi comprende che il tempo che scorre esige cambiamenti di maggiore o minore rilevanza nell’organismo collettivo di cui fa parte, sia esso la famiglia o la società nel suo complesso, ma li attua, così come avviene nella crescita degli organismi naturali, in continuità con il passato dello stesso organismo e senza mai mutarne la costituzione formale o implicita.

2.2 Il progressista

Il contrario del conservatore è il progressista: questi, se non adora il cambiamento per il cambiamento, esprime un apprezzamento pregiudiziale per ciò che viene dopo, per il presente, per il “moderno”, ovvero erige a criterio di valore non tanto quello che l’“età moderna” contiene — e nell’età moderna vi è tutto e il contrario di tutto —, bensì, in coerenza con la semantica del termine, solo ciò che è recente, “nuovo”, “alla moda”. Assume ciè per definizione che ciò che viene dopo sia superiore in qualità a ciò che era prima, sottintendendo che quanto è oggi è necessariamente migliore di ciò che era ieri.
Non solo: siccome l’oggi muta in continuazione, il progressista si pone quindi in una logica valoriale perpetuamente mutevole, perennemente in stato di transizione. Se il conservatore “pende” dal lato dell’essere, di ciò che è permanente, stabile, che può variare nel modo ma non nella sostanza, il progressista “pende” dal lato del divenire e, nelle forme estreme dei suoi assunti, come nel caso del nichilismo e del de-costruzionismo tardo-novecenteschi arriva al punto da negare non solo il primato dell’essere, ma anche la possibilità stessa di essere, smette di rivendicare l’assolutezza della soggettività e la relativizza.
Il progressista svaluta il passato in quanto tale — non per nulla, per i rivoluzionari francesi tutto quanto di politico era esistito prima del 1789: la monarchia, i parlamenti, i ceti, i pays, un millennio di storia della nazione francese, è indistintamente “antico regime” —; antepone l’apprezzamento del cambiamento a quello di ciò che esiste e che è stato vissuto, capitalizzato, arricchito, individualmente e socialmente, nel tempo; privilegia, al contrario, un futuro idealizzato, quasi sempre pensato in ricollegamento con una “origine” presunta e idealizzata — ergo utopistica —, al passato sperimentato e collaudato, nel bene e nel male.
L’opposto del conservatore predilige la deduzione teorica e astratta — nel senso comune del termine — rispetto all’analisi empirica del reale e del reale storico; vive in una perenne tensione verso un nuovo e diverso status quo; l’eredità dei princìpi e dei valori del passato gli pare inutile; ama forme di azione “di rottura”, siano esse a modalità “pacifica” e a moto lento — riformismo “rivoluzionario” — oppure adottino un’andatura veloce — rivoluzionarismo tout court: dai “giacobini” ai “rivoluzionari di professione”.

2.3 Le condizioni del conservatorismo e del progressismo

Affinché si originino posizioni e forze conservatrici in senso proprio — così come forze progressiste —, occorre che vi sia un “ambiente” che lo consenta, una condizione preliminare, un humus in cui esse possano prendere liberamente forma. In àmbito politico, cioè nella sede dove vengono prese le decisioni in nome e per conto dei membri della società, ciò può avvenire quando il sistema preveda il libero confronto di forze portatrici di visioni diverse del presente e del futuro della società, ossia vi sia un relativo pluralismo.
Senza escludere che ciò possa avvenire in modalità particolari e attraverso canali informali — quanto meno in assetti sociali complessi —, quindi, al limite, anche all’interno di regimi autocratici o “assoluti”, più tipicamente questo ambiente si concretizza negli ordinamenti di tipo costituzionale-parlamentare, come quelli britannici successivi al 1688 e quelli che nascono nella e all’indomani della Rivoluzione del 1789 in Francia. Nei parlamenti pre-moderni come quello britannico, vi è sempre stata una polarità fra “partito del re” e “partito del parlamento”, in cui si rifletteva la dialettica fra potere monarchico, corpi del regno — le aristocrazie — e rappresentanza dei corpi della nazione. In genere, il “partito del re” aveva tendenze più marcatamente continuistiche e quello del “parlamento” coltivava maggiori istanze libertarie, in entrambi i casi con riferimento a patti sociali e a “carte di diritti” originari, scriti o non scritti. Altrettanto avveniva nei parlamenti, centrali o regionali, delle altre monarchie europee, dove la dialettica in genere era ristretta a quella fra potere monarchico e poteri dell’aristocrazia terriera.
Ma, in entrambi i contesti, non era detto che il “partito del re” fosse il partito conservatore: specialmente quando si entra nell’età dell’assolutismo monarchico, più o meno illuminato, i parlamenti attuano forme di resistenza — se non di conflitto — sempre più intense, rivendicando i diritti sociali negati o limitati dalla dilatazione del potere del sovrano.
Quello che distingue le forme parlamentari e i processi di decisione per consenso esteso di prima del 1789 da quelle del parlamentarismo moderno è la presenza di un pluralismo ideologico accentuato fra i vari gruppi assembleari; l’esistenza di una carta fondamentale formalmente redatta e promulgata che fa da cornice e da limite al gioco politico; regole formali rigide; e una rappresentanza su base individuale e più o meno egualitaria ed estesa.
Tutto questo breve excursus eziologico serve a dire che di conservatorismo — così come di liberalismo — vero nomine si può cominciare a parlare solo dopo la Rivoluzione francese.

3. Che cosa comporta essere conservatore

3.1 Il “decalogo” del conservatore

L’essenza del pensiero conservatore — di quello fiorito negli Stati Uniti d’America, ma con buona approssimazione anche di quello europeo — è riassunta dal politologo e letterato americano del secolo scorso Russell Amos Kirk (1918-1994) in dieci caratteri principali[5]: a) la fede in un ordine morale perenne; b) la fiducia nelle usanze, nelle convenzioni e nella continuità; c) la dispensa dal dovere di  giustificare determinati istituti e valori, cui basta la loro antichità; d) la pratica del “principio di precauzione” in politica; e) la propensione per la varietà e non per l’uniformità; f) la diffidenza verso il “perfettismo” e verso chi sostiene l’infinita perfezionabilità della natura umana; g) la credenza che esista un legame strutturale fra proprietà e libertà; h) l’amore per la comunità e l’avversione per il collettivismo; i) la preferenza per un potere politico ridotto rispetto alla società; l) il riconoscimento della necessità di conciliare elementi di permanenza ed elementi di cambiamento in relazione alla società.

3.2 Conservatore e contro-rivoluzionario

Come nel caso di altri termini — si pensi alla stessa espressione, già menzionata, di “antico regime” —, la semantica di “conservatore” appare oggi influenzata nettamente in senso negativo dal paradigma dinamico-dialettico che domina nel pensiero moderno in Occidente, almeno a partire dall’Illuminismo. Chi professa un determinato insieme di idee non è giudicato in base a esse, bensì dal suo atteggiamento, favorevole o contrario, dal suo posizionamento, positivo o negativo, all’interno del flusso unidirezionale e fatalmente ascendente cui è ridotta la storia umana. Sicuramente, chi alla fine del Settecento coltivava idee “conservatrici” non si sentiva, né si autodefiniva conservatore. Magari “partigiano del re”, lealista, filo-aristocratico o semplicemente “uomo d’ordine”, con propensione a fare “come i nostri vecchi”: il vecchio mondo nel suo empirismo rifuggiva dai concetti e dalle terminologie generali e astratte.
Storicamente, per quanto detto prima, la figura del “conservatore” prende corpo in un contesto di alta pressione rivoluzionaria, in una condizione in cui la negazione del passato e la volontà di fare tabula rasa dell’intero mondo “antico”, dagli Egizi o dai Sumeri fino a Luigi XVI di Borbone (1754-1793), sono espresse non più in forme accademiche o nel chiuso apparentemente innocuo delle logge, ma si trovano incarnate in movimenti concreti, che a poco a poco smantellano la vecchia Francia e la vecchia Europa per creare un ordine nuovo. Per questo l’atteggiamento del conservatore a quel tempo non può non essere prioritariamente reattivo e contro-rivoluzionario e, sotto questo profilo, la vicenda umana di Edmund Burke è esemplare.
La parola “contro-rivoluzionario” pone maggiormente l’accento, appunto, sul momento “insorgente” e autodifensivo, diagnostico e terapeutico immediato, ma negli anni della tragica dittatura giacobina imporsi un atteggiamento diverso è davvero impensabile.
E lo stesso avverrà, tutto sommato, ancora nel corso della Restaurazione, quando i pochi uomini politici conservatori, quali Antonio Capece Minutolo (1768-1838), principe di Canosa — in seno alla monarchia napoletana —, e, più tardi, il conte Clemente Solaro della Margarita (1792-1869) — nel regno sabaudo — si accorgeranno che la reazione dei sovrani era ben lungi dal voler realmente soffocare tutti i fermenti rivoluzionari manifestatisi del trentennio precedente e inibiva la ricostruzione dei “tessuti connettivi” sociali e religiosi corrosi e bruciati dalla Rivoluzione.
Ma, a mio avviso, anche se nell’Età Moderna i fenomeni rivoluzionari, grandi e piccoli, costituiscono senza ombra di dubbio la dominante, l’atteggiamento contro-rivoluzionario si pone al conservatorismo come la specie al genere.

3.3 La “ragione conservatrice” e l’ordine naturale

Osservando più da vicino i contenuti, le idee conservatrici, fra gli elementi che formano la continuità eretta a principio, privilegiano specialmente quelli che la ragione concepisce come “naturali”, cioè tutti quei presìdi e sussidi organizzati e riconosciuti — ovvero istituzionalizzati —, di cui l’esistenza materiale e morale, individuale e comunitaria, dell’umanità necessita assolutamente. La logica che anima il conservatore non è riconducibile a quella ragione che “costruisce” il reale, come nel caso dell’idealismo, o lo “de-costruisce”, come nel caso del pensiero “debole” postmoderno, ma della ragione “realista”, capace cioè di riconoscere che è altro rispetto al soggetto — le cose e le altre persone —, di conoscerlo in maniera sufficiente, ancorché non perfetta, di riconoscervi impresso altresì un logos, un criterio, un ordine, che non è l’uomo — bensì il Logos divino — a instaurare e regolare. Una ragione che non si limita alla logica delle scienze esatte, ma si lascia illuminare dalla logica ordinaria, dal common sense, dal comune lume di ragione naturale, dalla “ragione allargata”[6], che tiene conto dell’ordine naturale — rammentando che “naturale” viene da “nascor”, cioè dice riferimento a qualcosa di nativo che non dipende da noi — e di quanto è costante nella storia, quindi nell’identità, di un popolo e di tutti i popoli.
Il conservatore è attento per prima cosa ai delicati capisaldi immateriali e materiali che presiedono alla vita dell’individuo nella collettività: i costumi e i riti religiosi; il diritto a nascere e a vivere; il retto uso di ragione; l’esistenza, l’organicità e la personalità dei vincoli sociali; gli istituti di vita collettiva sperimentati nel tempo; l’anteriorità dell’individuo e della società rispetto allo Stato; la proprietà del frutto del proprio lavoro e dei beni ereditati; la libertà economica; la sussidiarietà dei ruoli sociali; l’onestà dei costumi; l’autonomia di governo del territorio e la sovranità relativa dei corpi intermedi; il primato delle appartenenze corporate rispetto ai diritti individuali; un amore di patria non astratto, né sentimentale — l’amor patrio dei “giacobini” o dei romantici —, né autoreferenziale; l’autorità e la gerarchia; il rispetto dell’uomo religioso e del miles.
A questa mini-summa di princìpi e di valori — che non ha alcuna pretesa di essere completa o definitiva — il conservatore associa il metodo della tradizione, ovvero la trasmissione preferenziale dei valori, dei saperi e delle tecniche umani attraverso i legami che si creano fra le diverse generazioni, soprattutto lungo le delicate nervature parentali, prima articolazione del nucleo primordiale della società, cioè della famiglia.
Anzi, quello familiare è in certa misura il modello che tutte le altre articolazioni della società umana devono ricalcare, dall’autorità politica alle professioni, all’impresa, alla scuola. Il Medioevo, una età in cui l’atteggiamento conservatore è stato dominante, ha posto — con le debite eccezioni, che però non inficiano l’analogia — al vertice della società politica una famiglia regnante e una dinastia; ha governato le attività economiche attraverso la corporazione, dove il magister artium era per i giovani apprendisti il sostituto temporaneo del padre; ha dato all’educazione intellettuale, tanto elementare, quanto universitaria, la forma dell’affido da famiglia a famiglia — naturale o spirituale —; ha costruito le sue gerarchie sul rapporto vassallatico, e così via.
Ciò detto, paiono necessarie almeno due puntualizzazioni.

3.4 «La tradizione è critica»

La prima è che il pregiudizio favorevole nei confronti dell’esistente che anima il conservatore non è, comunque, il criterio determinante e ultimo delle sue scelte. Il leader dell’Action Française — movimento, che per più di un aspetto, anche se non per tutti, si può ascrivere al mondo conservatore —,  Charles Maurras (1868-1952), scriveva nel 1937 che «la tradizione è critica»[7], vale a dire che mantenere la continuità con quanto ci precede è la miglior regola, purché però quanto viene trasmesso — per inerzia generazionale o volontariamente — e ricevuto sia qualcosa meritevole di essere mantenuto: attaccarsi, per esempio, a un regime totalitario solo perché c’è o perché c’era prima non può essere assunto come esempio di sano conservatorismo...
Nel depositum di princìpi e di valori, di giudizi e di credenze capitalizzato dalle generazioni e che arriva fino al suo presente il conservatore dunque scevera il “grano” dal “loglio”, ciò che è buono da ciò che è cattivo, ciò che è perenne da ciò che è accumulo accidentale e transeunte, e da ciò che è solo vetusto: in altre parole, trattiene ciò che è vivente e abbandona ciò che è “morto”.  Questa azione di discernimento e di discriminazione può avvenire tuttavia solo in presenza di un criterio che svincoli dal contingente. Il conservatore rinviene l’elemento di continuità nell’ordine del creato, nella retta nozione di umanità e nella conformità al diritto naturale, nell’attenzione una rivelazione originaria: dimensioni tutte che sfuggono al perpetuo mutamento che avviene nella storia.
Tutto ciò che è abusivo, frutto di convenzione caduca, di stereotipo, di conformismo o cliché inverificato, interesse personale, prassi abitudinaria, cade invece al di fuori di questo nucleo “duro e puro” ed esula dalla sfera di un corretto atteggiamento conservativo.

3.5 Conservatorismo, religione, forma politica e opzione economica

La seconda puntualizzazione dice che il patrimonio di princìpi e valori del conservatorismo non è determinato strettamente da scelte di fede — cristiana o di altra natura — o preferenze di regime politico — monarchia o repubblica — o di sistemi economici — liberismo o solidarismo —, e così via. Vi sono stati cristiani rivoluzionari, monarchici eversivi, pseudo-solidarismi che hanno affamato il popolo. Così come vi sono stati e vi sono protestanti che hanno conservato vivo il senso della tradizione, repubblicani nemici del radicalismo anti-monarchico, liberisti politicamente non relativisti.

4. Breve digressione sull’oggi e sull’Italia

Mi permetto a questo punto una breve digressione rivolta all’oggi.
Se in Europa il conservatorismo rimanda in essenza a un nucleo di princìpi — ovviamente non di forme — risalente a prima dell’Ottantanove, nel mondo nord-americano il conservatorismo si esprime in riferimento ai diritti umani perenni, alla tradizione e alla simbologia bibliche, nel quadro “laico” di valori e di limiti fissati dalla Costituzione federale: la lotta politica, il confronto fra conservatori e liberal, si sviluppa per lo più intorno al tentativo di dare maggior o minor risalto a questo o a quel punto del dettato delle Carte fondamentali. In America non è neppure pensabile di contrapporre la Costituzione al disegno conservatore — o presunto tale — al fine di “stopparlo”, anzi i conservatori reagiscono contro ogni “torsione” in senso progressista della carta federale.
In Italia, viceversa, ogni fondata critica al regime politico sotteso alla Costituzione repubblicana del 1948, nonostante i sempre più netti limiti che questa evidenzia, cozza contro la Costituzione, venendo censurata preventivamente, in un evidente gioco “conservatore” alla rovescia, che cioè difende gl’ideologismi inscritti nella Carta come frutto del compromesso fra cattolici-democratici, comunisti e liberali contro ogni evidenza empirica dei suoi limiti. Quanto la Costituzione, nei valori e nei meccanismi politici identificati, sia “afona” o equivoca o disattesa rispetto al mutare della realtà lo dimostra in maniera incontrovertibile il numero ormai incalcolabile di forzature che il suo dettato ha subìto, dal ruolo esorbitante del presidente della Repubblica, alla pratica auto-referenzialità  della magistratura, alle prassi parlamentari coartate, al ruolo mai disciplinato dei sindacati dei lavoratori, all’istituto della famiglia naturale mai veramente tutelata e sostenuta.
In Italia un programma conservatore difficilmente può pensare di prescindere, almeno sul lungo periodo, da un riallineamento “progressista” — che cioè tenga conto del tempo trascorso — e un sano “aggiornamento” della Carta fondamentale dello Stato, fin dalla nascita troppo “asimmetrica” rispetto all’ethos profondo di una delle più antiche nazioni e culture del mondo; eccessivamente affollata di paradigmi propri di ideologie che hanno dichiarato bancarotta dopo il 1989; e anche tecnicamente piena di lacune e di elementi cautelativi oggi privi di senso.
Al contrario, la strategia conservatrice statunitense sottolineare gli aspetti della Costituzione americana più libertari, più favorevoli al singolo, più ostili allo statalismo, che riflettono meglio la cultura anglo-sassone delle origini, una cultura ancora largamente ispirata da paradigmi premoderni, che le successive incrostazioni progressiste hanno a poco a poco nascosto, almeno fino alla metà del secolo scorso. Mentre i progressisti si adoperano per scardinare gli impedimenti che la vecchia Carta libertaria, ma fondata sul common sense e sul riconoscimento “laico” del dato religioso e dell’ordine creato, pone al progetto del Big Government e del dirigismo dei “puri”[8].
La società, l’ordine collettivo, che i fondatori degli Stati Uniti hanno delineato e i conservatori americani vero nomine del Novecento si sono sforzati di far riaffiorare e di salvaguardare, almeno nelle sue linee portanti può essere forse giudicata da un conservatore europeo un regime spurio, troppo pieno di elementi “democratici”, eccessivamente individualistico e troppo pluralistico in campo religioso.
In realtà, le conseguenze della presenza e delle virtualità conservatrici insite nella costituzione degli Stati Uniti, in virtù del loro anti-assolutismo genuino e radicale, del loro nativo federalismo statale e sociale[9], sono molte e dirompenti.
A differenza dell’Europa, negli Stati Uniti la religione è la sostanza, il substrato dell’ethos pubblico laico; sebbene controverso, vi è il diritto per il cittadino di portare liberamente le armi; non esistono i prefetti; i pubblici accusatori; i giudici; i poliziotti e gli sceriffi; gl’insegnanti; persino i pastori delle comunità religiose, sono tutte cariche o funzioni pubbliche a nomina popolare.
La rappresentanza politica nazionale è su base individuale, ma viene abbondantemente corretta dalla rappresentatività dei singoli Stati. Le legislazioni, anche le norme fiscali, a livello degli Stati non sono tutte identiche. Gli Stati Uniti non conoscono carta d’identità, né coscrizione obbligatoria, né cimiteri municipali. Non vi sono monopoli, né tasse sui petroli e sui tabacchi. Fino ad anni recenti non esistevano assicurazioni — previdenziali o civili — obbligatorie. Le tasse non sono ad aliquota progressiva e non sono trattenute in anticipo — che il datore di lavoro possa essere il “sostituto d’imposta” è letteralmente impensabile —, ma pagate ex post: non sono esose, ma la loro esazione è rigorosa e pesanti sono le pene per gli evasori. Non esiste liquidazione di fine-rapporto di lavoro. L’assistenza sanitaria è stata per secoli — fino alla contestata riforma “Obamacare” (ovvero il Patient Protection and Affordable Care Act del marzo 2010) — in larghissima misura privata, così come la scuola pubblica “di ogni ordine e grado”, dall’asilo al collegio universitario. Addirittura, è una realtà diffusa e riconosciuta la prassi dell’homeschooling, ovvero l’istruzione primaria impartita dalla famiglia o da gruppi di famiglie a casa propria. Il diritto civile e penale è di tipo consuetudinario: non esistono codici, in perenne riforma e in cangiante ermeneutica. La maggior parte dei servizi pubblici, dai telefoni ai trasporti, è affidata a soggetti non statali. E l’elenco potrebbe continuare...
In conclusione, in America le strutture pubbliche sono mantenute al livello del minimo necessario e lo Stato — autentico “sogno proibito” del conservatore europeo — vi si mantiene incomparabilmente più “leggero”, nonostante gli sforzi verso il “big government” — cioè la dilatazione della sfera governativa nella prospettiva di uno Stato sociale all’europea — dei liberal.

5. Concludendo...

Concludendo, un conservatorismo che voglia dire la sua nel futuro del nostro Paese dovrebbe tornare a riconsiderare la propria identità nei termini che ho cercato di descrivere e che mi paiono il cardine di un qualunque programma politico con esso coerente; inoltre dovrebbe far tesoro delle esperienze fatte oltre Atlantico, sia nel momento fondativo, sia nella vicenda politica ormai plurisecolare che ruota intorno alla difesa critica dell’eredità del passato da ogni abusivismo “progressista” e alla edificazione di una società del terzo millennio in continuità con le origini e con l’identità autentiche della nazione.
Omar Ebrahime presenta l’ultimo saggio dello scrittore conservatore inglese Roger Scruton, da poco apparso in traduzione italiana. Una mappa aggiornata del suo pensiero e un compendio ordinato dei molteplici spunti e riflessioni di intonazione conservatrice che l’autore ha disseminato nei numerosi volumi da lui editi

Come e perché essere conservatori secondo Roger Scruton

di Omar Ebrahime

La collana Biblioteca di studi conservatori diretta da Oscar Sanguinetti per l’editore D’Ettoris, dopo i due profili ragionati sul sacerdote intransigente ligure don Giacomo Margotti (1823-1887) (cfr. O. Sanguinetti, Cattolici e Risorgimento. Appunti per una biografia di don Giacomo Margotti, D’Ettoris Editori, Crotone 2012) e sul pensatore cattolico convertito statunitense Orestes A. Brownson (1803-1876) (cfr. Idem, Alle origini del conservatorismo americano. Orestes Augustus Brownson: la vita, le idee, prefazione di Antonio Donno, D’Ettoris Editori, Crotone 2013) già recensite a firma del sottoscritto su questa rivista si arricchisce ora di un vero e proprio manifesto programmatico a tutto tondo della cultura conservatrice contemporanea, intesa lato sensu e non solo in senso politico-partitico.
Ne è autore il filosofo inglese, già accademico e scrittore, Roger Scruton e l’edizione italiana è a cura ancora di Sanguinetti (cfr. R. Scruton, Essere conservatore [titolo originale: How to be a Conservative], trad. it., D’Ettoris Editori, Crotone 2015, 296 pp., € 20,90).

*   *   *

Nella Premessa al saggio (pp. 7-14) è lo stesso Sanguinetti a spiegare infatti i «[...] Leitmotiv che intessono la sua  multiforme e ricca argomentazione: la credenza che vi siano nella tradizione “cose buone”, che vale la pena di conservare — o, almeno, di valutare criticamente prima di disfarsene —; quindi che la società è un organismo, che comprende i viventi, ma anche le spesso corpose vestigia di coloro che sono vissuti prima, nonché i diritti di chi ancora deve nascere; infine, che la comunità politica per essere tale deve prima essere una comunità, un soggetto collettivo strutturato: il potere politico viene dopo, essendone solo una emanazione, sì che la società non può imporre a un organismo creatosi spontaneamente nella storia nulla che non sia in perfetta linea con le tradizioni e i desiderata di questo» (pp. 12-13).
Esplicitato in termini ancora più estesi, con le parole dell’Autore nell’Introduzione (pp. 5-18), questo significa che «il conservatorismo […] afferma che noi, in quanto collettività, abbiamo ereditato delle cose buone e dobbiamo sforzarci di conservarle. Noi, eredi della parte anglofona della civiltà occidentale, sappiamo bene che cosa sono queste cose buone nella condizione in cui oggi ci troviamo: l’opportunità di vivere la nostra vita come vogliamo; la certezza dell’imparzialità del diritto, che fa sì che le nostre istanze di giustizia trovino risposta e le offese subìte siano riparate; la tutela dell’ambiente come patrimonio di tutti e che non può essere espropriato o distrutto a capriccio degl’interessi dei potenti; una cultura aperta e viva, che ha plasmato le nostre scuole e università; il metodo democratico, che ci permette di eleggere chi ci rappresenta e di promuovere quelle leggi che vogliamo siano promulgate: queste e molte altre cose ci sono ormai familiari e le diamo per scontate. Ma tutte queste cose sono oggi in pericolo e il conservatorismo è la risposta razionale a tale pericolo. Forse si tratta di una risposta che richiede doti di comprensione maggiori di quelle che la gente comune è disposta a dedicarle. Ma il conservatorismo è l’unica risposta alle realtà che oggi ci si prospettano: in questo libro cercherò di dire, quanto più succintamente mi riuscirà, perché sarebbe irrazionale darne una diversa» (p. 17).
Scruton è ben consapevole del fatto che nonostante il termine “conservatorismo” sia radicato da tempo nelle culture anglosassone e statunitense, se non altro in ragione di partiti e movimenti popolari che usano definirsi così pubblicamente argomentare in favore delle ragioni del conservatorismo e dirsi onestamente conservatori è tutt’altro che accettato ai giorni nostri, anche e soprattutto a livello educativo e culturale, dal momento che in quei campi, come in altri, ma lì particolarmente, i vertici istituzionali sono tutti di estrazione ultra-progressista e/o radical chic. Tuttavia, il conservatorismo resiste sempre e comunque a ogni tentativo di cancellazione, violenta e non, persino quando non trova un’adeguata rappresentanza politica, proprio perché rimanda istintivamente a un abito naturale prima ancora che a qualcosa di costruito intellettualmente. La prova ne è che quando amiamo qualcosa, qualsiasi cosa, in quel campo siamo tutti conservatori, per il semplice fatto che quando amiamo una cosa non la vogliamo mai perdere, né cambiare. A un livello lievemente  più alto possiamo osservare, poi, che ciò che ci garantisce le conquiste fondamentali della nostra società, quelle a cui siamo più attaccati nel vivere quotidiano, come l’esercizio personale della libertà e la tutela della proprietà, ci vengono anch’esse da molto lontano: in questo senso la giurisprudenza britannica del common law con le sue secolari tradizioni medievali valide per l’oggi per esempio, è essa stessa un simbolo parlante del valore perenne del conservatorismo (giuridico, in quel caso).
Così, si può dire che il conservatorismo rimanda anzitutto al reale e alle evidenze circostanti della realtà: ci dice chi siamo, famigliarmente, comunitariamente, collettivamente e dove abbiamo avuto origine dichiarando al contempo, ergo che cosa non siamo e che cosa non fa parte di noi. Un’ovvietà innegabile quindi dovrebbe essere che il nostro spirito profondo e la nostra civiltà anche in tempi di globalizzazione “2.0” restano ancora e sempre cristiani e non, per dirne una, atei, agnostici o musulmani. Beninteso, non è solo un dato estetico di interpretazioni gius-filosofiche dotte o un corpo di note archeologico-museali particolarmente colte a piè di pagina: è il fatto che la tradizione sociale della nostra civiltà si è costruita stabilmente intorno ai due atti principali che connotano da sempre la natura del sacrificio cristiano, ovvero la confessione e il perdono: «Chi si confessa, sacrifica il suo orgoglio, mentre chi perdona sacrifica il suo rancore, rinunciando a qualcosa che gli è caro. Confessione e perdono sono le due abitudini che hanno contribuito alla nascita della nostra civiltà» (p. 41), in cui la responsabilità personale non a caso è diventata il criterio trasversale di giudizio pubblico unanimemente riconosciuto, nell’agone propriamente politico, dove evidentemente i “governi” rispondono del loro operato al corpo elettorale, come più in generale nell’agire sociale. Per questo, chi istituzionalmente o religiosamente si pone in oggettivo contrasto con l’identità di questa tradizione assume per Scruton il volto inquietante del nemico, che sia l’agnostica Unione Europea, riflesso di «una classe politica tendente ad autoperpetuarsi» (p. 71), “costituzionalmente” negazionista verso la sua eredità cristiana, o che sia la variegata galassia dell’islam,  che per ovvi motivi la aggredisce e la combatte radicalmente, dentro e fuori i confini geografici del Vecchio Continente.

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Restano tuttavia ancora inevase le domande su come si qualifichi teoricamente il patrimonio dottrinale conservatore e che cosa lo contraddistingua in sostanza come quadro intellettuale, giacché darne una definizione rigorosa anche per uno studioso di scienza politica non risulta affatto facile. Anzi, con un paradosso, si potrebbe dire che mentre è relativamente facile definire il pensiero socialista, radicale o in ogni caso, “di sinistra”, resta, ieri come oggi, quanto mai complicato fare la stessa operazione “a destra”, se con questo termine ci si riferisce per l’appunto non alle teorie economiche liberistiche che hanno evidentemente un loro corpus ideale storicamente ben noto e nemmeno al liberalismo moderno, nelle sue varie accezioni anglosassoni o francesi originarie, quanto piuttosto al conservatorismo sociopolitico vero nomine, che si richiama allo scrigno “silenzioso” della tradizione culturale e spirituale ricevuta in eredità dai propri padri e dalle generazioni precedenti: «Quando si parla di tradizione, non s’intende un insieme di regole e di convenzioni arbitrarie: si parla delle risposte che sono state trovate a domande perenni. Queste risposte sono tacite, condivise, incarnate in pratiche sociali e in aspettative implicite. Coloro che le fanno proprie non sono necessariamente capaci di spiegarle e ancor meno di giustificarle. Per questo Burke le descriveva come “pregiudizi” e le difendeva sulla base del fatto che, anche se la provvista di ragione in ogni individuo è limitata, nella società esiste un “capitale” di ragione che si può mettere in discussione e rifiutare solo a proprio rischio e pericolo. La ragione si manifesta in ciò di cui non si ragiona, e forse non si può ragionare, ed è proprio questo che scorgiamo nelle tradizioni, comprese quelle che hanno al loro cuore l’abnegazione, come l’onore militare, i vincoli familiari, le forme e i percorsi formativi, le istituzioni caritative e le regole della buona educazione» (pp. 47-48).
A questo straordinario patrimonio “immateriale” si sono opposte, soprattutto negli ultimi due secoli, le cosiddette “ideologie”, che, con i loro particolari riduzionismi astratti, hanno preso progressivamente il sopravvento sulle esigenze della realtà: così, dal nazionalismo al socialismo, dal liberalismo al multiculturalismo, dall’ambientalismo all’internazionalismo, il saggio di Scruton è dedicato proprio a mettere sotto la lente d’ingrandimento capitolo per capitolo le singole interpretazioni parziali del reale, che, nel corso del tempo della modernità poi post-modernità —, sono penetrate nondimeno nel corpo sociale occidentale un tempo cristiano, anzi coincidente tout court con la civitas christiana, cioè l’Europa —, trasformandone idee, gusti e soprattutto comportamenti, i modi di vivere e d’intendere lo “stare insieme” e la grammatica stessa dei rapporti sociali fino a delineare quella vera e propria “società liquida”, “atomizzata”, o “a coriandoli”, per riprendere tre recenti definizioni di successo di altrettanti sociologi contemporanei in relazione alla composizione o, meglio e più precisamente, alla “disgregazione” dell’attuale società occidentale.
Per uscirne, prima che entrare direttamente nel campi di battaglia della politica parlamentare, Scruton suggerisce allora di riconquistare gli spazi di libertà perduti, anzitutto partendo dal basso, perché il conservatore si preoccupa in primis di salvaguardare l’autonomia dei corpi intermedi e dell’associazionismo locale rispetto allo Stato, il “senso comune” naturalmente presente nella società civile, a partire dalla famiglia e dalle relazioni, che si costruiscono da questa, e quindi tutto ciò che di “bello” esiste intorno a noi e contribuisce a rendere questo mondo, pur con i suoi limiti, più vivibile e “a misura d’uomo”. è appena il caso di ricordare che sul tema Scruton scrisse già anni addietro un saggio filosofico notevolissimo, apparso poi anche in italiano, La bellezza. Ragione ed esperienza estetica (Vita e Pensiero, Milano 2011) e ha realizzato un documentario televisivo di indubbio valore, riproposto non a caso più volte on demand (Why beauty matters) per la serie Modern beauty della principale televisione britannica, la BBC.
L’“essere conservatore” implica, insomma, un’accettazione fondamentale della natura umana così come essa è, senza alcuna pretesa di ri-farla, o ri-formarla ad libitum secondo i propri gusti: «Il conservatorismo non si preoccupa di correggere la natura umana o di modellarla secondo una data concezione dell’uomo come ideale soggetto capace di scelte razionali. Tenta invece di capire come le società funzionano e di dare loro lo spazio necessario per funzionare bene. Il suo punto di partenza è la psicologia profonda della persona umana» (p. 193).
Quindi, in secondo luogo, il battersi per quello che Scruton chiama il «regno dei valori» (p. 215), in opposizione al materialismo di massa che deriva ultimamente dall’affermazione dello stile di vita dell’homo oeconomicus per cui solo quello che si misura ha un prezzo e un rilievo sociale. In realtà, «le cose che hanno per noi veramente un valore sono proprio le cose — come la vita, l’amore e la conoscenza —, cui siamo restii a dare un prezzo. Il valore inizia là dove finisce il calcolo, dal momento che ciò che conta di più per noi sono le cose che non metteremo mai in vendita. [...] I nostri valori non esistono, se prima non li scopriamo. Noi non viviamo con obiettivi chiari e non usiamo la ragione solo per raggiungerli. I valori emergono dai nostri sforzi di cooperare l’uno con l’altro: le cose a cui diveniamo più attaccati non si possono spesso prevedere prima che ci coinvolgano, come l’amore erotico, l’amore per i figli, la devozione religiosa, l’esperienza della bellezza. E tutte queste cose sono radicate nella nostra natura sociale: s’impara a comprenderle e a concentrarsi su di esse quali fini in sé solo attraverso il dialogo con gli altri e di rado ciò accade prima di averle provate. L’economia è la scienza del ragionamento strumentale e non può che rimanere in silenzio davanti ai valori e, se fa finta di occuparsene, lo fa però mettendo l’homo oeconomicus al posto che dovrebbe essere occupato dagli esseri umani veri. Il valore si dà perché noi esseri umani lo creiamo attraverso le tradizioni, i costumi e le istituzioni che sanciscono e promuovono la mutua responsabilità» (p. 217).
E la prima di queste “istituzioni”, neanche a dirlo, è la religione, che «[...] accende una luce che parte dai nostri sentimenti sociali e si spinge fino al lontano cosmo inconoscibile» (p. 218), come avevano intuito già due dei maestri di sempre del miglior pensiero conservatore, ossia lo statista anglo-irlandese Edmund Burke (1729-1797) e il filosofo e diplomatico sabaudo Joseph de Maistre (1753-1821), i quali studiando la Rivoluzione francese dall’inizio alla fine, in tutte le sue fasi avevano compreso lucidamente come la sua cifra dominante fosse proprio quello «zelo anti-religioso» (p. 218), che mirava a impossessarsi delle anime dei francesi, piuttosto che e prima ancora di abbattere il potere sociale delle strutture ecclesiastiche o le sue proprietà visibili.
Una lezione, tuttavia, non compresa purtroppo appieno dai loro discepoli e da quanti da allora in poi —, in un modo o nell’altro, si sono richiamati pubblicamente, in Gran Bretagna come nel resto d’Europa, al loro ricco magistero intellettuale con il risultato fra l’altro di smarrire drammaticamente anche a livello popolare, oltre che delle élite, quei riferimenti autorevoli che pure parte della cultura anti-progressista della modernità aveva prodotto.
           
Omar Ebrahime






* In questo articolo riprendo, rielaborandola, parte della mia premessa al volume Alle origini del conservatorismo americano. Orestes Augustus Brownson: la vita, le idee, D’Ettoris Editori, Crotone 2013.

[1] Le Roi, la Charte, et les Honnêtes Gens è il sottotitolo della testata; cfr. Jerry Z. Muller, Conservatism. An Anthology of Social and Political Thought from David Hume to the Present, Princeton University Press, Princeton (New Jersey) 1997, p. 26, cit. in Brian R. Farmer, American Conservatism. History, Theory, and Practice, Cambridge Scholars Press, Newcastle (Regno Unito) 2005, p. 7. Le Conservateur esce a Parigi dall’ottobre del 1818 al marzo del 1820, dopo la caduta del governo di Élie Decazes (1780-1860) e il ristabilimento della censura, con l’aiuto del fratello di re Luigi XVIII di Borbone (1755-1824); tra i fondatori Jules Auguste Armand Marie de Polignac (1780-1847), Mathieu Jean Félicité de Montmorency-Laval (1766-1826), Joseph de Villèle (1773-1854) e l’abbé Hugues-Félicité Robert de Lamennais (1782-1854). François-René de Chateaubriand (1768-1848) non fa parte dei fondatori, ma è la guida intellettuale della rivista (cfr. Le Conservateur, Le Normant Fils, Parigi 1818-1820; della rivista vennero pubblicati 78 numeri: i sei volumi in cui sono stati raccolti sono visibili — e scaricabili — in forma digitalizzata sia da Googlebooks, sia da Internet Archive).
[2] Sul concetto di “destra di riporto”, che caratterizza le principali fasi del processo rivoluzionario, cfr. specialmente Giovanni Cantoni, L’Italia fra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, saggio introduttivo a Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, trad. it., 3a ed. it. accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977, pp. 7-50 (p. 20) (del testo di De Oliveira, Cantoni ha curato anche una Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali della “fabbrica” del testo e documenti integrativi (Sugarco, Milano 2009), in cui il saggio introduttivo da cui cito è omesso).
[3] Cfr. «È vero che la società è un contratto, ma un contratto di ordine superiore. [...] Bisogna guardare allo Stato con ben altra riverenza, perché è questo un contratto che riguarda ben altre esigenze di quelle pertinenti agli interessi animali di una natura effimera e corruttibile. È questo un contratto che ha in sé tutte le arti, tutte le scienze, tutte le virtù e la più grande perfezione. E siccome il fine di tale contratto non è perseguibile che nel corso di molte generazioni, ecco che questo contratto non vincola solo i vivi, ma i vivi, i morti e coloro non ancora nati» (Edmund Burke, Riflessioni sulla Rivoluzione francese e sulle deliberazioni di alcune società di Londra ad essa relative: in una lettera destinata ad un gentiluomo parigino, in Idem, Scritti politici, a cura di Anna Martelloni, UTET. Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1963, pp. 144-443 (p. 268)).

[4] Benedetto XVI, Il Concilio Vaticano II quarant’anni dopo. Discorso di Sua Santità Benedetto XVI ai cardinali, agli arcivescovi, ai vescovi e ai prelati della Curia Romana per la presentazione degli auguri natalizi [del 22 dicembre 2005], Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006, pp. 12-13.
[5] Cfr. Russell A.[mos] Kirk, Ten Conservatives Principles, in Idem, The Politics of Prudence, ISI Books, Bryn Mawr (Pennsylvania) 1993, pp. 15-29; trad. it., L’essenza del conservatorismo, in Cultura&Identità. Rivista di studi conservatori, anno IV, n. 18, Roma luglio-agosto 2012, pp. 31-36.
[6] Cfr. «Non ritiro, non critica negativa [...] si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa. Perché con tutta la gioia di fronte alle possibilità dell’uomo, vediamo anche le minacce che emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento, e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza» (Benedetto XVI, Discorso pronunciato in occasione dell’incontro con i rappresentanti della scienza nell’aula magna dell’Università di Regensburg, in occasione del suo viaggio apostolico a München, Altötting e Regensburg [Germania](9/14-9-2006), alla pagina , consultata il 3-3-2016).
[7] Cfr. «La vera tradizione è critica e, senza distinguo, il passato non serve più a niente, i suoi successi cessano d’essere esempi, i suoi rovesci d’essere lezioni»; nonché: «In ogni tradizione, come in ogni eredità, un essere ragionevole fa e deve fare la defalcazione del passivo» (Charles Maurras, Mes idées politiques, 1937, con una prefazione di Pierre Gaxotte (1893-1982), Fayard, Parigi 1968, p. 134; trad. it., Le mie idee politiche, Volpe, Roma 1969).
[8] Sull’involuzione dirigistica ed elitistica in atto nella ruling class americana, cfr. l’acuta e “fresca” analisi dello studioso italoamericano Angelo M.[aria] Codevilla, La classe dominante, trad. it., Grantorino, Torino 2011.
[9] Per una illuminante trattazione del tema del federalismo e della differenza essenziale tra federalismo politico e federalismo sociale, cfr. Gonzague de Reynold (1880-1970), Conscience de la Suisse. Billets a ces Messieurs de Berne, 5a ed. definitiva, Éditions de La Baconnière, Neuchâtel 1941 (1a ed. 1938), pp. 85-126; il brano è tradotto in Cristianità, anno XXIV, n. 256-257, Piacenza agosto-settembre 1996, pp. 7-16.

1 commento:

  1. Il termine 'conservatore' evoca, da sempre, l'opposizione ad ogni cambiamento, che si rivela poi quasi sempre illusorio ( 'si stava meglio quando si stava peggio!'), che dovrebbe migliorare una situazione giudicata negativa. Nella Chiesa ( 'rimasta indietro di 200 anni' ?!?, Martini)l'ideologia modernista del 'tutto sbagliato' esplosa con il CVII con il suo odio contro la tradizione, ha prodotto effetti devastanti. La gerarchia adeguata e carrierista dovrebbe avere l'onesta intellettuale di meditare sui dati statistici che mostrano l' inarrestabile perdita della fede cattolica e l'abbandono .

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